ateatro 110.43 I miei concerti tra Bernini e la Socìetas Raffello Sanzio Intervista a Lorenzo “Jovanotti” Cherubini di Francesca Pasquinucci
Nel maggio 2007, grazie all’interesse e all’aiuto del musicista toscano Andrea Tofanelli , trombettista di Jovanotti nel Tour dell’Albero, sono riuscita a contattare telefonicamente l’artista e a porgli alcune domande sulla sua idea di show design e sugli intrecci possibili con il teatro. Questa intervista inedita, è parte della tesi di laurea al CMT di Pisa (relatrice: Anna Maria Monteverdi).
Arrivati al 2007 sono sempre di più gli artisti- cantanti che nei concerti live lasciano un ampio spazio alla parte visiva-teatrale; come interpreti questo atteggiamento di confronto con altri linguaggi dello spettacolo e ambiti propri della multimedialità? La vedi come una nuova importante spinta di ricerca artistica o solo un modalità per offrire qualcosa di sempre più originale e spettacolare al pubblico che va a vedere i concerti?
Jovanotti Penso che sia una questione di abitudine e di opportunità, prima di tutto. Siamo abituati all’immagine, la pretendiamo, in un certo senso, nella nostra epoca; e poi oggi la diffusione dei mezzi a costi inferiori rispetto al passato e la possibilità di gestire i contenuti con tecnologie leggere rende tutto più accessibile. Credo che oggi un artista che sceglie di non avere “visual” nel suo show fa una scelta comunque legata alla presenza dei “visual”, il suo non averli è comunque un modo per comunicare attraverso le immagini. In genere l’uso di immagini a me pare molto poco interessante, il più delle volte è didascalico e anzi finisce per togliere potere alla musica invece di darglielo. Questo avviene perché si pensa prima al contenitore che al contenuto, ma la cosa che conta è prima di tutto il contenuto.
Com’è cambiata l’idea di allestimento secondo te in questi anni?
È cambiato tutto. Oggi i concerti sono una grande industria e il pubblico si è allargato molto, non solo i giovani vanno ai concerti ma anzi quelli che possono fare pagare biglietti più salati sono gli artisti che hanno un pubblico adulto che può permettersi di spendere. E’ cambiato tutto rispetto a qualche anno fa: ai concerti si sente meglio, c’è più professionalità. Comunque sono sempre pochissimi quelli che riescono a fare qualcosa di interessante, io ai concerti in genere mi avvilisco molto, vedo molta energia spesa malissimo e senza rispetto per il pubblico.
Quali sono stati gli elementi teatrali più importanti e d’impatto nei tuoi tour, dal L’Albero a Buon Sangue?
Io non sono praticamente mai andato a teatro. Il teatro l’ho idealizzato dentro di me, so che se lo frequentassi rimarrei deluso, lo voglio avere come una specie di sogno. Non mi piace l’idea di uno che fa finta di essere un altro, l’idea della recitazione a teatro, delle scenografie, delle luci, non mi piace. Per me non ci devono essere scenografie nemmeno luci, niente che non sia pura potenza ed energia, sommata o sottratta allo zero. Mi interessa l’onda che si crea. In genere parto da una visione, da una cosa che mi emoziona e cerco di costruirci intorno tutta una tournée. Mi piace l’idea della festa, del sacro, del mistero. Il massimo è Lorenzo Bernini che organizzava feste a Roma, a Piazza Navona in epoca barocca e tutto era effimero, durava solo una notte. Mi piace il carnevale di Rio, mi piace la Societas Raffaello Sanzio.
Nel tour dell’Albero volevo una piazza in un dì di festa. Nel tour di Capo Horn volevo una scatola bianca. Nel tour del Quinto Mondo volevo solo la musica e i corpi della band.
Nel tour di Buon Sangue volevo una presenza fisica tecnologia e calda, una specie di macchina dei sogni sul palco e io a metà strada tra il sogno e la realtà.
Io mi pongo sempre come un usciere, uno che sta tra la musica e la realtà, un passaggio, una porta.
In generale quindi, attribuisci un valore “teatrale” all’allestimento dei concerti rock?
Per me il teatro, nella mia testa, è una porta verso il sacro, quindi direi proprio di sì.
In uno scorcio di intervista dentro al dvd di Buon Sangue riferendoti alla costruzione dello show parli di inquietudine: perché?
Perché sì, perché l’inquietudine è in tutto e il pianeta è inquieto e io lo sono, e anche il pubblico lo è, lo è la musica, lo è la natura.
Chi si occupa della progettazione degli spazi? C’è una rapporto di collaborazione con questi professionisti dello show design?
Siamo una squadra che lavora insieme dal 1994. Io faccio un po’ il regista e poi ci sono Sergio Pappalettera e Giancarlo Sforza, e Giorgio Ioan che produce tecnicamente i materiali.
Come organizzi il materiale video per farlo interagire in scena con la musica in diretta?
Oggi lo rubo qua è là, dai dvd, dalla tv, da internet e poi lo manipoliamo. Oppure lo giro io stesso, o Sergio con una telecamerina; ora ne ho una piccolissima che mi piace molto.
Chi sono i tuoi riferimenti per gli allestimenti?
Gli U2 sono i più grandi di tutti. Mark Fisher è un genio. Però la mia ispirazione viene da tante fonti, riviste, film, tv, libri, mostre, viaggi, dischi, internet, incontri. La mia principale ispirazione è la realtà, le cose che vedo in giro.
Se tu dovessi creare uno show in collaborazione con un altro artista, non musicista, chi vorresti al tuo fianco?
Bernini? Castellucci? Corsetti? Ghezzi? Spielberg? Terry Gilliam? Peter Brook?
Sempre nel dvd dici “essere sempre visivi all’immaginazione” riferendoti all’uso del gilec; è questa la forza della tecnologia? Potremmo pensarla anche come la nuova psichedelia?
Assolutamente sì. La tecnologia può farci sognare, assolutamente sì. E siamo solo all’inizio, credo.
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