ateatro 11.1
Il vuoto di un progetto politico in cui io possa credere, e il vuoto di un progetto teatrale in cui io possa credere
Note a margine dell'Agenda di Seattle dell'Impasto
di Oliviero Ponte di Pino
 

PREMESSA PERSONALE E DUNQUE EVITABILE.
In questi giorni sto leggendo tre libri molto diversi che però, in fondo, parlano della stessa cosa: ruotano intorno al rapporto tra la letteratura e la storia (e dunque tra l'arte e la politica), raccontando la perdita dell'innocenza e il fragile statuto della verità. Il primo è un romanzo, Sei pezzi da mille di James Ellroy (Mondadori), dove una pagina oscura della storia americana – il periodo che va dall'omicidio di John Kennedy a quello di suo fratello Robert, 1963-1969, viene interpretato e filtrato dalle ossessioni dello scrittore, dalla sua mitologia personale. Il secondo è a metà tra il romanzo e il saggio, tra la memoria personale e l'inchiesta: L'abusivo di Antonio Franchini (Marsilio) ruota intorno alla memoria di Giancarlo Siani, il giovane cronista del "Mattino" di Napoli ammazzato dalla camorra, ma intreccia quell'episodio in apparenza minore, feroce ed esemplare con la propria autobiografia (cioè quella di chi ha scelto la letteratura piuttosto che il giornalismo o la politica) e di una intera generazione. Il terzo libro è un saggio, Settanta di Marco Belpoliti (Einaudi), una serie di affondi sulle letteratura italiana di quel periodo ma anche – in fondo – sulla fine dell'intellettuale e della letteratura così come li aveva conosciuti la cultura italiana dell'Ottocento, in quello snodo cruciale che sta tra piazza Fontana (1969) e l'omicidio Moro (1978) (e che per una curiosa coincidenza esce quasi in contemporanea con i Ricordi tristi e civili di Cesare Garboli e poco dopo Una storia italiana di Silvio Berlusconi). Proprio da Settanta ho rubacchiato il titolo di questo pezzo, da una citazione di Italo Calvino, per la precisione dal suo saggio Usi politici giusti e sbagliati della letteratura (ora in Una pietra sopra) (dove ovviamente si parlava di "progetto letterario").
Nella sua radicalità e ingenuità, L'agenda di Seattle dell'Impasto ripropone in termini estremi il problema del teatro politico. Abbandonando la linea di ricerca dei precedenti lavori (un'attenzione autobiografico-sociologica che attraverso un filtro ironico approdava a una formalizzazione lirica e coreografica), con questo nuovo lavoro il gruppo guidato da Alessandro Berti e Michela Lucenti ha scelto di dare voce alle istanze del movimento anti-globalizzazione. Di farsene in qualche modo portavoce.
Come spesso accade con esperienze di questo genere (che segnano anche una scelta di vita, prima ancora che una svolta estetica) è probabile che ciò che accade prima, intorno e dopo lo spettacolo – gli incontri e gli scambi, le energie che si mobilitano, le azioni di guerriglia teatrale – sia più vivo e interessante di quello che si vede effettivamente sulla scena. L'agenda di Seattle (visto al Crt-Teatro dell'Arte) è in sostanza un trittico. Nella prima parte il gruppo "storico" presenta le prime scene di una Antigone vagamente attualizzata (la citazione del Living è esplicita): sono solo abbozzi di un possibile spettacolo, con una certa tendenza al musical. Ben presto la rappresentazione viene interrotta dai ragazzi in tuta bianca (il "popolo di Seattle") che stazionava in proscenio: rifiutano l'azione metaforica dell'arte per un intervento più diretto e politico. Segue una semplicistica esposizione dei principi antiglobalizzazione, una specie di assemblea in cui il tema centrale sono i rapporti economici Nord-Sud. La fase finale dello spettacolo, dopo una discussione che riguarda in sostanza la possibilità-necessità di superare il proprio ruolo (non più l'"artista" o il "politico", è una sorta di coreografia vitalistica (si parla di "entrare nel flusso") che accomuna artisti e politici in una possibile sintesi (un "popolo"), insieme estetizzante e generica.
