ateatro 114.55 BP04: Essere è essere percepiti. Note evoluzioniste (emergenza, visibilità e selezione) di Adriano Gallina
Il termine “emergenza” fa venire in mente ad Angelo Curti l’immagine dell’iceberg. A me richiama un’immagine differente, una specie di cerchio dantesco: la spiaggia di Riccione in pieno agosto, una folla di bagnanti pigiati, a mollo fino al dorso, che calpestano altri bagnanti nascosti sotto la superficie dell’acqua, in una continua lotta per prendere fiato, per tirare fuori la testa.
L’idea di “emergenza” mi fa venire in mente, inoltre, una metafora di natura biologica, legata alla teoria dell’evoluzione, che più avanti vorrei adottare come filo argomentativo di quanto andrò dicendo. Perché mi pare che un nodo fondamentale del sistema teatrale italiano – e che è stato per ora solo sfiorato – si identifica con il problema della sopravvivenza che, in larga misura, è a sua volta coincidente con il problema della distribuzione e quindi del mercato.
Sin ad ora abbiamo sentito parlare dell’essere: la formazione, la scuola, l’accesso alle professioni, la produzione. Persino il prezioso bando Cariplo sulle residenze teatrali – che tuttavia si pone e si è posto fortemente il problema del “poi” – si chiama Etre, “essere”. Un tema fondamentale, che tuttavia si colloca - potremmo dire - ad un livello preliminare della vita di una compagnia, quello della nascita. Dopo, però, bisogna divenire e sopravvivere in un sistema teatrale caratterizzato da un tasso di mortalità altissimo.
Un aneddoto che mi pare significativo: quando nel 2001 assunsi la direzione del Verdi, ereditai la fase conclusiva del progetto “Scena Prima”, un’iniziativa – più o meno efficace – di sostegno alla giovani compagnie lombarde. Si trattava, in quell’edizione, di portare a conclusione una nuova formula a cadenza biennale: nell’anno precedente erano state raccolte le candidature di circa 200 nuove formazioni che, drasticamente selezionate nel corso della stagione, si riducevano a circa una decina di compagnie che avrebbero avuto accesso alla fase finale. Bene: dovemmo verificare – ad un anno di distanza – che circa il 60% delle compagnie selezionate (quindi, almeno di principio, le migliori) si era sciolto nell’arco dei mesi di istruttoria, era scomparso, non c’era più. Esistevano, ma non avevano avuto la possibilità di sopravvivere.
E vengo alla mia metafora biologica. Mi piace pensare alla comparsa di una nuova compagnia – e per “nuova” faccio riferimento, banalmente, ad un dato meramente anagrafico, non legato alla qualità, al repertorio, al linguaggio, ai temi, alle prospettive più o meno accentuate di sperimentazione – come ad una specie mutante. Nell’ambiente del teatro, in forma del tutto casuale, viene alla luce un organismo che prima non esisteva. La mutazione e la nascita coincidono con l’essere, come per le compagnie di Scena Prima.
Quando questo avviene in natura, l’ambiente (insieme ai repertori di flessibilità biologica propri dell’organismo) rappresenta il filtro selettivo che determina il tasso di adattamento della nuova specie: l’organismo diviene immediatamente visibile (ossia “selezionabile”) nella sua nicchia e ha dunque inizio, contestualmente alla nascita, il processo della valutazione, la misura delle possibilità di sopravvivenza, la prova di vitalità. La visibilità e la selezione – come diceva ancora Curti – sono simultanei al punto di identificarsi. Pare una banalità, giocata tuttavia su una triplice coimplicazione: il venire alla luce / l’emergenza, in natura, rende immediatamente visibili (“percepibili”) senza mediazioni, e quindi selezionabili. Questo cieco meccanismo, radicale ma del tutto privo di finalità, è ciò che consente in natura la continua apparizione del nuovo e, in sostanza, l’evoluzione stessa (in un’accezione non-valutativa). Consente anche di conseguenza – nella sua cecità – la scomparsa (o l’estinzione) di organismi superati dalle nuove specie: come le bianche farfalle della Londra della rivoluzione industriale, rapidamente soppiantate dalle farfalle nere, mimetizzate nello smog e dunque invisibili ai predatori (il parallelismo con i “salvati” di Filippo Del Corno non è casuale).
Ben differente il processo evolutivo nell’universo della produzione culturale (del teatro in particolare, perché di questo parliamo, ma anche dell’editoria, del pensiero, della conoscenza, della scienza): il processo è orientato e finalistico, si sviluppa in un ambiente – il mercato intermedio, non il pubblico – tutt’altro che cieco (checché ne pensino i teorici un po’ in malafede della “mano invisibile”), giocato su interessi e dinamiche perfettamente leggibili e radicalmente conservative.
In questa selezione innaturale, quel che viene in realtà pre-selezionato dalla nascita è la nascita stessa, l’età puramente anagrafica dell’organismo, il suo essere sic et simpliciter e non il suo essere qualcosa: la qualità, la vitalità, l’adattamento di una nuova compagnia si trovano costretti ad una lunga – lunghissima – fase di invisibilità, di non giudizio, quindi di virtuale inesistenza. E’ come se esistesse la necessità di un’emergenza dell’emergenza in un contesto in cui i bisogni primari devono essere soddisfatti – paradossalmente – proprio attingendo da quell’ambiente per il quale non si è ancora nati.
Ma da qui, anche, la consapevolezza – in un sistema appunto orientato dalle volontà politiche e quindi dalle scelte – della necessità di un sistema di sostegno politico, culturale ed economico volto esattamente a promuovere e tutelare la mutazione, garantirle sopravvivenza e visibilità, ampliarne anche quantitativamente le nicchie ed esporla ad un’autentica selezione nel merito. Questo era – storicamente – il compito attribuito alle Stabilità d’Innovazione, sulle cui inadempienze ho già avuto modo a più riprese di intervenire anche su ateatro.
Un compito disatteso non solo sul terreno della produzione ma anzitutto sul versante della proposta e della vertenza politica e della vitalità organizzativa. Nell’assenza, per molti versi anche economicamente incomprensibile, di un’azione finalizzata all’estensione territoriale di bacini di promozione del giovane teatro, alla rivendicazione istituzionale di un primato dell’innovazione nella determinazione degli orientamenti e della logica dell’investimento pubblico, nella salvaguardia e valorizzazione delle pochissime “aree protette” esistenti (penso per esempio all’isola felice di “Altri Percorsi” in Lombardia, annacquata oggi in un modello di “Circuiti teatrali” totalmente privo di fisionomia; o ancora a “Scena Prima” che, con tutti i suoi difetti, avrebbe forse potuto avere un’evoluzione significativa). Un disimpegno che è tra l’altro all’origine del fenomeno della stabilità diffusa che – ormai da tempo – caratterizza l’evoluzione del nostro sistema teatrale.
Ecco: probabilmente da questa stabilità diffusa, dalle esperienze di residenzialità e da nuovi soggetti anche politici e di rappresentanza occorre ripartire, per provare a ricostruire un tessuto in cui l’emergenza possa arrivare al pubblico (e, perché no?, alla critica), confrontarsi con i suoi naturali interlocutori e ridefinire i contorni di un’economia sostenibile nella quale l’innovazione possa aspirare ad essere investimento ordinario e non follia estiva festivaliera o riserva indiana.
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