ateatro 107.40 Le recensioni di ateatro Dissonorata di Saverio La Ruina-Scena Verticale Suad, Pasqualina e le altre (con un’intervista a Saverio La Ruina) di Anna Maria Monteverdi
Foto di Tommaso Le Pera.
Scena Verticale, diretta da Saverio La Ruina, è tra le più conosciute compagnie di ricerca emerse nell’ambito della gloriosa manifestazione calbiana Teatri90. Tra le nuove generazioni della cosiddetta terza ondata versione Sud, Scena verticale per T99 propose i>De-viados all’Out-Off di Milano nel 1999. La compagnia che ha sede a Castrovillari e organizza annualmente a giugno il Festival “Primavera dei teatri”, ha da sempre tratto linfa vitale per i propri lavori dalla cultura del meridione e dal dialetto calabrese. In evidenza sia per l’interpretazione che per la drammaturgia – Amleto o cara mammina, Kitsch Hamlet, La famiglia - ha ricevuto importanti riconoscimenti nazionali (Premio Bartolucci per Realtà Nuove nel 2001, Premio della Critica nel 2003) e segnalazioni (Premio Eti-Tuttoteatro “Dante Cappelletti”, Premio di Drammatugia “Ugo Betti”).
Foto di Tommaso Le Pera.
Dissonorata, ultima produzione di Scena verticale già presentata con successo al Festival “Bella ciao” di Ascanio Celestini e recentemente ospite del Teatro Studio di Scandicci, è un punto di arrivo, una prova decisamente matura della compagnia; merito di Saverio La Ruina che ha disegnato e interpretato una storia di grande forza drammatica, una storia di ordinaria violenza nei confronti delle donne del Sud: reclusione casalinga forzata per le donne non accompagnate, obbligo di morigeratezza di costumi, di curarsi della casa e di far figli. Qualcuno si ricorderà che solo nel 1965 la diciassettenne Franca Viola, di Alcamo si oppone per la prima volta alla consuetudine del “matrimonio riparatore”, rifiutando di sposare chi l’aveva rapita e violentata e che in Italia, sino al 1981, esisteva il delitto d’onore, punibile da un minimo di 3 anni a un massimo di 7.
In un paese della Calabria ad alto tasso di vedovanza e zitellaggine per via degli uomini andati in Albania a combattere e solo in parte ritornati e dove a 19 anni si è già vecchie per maritarsi, Pasqualina pascola le pecore e va in paese a testa bassa contando le pietre. In una società che considera reiette coloro che sono nubili Pasqualina desidera profondamente trovare l’uomo da sposare; e lo trova affacciandosi al balcone. Ci pensa prima di farsi toccare ma lui le promette che tanto “andamo a spusà”. Quando il corpo mette in evidenza il peccato e l’uomo è sparito alle sue responsabilità, la famiglia deve lavare il disonore: la cosparge di benzina e vuole bruciarla viva con tutto quello che ha dentro. Si salva con l’acqua della fonte del paese e grazie a zia Stella che la porta via da quell’ospedale dove la lascerebbero morire e la conduce a casa sua; l’accudisce, la mette nella stalla e lì nasce non il bambin Gesù ma Saverio. L’amore della madre per il piccolo è più forte della vergogna di un bambino fuori dal matrimonio e del dolore per il corpo reso deforme dalle fiamme. La Ruina è Pasqualina, potente simbolo della condizione femminile offesa: seduto su una seggiola di legno, con un abitino sopra i pantaloni, rifà le movenze piene di pudore e riservatezza delle donne del Sud, ritma il suo corpo con pochi gesti calibrati sulle parole. La gamba appena sollevata, le dita a toccare incessantemente quei bottoni e a coprirsi le ginocchia, la testa china: Pasqualina ripete in dialetto calabrese le vicende come una nenia rituale; è un fiume di parole intervallato solo da musica suonata dal vivo.
