ateatro 106.78
Ubu Buur: una lettera dal Senegal
Debutta il nuovo spettacolo delle Albe
di Marco Martinelli
 



Cari amici,
vi scrivo da Diol Kadd, nel cuore della savana, dove debutteremo tra pochi giorni con Ubu buur, che in wolof significa “Ubu re”.
Diol Kadd è un piccolo villaggio a trenta chilometri da Thies, la città in cui siamo alloggiati: 300 anime registrate all’anagrafe e un numero imprecisato di bambini. Non c’è la luce elettrica, non ci sono le fogne, l’acqua la si va a prendere al pozzo. Ogni giorno lasciamo la città per raggiungere il villaggio e provare fino allo scendere della luce del sole, che cala repentina.
Come già a Chicago nel 2005, anche qui le Albe smontano e rimontano I polacchi, lo spettacolo che portiamo in giro per il mondo dal ’98, affiancando alle tre maschere di Padre Ubu, Madre Ubu e Bordur, un coro composto per l’occasione da 15 adolescenti wolof , scelti da Mandiaye N’Diaye tra i giovani del villaggio. Con questi ragazzi Mandiaye ha lavorato per mesi, creando i materiali scenici necessari (cori, danze, improvvisazioni) che sono stati poi assimilati, rovesciati e trasformati da me e da Ermanna in queste ultime tre settimane di lavoro.
Il risultato è un affresco che ha scombinato la composizione linguistica dell’originale. Il wolof è diventata la lingua dominante lasciando al romagnolo qualche improvvisa accensione di Madre Ubu, il francese ha sostituito l’italiano. L’ambientazione “polacca”, immersa nella nebbia del Museum Historiae Ubuniversalis, ha lasciato il posto al sole di un villaggio di capanne, avendo deciso di debuttare alle 5 del pomeriggio, in piena luce. La vicenda si è spostata dall’Adriatica dei palotini ravennati al rifugio nella savana di un feroce signorotto della guerra (ce ne sono tanti, in Africa) e della sua femme bianca, iridescente come uno spettro, attorniati da una banda di children/soldiers armati di kalashnikov. La Sierra Leone e la Liberia sono a due passi da qui, con il loro carico di morti e di sangue. Il nostro Padre Ubu è il simbolo dei tanti dittatori e dittatorelli di questo continente martoriato: nella sua trasparenza tale immagine rivela anche un doppio fondo, tutta la sua ambiguità seducente: Ubu è certo terribile e impresentabile, ma quanto lo sono anche i signori in guanti bianchi che con le banche e le strategie economiche e il debito tengono alla fame popolazioni intere?
Il coro dei palotini wolof è carico di energia, come forse potete immaginare, contagioso nel suo scatenarsi nei cori e nelle danze, nell’esuberanza scenica dei corpi e delle voci, sospinto dalla musica dal vivo di tre percussionisti di gembe e sabar : ma quello che preferisco sottolinearvi è il lavoro d’arte che si sta facendo. Rigore e disciplina sono le prime armi di questi ribelli. Della non-scuola abbiamo esaltato spesso l’aspetto dionisiaco, sacrosantemente, ma mi piace da qui ricordare ancora una volta che i greci chiamavano gli attori oi tecnitai Dionisou, i tecnici di Dioniso: senza Dioniso non si dà teatro, ma anche senza “tecnica” (ovvero senza allenamento quotidiano, senza sapienza gestuale e vocale, senza precisione linguistica) non si dà teatro.
Lo spazio in cui lavoriamo è un perimetro di 30x40 metri, recintato in muratura: al centro un gazebo di cemento pitturato di nero col tetto di paglia, davanti al quale abbiamo costruito una piccola piattaforma trapezoidale. Piattaforma e gazebo sono il fulcro scenico, ma l’azione si svolge in tutto lo spazio, offrendo ad Alessandro Renda e alla sua telecamera primi piani e campi lunghi, come quello in cui arriva il re a cavallo (questa volta un cavallo vero). Nello spazio ci sono anche sei capanne, il suddetto cavallo, un asino, tre capre i cui belati si frammischiano ai canti dei palotini, diverse galline che attraversano il palco seguendo il loro libero arbitrio e un’oca da noi ribattezzata “oca mistica” per come si accuccia vicino ai percussionisti e li ascolta suonare.
Due parole sulle nostre maschere. Padre Ubu (Mandiaye N’Diaye) e Madre Ubu (Ermanna Montanari) sono impressionanti, a quasi un decennio dal debutto al Rasi, icone che superano il tempo: il primo finalmente improvvisa battute in wolof dopo aver recitato per anni in romagnolo, è fiero di essere tornato a casa, nel villaggio natale, dove sta realizzando insieme alle Albe il desiderio di un teatro in Africa, dove con Takku Ligey, l’associazione da lui fondata, combatte quotidianamente la sua pacifica guerra per strapparlo alla povertà e al deserto, la seconda si aggira bianchissima tra tutti quei corpi scuri come un fantasma in pieno giorno, tirando fuori dalla sua voce i suoni incantatori e le malie di uno spiritello malefico. Immutabili entrambi, e sempre ferocemente vitali. Chi è mutato invece è Bordur, qui incarnato da un Roberto Magnani saltellante, baffetti scuri disegnati sul volto, che si lancia nella danza senegalese scatenando l’ilarità popolare.
Ci aspettiamo alla “prima” una marea di persone. Già le prove sono state normalmente abitate da frotte di bimbi, da giovani, da donne che allattavano. Un giorno mi sono voltato pensando che non ci fosse nessuno, e invece erano in tanti e silenziosi, ma quanti sono ho chiesto? 110 ha risposto Ermanna, che li aveva contati. In questi ultimi giorni abbiamo chiuso le prove per avere un poco di intimità, allora molti di loro salgono sugli alberi fuori del recinto e da là continuano a seguire il lavoro. Sanno tutte le battute dello spettacolo.
In mezzo alla gente di Diol Kadd e a quella dei villaggi vicini ci saranno anche ospiti stranieri, come Marie-Agnès Sevestre e Denis Triclot, direttrice e amministratore del Festival Internazionale delle Francofonie di Limoges, che ha coprodotto lo spettacolo, e dove andremo in ottobre per il debutto europeo, prima di approdare in Italia, al Festival VIE di Modena (per il debutto nazionale) e a Ravenna, dove questa avventura ubuesca è partita.

