ateatro 113.33 Quando Paul Klee incontra Robert Walser Zeugen di Georges Aperghis di Fernando Marchiori
I passi composti e solitari di Robert Walser lungo le strade di Berna non hanno mai incrociato quelli, certo più esuberanti e colorati, di Paul Klee. Quasi coetanei, entrambi nati e cresciuti nella capitale svizzera, i due non si conoscevano ma percorrevano sentieri artistici non sempre così lontani. Gli abbozzi di personaggi walseriani, quelle figure che a Walter Benjamin parvero di “inumana, imperturbabile superficialità”, si adattano infatti benissimo a certe “miniature” di Klee, alle silhouette tratteggiate con la ritrovata serietà di un gioco infantile, e ancor più ai burattini che il pittore realizzò tra il 1916 e il 1923 per il figlio Felix. Sono pupazzi semplici e colorati che assemblano materiali di recupero, elementi poveri ed eterogenei, per dare vita a personaggi solo in apparenza puerili. Nel teatrino domestico comparvero tra gli altri “il signore e la signora Morte”, “il fantasma spaventapasseri”, un “poeta coronato” e persino un deformato autoritratto dell’autore.
L’idea di combinare questi fantocci grotteschi con gli schizzi narrativi di Walser è venuta a Georges Aperghis, il compositore greco-francese da anni impegnato in una interessante reinvenzione delle forme del teatro musicale. Fin dal 1976, quando fondò a Bagnolet l’Atelier Théâtre et Music (ATEM), Aperghis crea opere “totali”, alla cui drammaturgia concorrono autonomamente e con la stessa importanza tanto gli elementi strettamente musicali (vocali e strumentali) quanto quelli scenici e gestuali. Nel nuovo spettacolo, intitolato Zeugen e presentato al 51° Festival Internazionale di Musica Contemporanea della Biennale di Venezia dopo il debutto nell’ambito dei Wittener Tage für neue Kammermusik, l’equilibrio sembra raggiunto.
Quattro i piani di sviluppo dello spettacolo. Il primo è quello dei musicisti dell’ensemble impegnato, sotto la direzione di Zsolt Nagy, a sostenere sonorità calde e ritmiche continuamente scomposte e rilanciate in una fitta partitura di citazioni colte e richiami popolari: Marcus Weiss (Sax contralto), Ernesto Molinari (clarinetto basso), Teodoro Anzellotti (fisarmonica), Françoise Rivalland (cimbalom) e Mathilde Hoursiangou (pianoforte) creano un impasto acustico dalle forti tinte espressioniste, che ben si conciliano con la performance della cantante-attrice Salome Kammer (già tra gli interpreti di Heimat di Edgar Reitz). La sua prova, ai limiti del virtuosismo, si muove su un secondo livello che comprende anche la voce narrante di Christopher Widauer. E’ lui ad animare i pupazzi (terzo livello) o meglio è lui a far girare intorno a essi una microtelecamera fissata a un’asta, rendendo così l’idea del movimento dei burattini, che in realtà sono quasi sempre fermi, al massimo spostati lungo il boccascena di una sorta di larga baracca nera. Ricostruiti dagli studenti del HKB (Hochschule der Künste Bern) con la consulenza del Zentrum Paul Klee, i fantocci sono stati realizzati in scala raddoppiata rispetto agli originali e vengono a loro volta ingranditi dalle riprese proiettate sullo schermo al di sopra del teatrino (quarto livello). Qui una complessa partitura dello sguardo – in parte aleatoria, in parte fissata ed estesa dalle inserzioni video di Daniel Lévy – scruta i burattini, li doppia con un ritmo che contraddice la musica, ne inquadra il volto insieme a quello del burattinaio, ne indaga dettagli, segni, ombre, svelando i segreti dell’invenzione di Klee: i pigmenti, la trama dei tessuti, le concrezioni, la piega posticcia, il campanellino metallico che fa da pupilla in un’orbita cava. Quasi una “vivisezione visiva” dei pupazzi che fa sembrare burattineschi anche i piani spettacolari sottostanti. Cantati o recitati, i frammenti walseriani diventano allora la memoria dei burattini, gli scorci surreali di un passato che riaffiora anche nei suoni evocativi e strappati dell’accordéon e del cimbalom tzigano, nelle movenze meccaniche della Kammer, nel dialogo sonnambolico tra gli elementi in scena.
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