Colpisce al cuore questa vicenda straziante e chi la racconta, in una costruzione della narrazione che nulla lascia al caso, all’improvvisazione. La storia la conosciamo fin troppo bene ed è di un’attualità disarmante, riguarda diritti di milioni di donne ogni giorno sistematicamente violati sia nel Sud che nel Nord del mondo: è quella di Hina Saleem, ragazza pakistana sgozzata a Brescia dalla famiglia perché accusata di aver commesso il reato di “zina”, di aver avuto cioè rapporti sessuali prima del matrimonio per il cui reato il Corano prevede fustigazione, ed è la storia delle donne indiane bruciate vive ai fornelli di casa dai mariti per impossessarsi della dote, delle donne islamiche adultere o che hanno subito violenza che vengono lapidate. Una lettura trasversale si impone alla visione di uno spettacolo che rimanda come prima immagine a quelle vecchie foto di famiglie contadine del Meridione: l’Islam –sembra dirci La Ruina- è il nostro Sud. Il delitto d'onore, la condizione subalterna della donna, la poligamia e l'omosessualità sono infatti alcuni dei nodi cruciali dell'Islam in Europa.
Oggi la condizione femminile nel mondo occidentale forse non è più quella di essere schiava di leggi patriarcali ma lo status di inferiorità continua a essere perpetuato nella discriminazione nei luoghi di lavoro e nella società.
Così Saverio La Ruina ci racconta come è nata l’idea della storia recuperando le proprie radici meridionali incrociandole con il mondo islamico.
“Una prima suggestione è venuta da storie di donne musulmane vittime di delitti d’onore. Non riuscivo a non vederle in altro modo se non collocate in un contesto calabrese, nel Meridione. Io vengo da una famiglia contadina di un paese dell’entroterra calabro che ha radicati quei comportamenti e quella mentalità che segnavano la vita femminile. Così le storie musulmane mi sono sembrate come quelle che mi raccontavano le mie donne, mia madre e mia nonna. Ho deciso di fare questo confronto, questa similitudine tra la storia di una donna palestinese e una donna del nostro meridione perché c’erano anche rimandi personali. Il libro di partenza era Bruciata viva scritto da Suad una donna musulmana sottoposta a uno scempio del suo corpo da parte della famiglia; la storia mi ha appassionato molto, personalmente l’ho vissuta come adesione incondizionata a un destino di donne che mi riguardano: la storia di Pasqualina è in realtà proprio quella di Suad. Quando feci la prima lettura pubblica, era appena uscita la notizia che un ragazzo che in Meridione aveva cercato di uccidere la sorella per una storia simile, per riparare l’onta di una disonorevole gravidanza. Ho pensato che se riusciamo a non dimenticare la nostra cultura, quella così radicata al Sud fino agli anni Sessanta, forse riusciamo anche a guardare con un occhio più obiettivo questa altra cultura dell’Islam che arriva in Europa. In un mondo globale queste culture sono vicine, le radici stesse sono comuni”.
Quanto tempo hai impiegato a scrivere il testo e a trovare la giusta definizione narrativa in scena?
“Ho scritto il testo in un tempo piuttosto breve, circa tre mesi, poi ho cominciato a fare delle letture, prima di tutto per memorizzarlo, perché mi era davvero difficile mandarlo in memoria, poi per verificarne la riuscita. Ho continuato a limarlo, per renderlo più compatto anche come durata; durante le prove ho sentito l’esigenza di andare a trovare le donne del mio paese. Mi è servito per ritrovare il loro modo di raccontarsi, di ripetersi, quei suoni che scatenavano dei gesti.... Confidavo nell’osservazione e nella memoria e alla fine certi gesti sono arrivati come un dono dal cielo ma non per imitazione, sia pur fatta ad arte. Sono venuti fuori quasi inconsciamente e li ho riconosciuti: erano gesti loro.”
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