ateatro 110.10 Festivalia da Hystrio", 2007 di Oliviero Ponte di Pino
Tom Bendsten, Argument #4 1999
L’Italia è tutta un festival. Ogni settimana la casella di posta di ateatro è bombardata da mail su mail con i programmi delle rassegne teatrali che allietano le città, i paesi e i borghi del Belpaese e chefiniscono nella pagina dei festival di ateatro. Nessuno sa quanti siano esattamente i festival made in Italy, ma siamo certamente nell’ordine delle migliaia. Né sappiamo quanto costino (anche se questo non vuol dir nulla, visto che è difficile stimare la spesa pubblica anche in altri settori più strategici), ma certamente almeno diverse decine di milioni di euro.
In realtà le manifestazioni che hanno una certa risonanza – vista anche la progressiva riduzione degli spazi destinati all’informazione teatrale – sono peraltro pochissimi e ormai da anni in crisi cronica: basti pensare al Festival dei Due Mondi a Spoleto o la Biennale veneziana, con la sua formula ondivaga. Ma le difficoltà dei capostipiti, piegati dall’impossibilità di imbastire contenitori omnicomprensivi o costose vetrine di attrazioni internazionali, sembrano solo aver liberato la fantasia dei più piccoli (e giovani): dunque rassegne monografiche o schieramenti di tendenza, omaggi a grandi uomini, generi o capolavori del passato e del presente, contaminazioni con altre discipline, media, perversioni, religioni... Con la possibilità, sempre più ambita, di uscire dai teatri (soprattutto d’estate) e tracimare in altri spazi, metropolitani o eccentrici: sferisteri e catacombe, carceri e conventi, mense e capannoni, stalle e stazioni...
Questo fervore testimonia certamente di una creatività sbrigliata e di una fervida capacità organizzativa e forse addirittura di una grande sete di cultura – o almeno di una sete inestinguibile di trasformare la propria cultura (o pseudo-cultura) in spettacolo ed esibizione. Testimonia un tessuto sociale ricco e articolato, e un potere politico attento a coltivarlo (magari strizzando l’occhio alle ricadute sul turismo). I festival fanno pare del paesaggio tipico italiano, come la piazza e lo struscio, le sagre e l’esodo d’agosto: non a caso hanno ispirato scrittori come Arbasino, Flaiano e Cordelli, che peraltro sono anche critici teatrali e dunque sanno di cosa parlano.
Di più. Quella dei piccoli festival è una forma leggera, flessibile, inventiva, che permette a realtà agili e innovative di aggirare i vincoli di un sistema teatrale bloccato e bolso. Offre spazi di sperimentazione e ricerca, anche nel rapporto con il pubblico. Naturalmente questa allegra sarabanda finisce per essere piuttosto dispersiva, sia sul versante delle risorse sia su quello dell’attenzione.
Che resta di tutto questo fervore, passata la stagione? Per cominciare, l’eventizzazione sottesa alla forma dei festival rischia di togliere fascino e attrattiva alle “normali” stagioni teatrali e alla loro dimensione “politica”, alla possibilità di interagire sul tessuto civile e di incidere davvero nel dibattito pubblico.
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