ateatro 110.32 Alessandro Garzella mette in scena Una visita e L’acqua si diverte a uccidere Continua il viaggio nell'opera di Beniamino Joppolo di Andrea Lanini
Il progetto di trilogia che Alessandro Garzella, Antonio Alveario e La Città del Teatro di Cascina dedicano a Beniamino Joppolo non è un tanto un percorso di ricerca compiuto attraverso la sua produzione drammaturgica, quanto un ritratto della sua opera tout court. Un incontro con la sua identità di autore sradicato, complesso, sfaccettato, contraddittorio, come altri siciliani oscillante tra slanci a vocazione mitteleuropea e consolatorie vie di fuga nel ventre della terra d’origine. Un incontro anche geografico, visto che il “viaggio nell’immaginario e nell’opera” di questo “autore divergente” è iniziato proprio in Sicilia, l’anno scorso, al Teatro Regina Margherita di Racamulto, dove i due registi hanno presentato l’atto unico Una visita, spettacolo coprodotto da La Città del Teatro e Fondazione Regina Margherita.
Al Teatro Rossini di Pontasserchio è andata recentemente in scena la seconda parte del progetto, Un grido d’allarme, la nuova regia di Alessandro Garzella che a Una visita ha affiancato L’acqua si diverte a uccidere, atto unico tratto dal primo tempo di Le acque grazie all’elaborazione drammaturgica di Anna Barsotti.
Cercare di restituire attraverso la scena un’immagine a trecentosessanta gradi di Joppolo è probabilmente il modo più onesto e attendibile di raccontare le tante sfumature del suo lavoro di poeta, romanziere, drammaturgo, pittore, teorico. Ogni versante del suo lavoro, così restio a classificazioni ed etichette, nasce già teatrale, aperto alle contaminazioni, vitale perché in fuga costante dal già visto, dalle convenzioni, dall’abitudine all’omologazione, abituato a creare disordine, rottura, incongruenza, inquietudine: la produzione teatrale custodisce quello sguardo visionario, espressionista, da indomita avanguardia, che caratterizza la sua pittura informale, esattamente come questa custodisce, nelle sue ambientazioni astratte, una concezione vitalistica dello spazio e della materia che allude alla scena e che con essa idealmente (e naturalmente) si amalgama.
La biografia di Beniamino Joppolo ha trasformato la sua opera in un coacervo inquieto in cui si incontrano la sicilianità di Pirandello e il realismo magico di Bontempelli, l’espressionismo di Kaiser e Toller e lo spazialismo di Fontana, il surrealismo e l’esistenzialismo francese e l’“assurdo” di Beckett, Adamov e Ionesco ; in cui le memorie ataviche dei Nebrodi si intrecciano con Firenze, Milano, Parigi. Il risultato di tanta ricchezza è un ventaglio praticamente infinito di sfumature, di possibilità espressive, di significati, di simbologie.
Alessandro Garzella e Antonio Alveario scelgono di amplificare le venature “noir” di quell’opera, vogliono che il grido di allarme sia udibile con chiarezza, e così è: entrambi gli atti unici poggiano su un lacerante connubio di opposizioni e attriti che fanno del presente una facile preda della memoria, fagocitano il senso delle parole e lo slancio vitale dei gesti. Non c’è alcuna possibile allegria nella sala da pranzo che accoglie i due strani ospiti di “Una visita”, non c’è alcuna speranza di futuro nel reliquario di cellophane e fotografie in bianco e nero di L’acqua si diverte a uccidere, in cui un uomo e una donna (i bravissimi Serena Barone e Giacomo Civiletti), in un tempo infinito, dilatato, beffardamente circolare come quello dell’attesa beckettiana, celebrano un rito che è il loro stesso sacrificio, accompagnati da un vuoto ontologico scandito dalla partitura ritmica di gocce che cadono con suono tagliente di metronomo. Il fil rouge che lega i due atti è lo scarto tra ciò che è stato e ciò che avrebbe dovuto essere, e l’equilibrio tra passato e presente è deciso da una scenografia che annulla il secondo sul ricordo del primo: tutto appare cristallizzato, polveroso, vecchio di secoli. Le scene e i costumi di Rosanna Monti, le luci di Giuliano De Martini e Fabio Giommarelli e l’ideazione sonora di Virginio Liberti enfatizzano la natura oscura delle cose, rendendo forti le ombre. È ciò che proviene dal buio a condurre il gioco, a sciogliere gli ossimori: l’euforia della veste a lutto schiaccia il grigiore dei colori, i sussurri provenienti dai tubi, dai sassi, da dietro le persiane spengono le battute recitate con vigore dal proscenio, i fraseggi sottovoce di un pianoforte romantico attutiscono i poderosi accordi distorti. Se in “Una visita” gli unici davvero vivi sono i due ospiti-spiriti che parlano a nome della “collettività dei morti”, rendendo straniante la vicinanza con i padroni di casa (Roberto Bugio, Antonietta Carbonetti, Isabella Ragonese), fantasmi di carne anche loro, in qualche modo, in attesa di senso, in L’acqua si diverte a uccidere gli unici volti capaci di brillare di luce propria sono quelli racchiusi nelle tante fotografie sparpagliate sulle tavole del palcoscenico, immagini-simbolo attraverso cui il presente percepisce la propria inettitudine alla vita. I personaggi di Joppolo vivono il dramma pirandelliano del naufragio della coscienza, della percezione alterata dell’Io, ma senza la consolazione di un approdo spiazzante, di una superiore logica capace di squarciare i cieli di carta: rimangono come a mezz’aria, in bilico, traditi da uno slancio metafisico incapace di mettere ordine, di regalare senso, di fornire risposte.
La regia di Alessandro Garzella, soprattutto nell’Acqua si diverte a uccidere, fa in modo che la speranza resti mortificata, in modo che tutto lo stridore di cui ogni visionarietà è capace risuoni in modo diretto e potente. È questa la peggiore beffa di cui il Beniamino Joppolo di Alessandro Garzella è capace: qualsiasi ottimistico indizio – la rassicurante ambientazione borghese, la solare sicilianità (che Serena Barone e Giacomo Civetti lasciano abilmente filtrare nell’elegante italiano dei testi), la presenza di efficaci aperture al comico – finisce per dileguarsi in una luce accecante che si origina dal buio e che al buio finisce immancabilmente per tornare. Attraverso le modulazioni provenienti dal corpo elastico dell’opera di Joppolo, il grido di Alessandro Garzella si affianca alla riflessione su quell’“omologazione di repertori e desideri che la scena oggi esprime”, la stessa che “ha privato il teatro contemporaneo di parte delle proprie radici”. Anche in questo grido di allarme il passato vince sul futuro: l’obiettivo non è avvisare del pericolo, ma fare la conta dei danni.
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