Nel corso dello spettacolo vengono abbozzati alcuni tentativi di coinvolgimento del pubblico (spesso per un motivo o per l'altro qualche attore invade la platea), ma in sostanza lo spettatore – quando esce dal suo ruolo tradizionale di osservatore di un evento estetico – resta in sostanza l'oggetto delle arringhe didascaliche del "popolo di Seattle".
Dal punto di vista di uno spettatore "tradizionale", il limite maggiore dello spettacolo – perseguito peraltro in piena consapevolezza e con esibita ingenuità da parte di artisti raffinati come Alessandro Berti, Michela Lucenti e soci – è quello di non essere uno spettacolo. Nel senso che nella parte centrale dello spettacolo, quella più lunga, corposa e significativa, pare mancare una qualsiasi elaborazione estetica, perché quello che importa sono "i contenuti": in primo luogo le informazioni economico-scientifico-politiche, e poi il dibattito interno al gruppo sul rapporto tra arte e politica, con la sua volontaristica conciliazione. Non c'è racconto, non ci sono metafore, non c'è dibattito: solo i dati che dovrebbero parlare da soli, come in una specie di inchiesta.
La necessità di una operazione di questo genere è chiara, come sono palpabili le ottime intenzioni che hanno determinato questa svolta politica. Il teatro (e l'arte in generale) come universo autosufficiente e autoreferenziale perde di senso e si svuota di energie, ed è dunque necessario confrontarsi con la realtà esterna, con le convulsioni del mondo e della storia, per ritrovare una necessità e un'urgenza all'agire artistico. Per un'arte sociale e civile come il teatro, oggi, la rivolta antiglobalizzazione si offre come un tema obbligato, imprescindibile (e questo senza neppure citare gli aspetti spettacolari delle rivolte, e il loro complesso rapporto con l'universo dei media di cui devono catturare l'attenzione con azioni esemplari e telegeniche). Questa scelta di un'arte direttamente e semplicemente "politica" è peraltro condivisa da altre giovani compagnie, che trovano sulla scena l'occasione di approfondire e comunicare esperienze che l'universo dei media e la cultura scolastica banalizzano e rimuovono (a cominciare dalla recente storia italiana).
Dopo di che, si sa, il rapporto tra estetica e politica ha trovato negli ultimi decenni differenti punti d'equilibrio, che di fronte a un lavoro come questo s'affollano inevitabilmente alla memoria: innanzitutto Brecht, il Living soprattutto ma anche il Bread and Puppet, Beuys (che potrebbe essere il padrino tanto del movimento di Seattle quanto di una moderna arte politica)… In tutti questi casi, il nodo centrale è stata la messa a punto di un'estetica (o di una poetica) in grado di rispondere alle nuove esigenze politiche senza farsene schiacciare e al tempo stesso offrendone un "correlato oggettivo". In termini generali, un'arte autenticamente politica non può essere pura propaganda (in questo caso può appoggiarsi alle forme esistenti); non può essere neppure pura informazione o divulgazione (esistono mezzi più adatti). Deve invece riflettere nuove forme di conflitto e di rapporto: deve dunque trovare una propria forma e un proprio rapporto con il pubblico. Solo così può giustificare l'obiezione fondamentale contro qualsiasi tipo di arte politica: che si tratta di un diversivo, e che l'unico gesto autenticamente necessario è quello direttamente politico.
Dell'Agenda di Seattle si può dire, al massimo, che questa forma la sta ancora cercando, a partire da zero, e che non se ne vedono ancora gli embrioni. E finché non si scioglie questo nodo, resta aperta la riflessione sull'impatto politico di questo tipo di teatro rispetto a mass media di maggior diffusione e (dunque) efficacia.
Un ulteriore ordine di riflessioni, di carattere più generale, riguarda la natura di un movimento come quello di Seattle e il suo rapporto con la nostra percezione dell'attuale momento storico. Brecht e il Living sostenevano la loro estetica politica con una opzione ideologica a priori (marxista il primo, anarchica i secondi). Questa ideologia aveva a sua volta profonde ripercussioni sulla visione della Storia, sulla possibilità di costruire un racconto (una storia) e di riflesso uno spettacolo, sul rapporto tra questo racconto-spettacolo e il momento storico in cui veniva rappresentato. Basti un esempio-limite, che mette in luce la forza e le debolezze di questa impostazione: il racconto-spettacolo della rivoluzione in Paradise Now rappresentato nel 1968 e reso obsoleto proprio da quella rivoluzione che avrebbe voluto suscitare e che in ogni caso stava interpretando.
