ateatro 106.1
1967-2007 Un'altra Ivrea?
L'editoriale di ateatro 106
di Redazione ateatro
 

Con una lettera ad ateatro che pubblichiamo in questo numero della webzine, Alfredo Tradardi si chiede – e ci chiede – se ha senso pensare a un terzo Convegno di Ivrea, dopo quelli del 67 e dell’87.


Un po’ di storia
(soprattutto a uso dei più giovani)

Esattamente quarant’anni fa un ampio e variegato gruppo di artisti e artisti (raccolti intorno alla rivista “Sipario”, allora diretta da Franco Quadri) lanciava il “Manifesto per un nuovo teatro” e si incontrava a Ivrea in un convegno destinato a lasciare il segno.
Da allora per il teatro italiano “Ivrea” è diventato sinonimo della necessità di un cambiamento sempre atteso, e che non arriva mai. Un cambiamento che è (che dovrebbe essere…) senz’altro generazionale, e investe i diversi aspetti dell’evento teatrale: il linguaggio (le “tecniche drammatiche e i nodi espressivi”, si diceva nel ‘67), la critica, il confronto con le altre arti e con la scena internazionale; e di conseguenza gli aspetti organizzativi attraverso la denuncia dell’“invecchiamento” e del “mancato adeguamento delle strutture”.
Ivrea 67 era insieme una denuncia del mancato rinnovamento del teatro italiano e un tentativo di innescarlo, questo rinnovamento. In parte – o meglio, su alcuni aspetti – questo rinnovamento c’è stato: negli anni Settanta si è imposta una nuova idea di teatro, si è creato un nuovo pubblico, molte esperienze hanno portato profonde trasformazioni del linguaggio teatrale e nell’intreccio tra le diverse arti. Insomma, l’aggiornamento del teatro italiano - per chi l’ha voluto - c’è stato, eccome.
Tuttavia per molti altri – e per gran parte del nostro teatro - la situazione è rimasta bloccata. Le esperienze più innovative sono state riconosciute da critica e pubblico, ma in genere il sistema teatrale le ha lasciate ai margini e le ha in vario modo ghettizzate, senza che potessero incidere davvero sulle strutture portanti del nostro sistema teatrale (l’unico tentativo di portarle al centro della scena, con la Biennale Teatro dell’84-85, venne subito stoppato).
Vent’anni dopo Ivrea 67, i “quattro moschettieri” de primo convengo (Bartolucci, Capriolo, Fadini e Quadri, spronati da Alfredo Tradardi) hanno provato a rilanciare le parole d’ordine e gli slanci dell’incontro che in Italia aveva dato inizio al ’68 teatrale. Sotto l’insegna “Memorie e utopie”, venne chiamato a raccolta il nuovo teatro (un’area certo più riconoscibile e omogenea, almeno con il senno di poi, rispetto ai firmatari di Ivrea 67) per una proposta insieme poetico-culturale e politica. Nel 1987 protagonista di quell’incontro era soprattutto una folta generazione di teatranti (all’epoca erano intorno alla trentina) che andava da Tiezzi-Lombardi a Barberio Corsetti, da Martone alla Raffaello Sanzio (il “teatro dei gruppi”, per usare una facile etichetta). L’ambigua risposta del sistema teatrale venne un paio d’anni dopo, impostata da un apposito convegno a Perugia, con la nascita dei Centri di Ricerca (sul modello del modenese San Geminiano e del milanese Crt): strutture stabili e radicate nel territorio, che avrebbero dovuto costruire una rete di sostegno organizzativo e distributivo alle realtà del nuovo teatro. Ai gruppi si riconosceva la qualità estetica, ma venivano messi sotto tutela per una sostanziale immaturità politico-organizzativa.
Da un certo punto di vista, Ivrea non ha perso la sua attualità. Perché ancora oggi il sistema teatrale italiano resta ancorato ai suoi vizi, che sembrano eterni (e che riflettono alcuni vizi nazionali): mancato ricambio generazionale e “monopolio di gruppi di potere”, burocratizzazione politica e amministrativa e mancanza di fantasia organizzativa (o meglio, incapacità di recepire le invenzioni organizzative delle periferie da parte del centro del sistema), chiusura rispetto ai nuovi linguaggi, alle nuove tecnologie, alla scena internazionale. Con alcune aggravanti, di fronte al vorticoso incalzare dei tempi: basti pensare da un lato all’impatto sempre crescente dei mass media sulla comunicazione (compresa quella teatrale: con implicazioni sia nel rapporto con il pubblico all’interno dell’evento spettacolare; e sul ruolo del eatro all’interno della mediasfera); dall’altro alla diminuzione delle risorse pubbliche (e alle implicazioni di una mentalità “maggioritaria” e non più consociativa, ma ugualmente clientelare).


