ateatro 114.65
BP04: Oltre i vincoli di genere
(emergenza danza)
di Roberto Castello
 

Nello spettacolo italiano l'emergenza non è una novità, per interi settori è una condizione endemica e non è una novità neppure che siano i giovani a pagare il prezzo più alto. Sono i meno protetti, i meno organizzati e in Italia, con ogni evidenza, vale più l'anzianità del merito.
La situazione è immobile e ingessata, i nomi dei direttori artistici delle principali istituzioni dello spettacolo sono da decenni sempre gli stessi, lo stesso è per i registi di punta e gli attori più pagati hanno età imbarazzanti. Gli Stabili pubblici e privati restano complessivamente un inespugnabile fortino della conservazione.
In questo quadro porsi il sacrosanto problema di come consentire ai giovani di formarsi al meglio rischia di essere del tutto irresponsabile dal momento che il lavoro ora come ora è poco, poco pagato e in genere poco motivante per un giovane artista inquieto.
La confusa rincorsa allo spettatore che negli ultimi decenni ha reso le stagioni e le rassegne italiane rassicuranti quanto e più della televisione e la pigrizia intellettuale di chi ha legittimato e rafforzato la convinzione che il teatro sia il luogo in cui si recitano i testi, meglio se classici, a memoria, ha messo strutturalmente ai margini del sistema tutto ciò che oggi potrebbe contribuire a dare dignità alla cultura del nostro paese, tutto ciò che ogni nuovo regolamento e disposizione di legge in teoria dice di voler innanzitutto promuovere e sostenere: la creazione contemporanea, le nuove forme della drammaturgia, la multidisciplinarità e i nuovi linguaggi di cui i giovani, a rigore, dovrebbero essere la naturale espressione.
Sarebbe davvero ora che i regolamenti venissero applicati alla lettera, anche nelle dichiarazioni di intenti. Le leggiamo dovunque da decenni e sono metodicamente disattese nei fatti. Il sospetto è che la loro vera funzione sia quella di ingannare quella vastissima, inquieta, generosa e frammentatissima galassia di artisti e operatori che, non inquadrati ed inquadrabili nei sistemi della lirica e della prosa, per questo stesso fatto, senza eccezione, lavorano al di fuori delle più elementari regole di tutela previdenziale ed assistenziale ma regalano, con la loro disinteressata energia, vitalità e legittimazione ad un sistema delle attività culturali che senza di loro non sarebbe in grado di esistere.

Per smettere di sfruttare ed iniziare ad utilizzare queste energie occorre che la politica dimentichi le corporazioni e rimuova innanzitutto i vincoli di genere, i meno adatti a definire le multiformità delle creazione artistica attuale.
La politica, almeno in ambito culturale, non deve limitarsi ad amministrare il presente, deve chiedersi come sarebbe giusto fosse il futuro ed operare di conseguenza. Gli aumenti di risorse sono del tutto inutili se, come è per lo più avvenuto in occasione del Patto per le Attività Culturali, si traducono in mere spartizioni percentuali fra i soggetti esistenti. Non saranno le poche decine di migliaia di euro elargite qui e là ai soliti vecchi soggetti a fare ripartire lo spettacolo contemporaneo.

L'emergenza è il dovere morale di smettere di sperperare il capitale umano che il nostro paese continua generosamente, ma vanamente, ad esprimere.
Ciò che occorre è una liberalizzazione che imponga il ricambio; rimuova, con una nuova legge unica per lo spettacolo, ogni discriminazione di genere e favorisca la libera circolazione delle opere, di qualsiasi tipo esse siano; premi la qualità; decentralizzi i luoghi delle decisioni favorendo la nascita di reti di nuovi luoghi e nuovi soggetti; renda complessivamente più capillare e qualitativamente alta l'offerta culturale.


 
© copyright ateatro 2001, 2010

 
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