Ora il movimento anti-globalizzazione pare sostanzialmente anti-ideologico, tanto è vero che raccoglie sotto le stesse bandiere elementi di ideologie diverse e spesso incompatibili. E la sua ideologia della storia – se ne ha una – è in sostanza difensiva: si contrappone a quel movimento verso la "fine della storia" che l'hegelismo liberista sta attualmente incarnando e che proprio nella ristrutturazione del capitalismo globale sostenuto dallo strapotere della tecnica sembra trovare la sua realizzazione definitiva. In questa situazione, è possibile costruire un racconto che non sia nostalgia?
Un ulteriore elemento, strettamente legato a questo, è conseguenza della riduzione degli esseri umani a consumatori. In precedenza era possibile far riferimento a identità collettive: la classe operaia per i marxisti, l'orizzonte giovanile per Living e Bread and Puppet, e in qualche modo un'idea di popolo (che nasce anche da una memoria collettiva, spazzata via dall'attualità dei telegiornali e dai meccanismi della nostalgia televisiva). Oggi le identità collettive sono state frantumate, polverizzate in una miriade di individui solitari. È diventato pressoché impossibile individuare l'orizzonte della "polis". Anche per questo un teatro politico sta diventando sempre più difficile e (forse) più necessario.
Il gesto dell'Impasto – più che i risultati – ha il merito di riproporre la questione esplicitamente e senza ambiguità, forse con un eccesso di semplificazione. Ma forse proprio queste semplificazioni possono aiutarci a ricominciare a pensare le caratteristiche dell'attuale momento politico.
ARCHIVIO
La recensione a Trionfo anonimo comparsa a suo tempo sul "manifesto".
Gli ingredienti degli spettacoli dell’Impasto, uno dei gruppi più promettenti dell’ultima onda, fondato e diretto da Alessandro Berti e Michela Lucenti, sono curiosamente e variamente assortiti. Tanto per cominciare, situazioni che potrebbero essere tratte da uno sceneggiato televisivo: la protagonista del recente Trionfo anonimo, visto al Salone del Crt di Milano, una ragazzina insoddisfatta (Michela Lucenti), che dopo l’incoraggiamento del suo divo rock preferito (di nome Dare, in inglese "osa", "provaci", materializzatosi dal manifesto che campeggia nella sua cameretta) sposa un industrialotto padano (Francesco Montanari). C’è però molta ironia, in questo ritrattino. Il lamento della ragazza è peraltro cantato in rima e in dialetto – anche perché un altro elemento costante dei lavori del duo bolognese (ma ora con ramificazioni salentine) è il rimando alle radici preindustriali, contadine, che sopravvivono nonostante tutto. Fallito il matrimonio, sempre seguendo i consigli cantati tra rock e valzer dalla sua stella grunge (Alessandro Berti), la coppia si apre al confronto con il mondo, ovvero ai frammenti di autobiografia rimati, cantati e danzanti dai giovani accoliti del gruppo. C’è pure un duetto filosofico (canoro, è ovvio) sul problema della libertà. Il tutto si chiude con un ennesimo scarto stilistico, in una nenia corale condotta dalla protagonista, quasi a voler inseguire una possibilità di sintesi tra queste varie e autoironiche identità in un astratto estetismo.
Più che uno spettacolo concluso, Trionfo anonimo è un work in progress dove è facile vedere in filigrana sia l’evoluzione del gruppo sia le improvvisazioni attraverso cui procede il lavoro. Si colgono notevoli e a tratti compiaciute qualità tecniche sul versante della danza e del canto; e si intuiscono le ambizioni di chi vuole affrontare i nodi chiave dell’Italia contemporanea e della condizione giovanile, con un’immediatezza che rischia di apparire ingenua. Quella che ancora manca è una forma che dia una struttura e una coerenza drammaturgica alle varie spinte che animano questo mini-musical postmoderno dal tono vagamente rossiniano.


 
© copyright ateatro 2001, 2010

 
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