ateatro 114.82 Le recensioni di ateatro I Giganti multimediali di Federico Tiezzi I giganti della montagna di Luigi Pirandello con la regia di Federico Tiezzi di Oliviero Ponte di Pino
Un paio di stagioni dopo Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa, I giganti della montagna hanno suscitato quest’anno l’interesse di Federico Tiezzi: evidentemente l’incompiuta riflessione pirandelliana sulla difficile situazione del teatro e della cultura colpisce un nervo in questo momento particolarmente sensibile.
Nell’attualizzare il testo, Tiezzi opera alcune scelte forti e precise. In primo luogo, il finale: ne ha affidato la stesura a Franco Scaldati, che segue le indicazioni di Stefano Pirandello sulle intenzioni del padre e fa narrare la morte di Ilse da due testimoni, Quacqueo (Alessandro Schiavo) e Diamante (Debora Zuin). Poi – o meglio, per cominciare – trasforma tutti i personaggi in morti, che tuttavia hanno diversi gradi di consapevolezza rispetto al loro stato.
Ne sono consapevoli il Mago Cotrone e i suoi Scalognati, che paiono usciti da una sorta di circo metafisico. Questo stato si appoggia peraltro su alcune battute del testo, come quella di Qaucqueo: “Noi facciamo i fantasmi (....) le apparizioni, per spaventare la gente e tenerla lontana!”. Questa consapevolezza della propria morte la devono invece ancora acquisire i teatranti, gli attori della compagnia della Contessa: sono ancora emotivamente vincolati alla loro vita terrena, ai loro affetti, e tuttavia già presaghi della loro condizione; anche per questo taglio interpretativo si possono trovare supporti nelle battute di Ilse (una Iaia Forte molto lontana dalla fragilità e alle svenevolezze che di solito caratterizza il personaggio): “Quando ci si riduce così, larve di quello che fummo”; e poi, al Conte: “Tu hai la specialità di pensarci (...) quando più mi sento morta”. Naturalmente la massima consapevolezza è quella del mago Cotrone, la sua paradossale saggezza: “Potevo essere anch’io, forse, un grand’uomo (...) Mi sono dimesso. Dimesso da tutto: decoro, onore, dignità, virtù (...) Liberata da tutti questi impacci, ecco che l’anima ci resta grande come l’aria, piena di sole di nuvole, aperta a tutti i lampi...”.
La terza scelta è già implicita nella contrapposizione di circo e teatro, tra l’acrobata e l’attore, che il solito Cotrone definisce con precisione: “Voi attori date corpo ai fantasmi perché vivano – e vivono! Noi facciamo al contrario: dei nostri corpi, fantasmi: e li facciamo ugualmente vivere”. Accanto al circo e al teatro Tiezzi porta infatti in scena, all’interno della sua messinscena dei Giganti, i diversi media: nella colorata scena di Pier Paolo Bisleri, compare all’inizio un vero e proprio teatrino, nel quale agiscono i personaggi; poi verrà utilizzato come schermo cinematografico (anche qui ci sono supporti nel testo, per esempio quando Mara-Mara (Clara Galante) sentito che nel teatro della Villa “ci vogliono fare il cinematografo!”); infine, a richiamare l’impatto della televisione, ecco una colorata proiezione di cartoni animati giapponesi. Il teatrino-tempietto che campeggia al centro della scena ricorda un fondale da pittura metafisica, ma ricorda anche i giochi di costruzioni infantili: la villa degli Scalognati diventa così una sorta di Paese dei Balocchi i personaggi possono liberare la fantasia e giocare con le proprie angosce e ossessioni.
Perché questo mondo di morti e quasi morti, destinati a essere schiacciati dalla forza accattivante dei nuovi media, risulta assai allegro e colorato, a metà tra la provocazione futurista e il gioco infantile. Nei panni del mago Cotrone, Sandro Lombardi è un clown bianco con un fez che pare rubato più a un fumetto d’avventure che all’Oriente: buffo e al tempo stesso lontano, “come se la vita se n’andasse e ne rimanesse una larva malinconica nel ricordo”. Ma i suoi Scalognati (dove spicca con un fitta trama di scene e controscene la Sgricia di Marion D’Amburgo) sono colorati di una sgangherata allegria (i costumi sono di Giovanna Buzzi). Perché forse in fondo, come il regista di questo spettacolo, sanno che malgrado l’impatto dei nuovi media tecnologici, il teatro – questo gioco di fantasmi e di acrobazie – potrà sempre, in qualche modo, ribaltare il gioco, inglobare nel suo meccanismo di opera d’arte totale, inglobare cinema, televisione eccetera. Per quanto marginalizzato e negletto, nel suo “qui e ora” il teatro può giocare a prendersi rivincite come questa, all’insegna della fantasia e dell’invenzione.
D’altro canto questo filtro critico raffredda il pathos estremo del testo pirandelliano. Il palpito – o meglio, il tremito – della vita si è cristallizzato. Le ferite dei personaggi si sono raggelate nella raffinata formalizzazione degli interpreti (come l’esemplare Cromo di Massimo Verdastro). Le fratture che ancora lacerano la realtà restano appena percepibili come segnali ironici, nello slittamento dei diversi piani della rappresentazione. E’ lo stile freddo che caratterizza gli ultimi spettacoli di Federico Tiezzi: una distanza dale cuore caldo delle emozioni, una confezione impeccabile che pare alludere a un vuoto di speranza, alla sconsolante consapevolezza che la nostra azione, estetica o politica, è ormai inefficace, fine a sé stessa e autosufficiente. Ma che proprio per questo dobbiamo portarla a termine nella maniera migliore possibile, con ilare lucidità.
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