25 gennaio 2007


Ubu Buur
dall’irriducibile Ubu di Alfred Jarry, sabato 27 gennaio 2007 ore 17,30 Diol Kadd (Khombole) Senegal

drammaturgia e regia Marco Martinelli; con Mandiaye N’Diaye (Padre Ubu), Ermanna Montanari (Madre Ubu), Roberto Magnani (Bordur), Moussa Ka (Re del Kajor); Aliou N’Diaye, Baba N’Diaye, Boubacar Diaw, Mame Mor Diop, Khadim Faye, Moussa Gning, Cheikh N’Diaye, Khadim Ndiaye, Lamine N’Diaye, Mamadou N’Diaye, M’Baye Babacar N’Diaye, Mouhamadou N’Diaye, Ndiaga N’Diaye, Mor Ndiaga N’Diaye, Omar N’Diaye (coro palotini-ribelli); Assane Fall, Mame Abdou Fall, Samba Fall (musicisti); Boubacar Diallo (dj); Alessandro Renda (cameraman); ringraziamenti a Pierre Edouard Diatta, Khadim Fakh N’Diaye, Khadim Ndiogou N’Diaye (custodi), Aw Dieng, Mame Asta Kandji, Maty N’Diaye, Mere Thioro N’Diaye (cuoche), Assane Kane, Daymane N’Diaye (muratori), Baye Moussa Gueye (costruttore delle quinte) Gorgui Yaba N’Diaye (proprietario del cavallo), Luca Ranieri.


 
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