Ivrea 2007?

Tra i suoi obiettivi, ateatro ha senz’altro il rinnovamento del teatro italiano nei suoi vari aspetti. E’ dunque ovvio che si ponga in un rapporto di continuità con i due convegni di Ivrea: non a caso ateatro è nato dopo la “cacciata” di Mario Martone dalla direzione del Teatro di Roma; non a caso in ateatro 44, nel 2002, per lanciare le nostre Buone Pratiche abbiamo pubblicato un dossier su Ivrea, ripubblicando il Manifesto per un nuovo teatro del 67 e la relazione di Gianfranco Capitta, Gianni Manzella Oliviero Ponte di Pino per Ivrea 87.
Con queste premesse, accogliamo con grande piacere l’invito di Alfredo Tradardi a riflettere sull’opportunità di un terzo “convegno di Ivrea”. Anzi, ci piacerebbe aprire la riflessione a tutti i frequentatori del sito, perché riteniamo che – in un momento come questo, dove è difficile trovare chiavi di lettura unificanti e prospettive condivise – una riflessione collettiva possa essere assai utile.
Nell’attesa di altri contributi, possiamo provare a impostare la discussione.

In primo luogo, va riconosciuto il valore storico di quei due incontri, che hanno segnato la storia del nostro teatro. Riflettere su quell’esperienza in una prospettiva storica, rendendo disponibile la documentazione raccolta e approfondendo la ricerca, è senz’altro utile.
Ma non crediamo che Ivrea 2007, se si farà, possa e debba limitarsi all’ordinamento archivistico dei materiali sui due incontri (magari con un bilancio degli obiettivi delineati e di quelli raggiunti).
Quello che più ci interessa è ovviamente capire quanto dell’ispirazione di quei due incontri resti ancora valido e possa oggi esserci utile.
Insomma, ha senso ed è possibile rilanciare oggi lo “spirito di Ivrea”?
Rispetto all’87 (e a maggior ragione rispetto al ’67), come si è già sottolineato, alcune condizioni sono rimaste immutate e diversi problemi restano irrisolti: il sistema teatrale italiano resta nella sostanza bloccato, sclerotizzato.
Tuttavia è altrettanto evidente che in questi decenni molte cose sono cambiate.
In primo luogo il fronte del nuovo teatro è assai diverso e più articolato rispetto alla linea “avanguardista” dell’87 (anche se già allora alcuni interventi, come quelli di Tiezzi e Barberio Corsetti, uscivano dalla logica dell’avanguardie per andare verso un “teatro di poesia”). Oggi il nuovo arriva sulla scena anche da altre direzioni: l’interesse per la nuova drammaturgia (sia italiana sia straniera), ma anche un teatro d’attore vitale e variegato (compreso l’arcipelago del teatro di narrazione, con il suo impegno civile), e ancora i “teatri delle diversità” e “del disagio”.
Queste esperienze possono trovare un terreno unitario d’incontro e di scambio, una piattaforma comune?
Facendosi carico della lezione novecentesca e prendendo atto della élitarietà del teatro di fronte all’avvento dei mass media, Ivrea 67 si era mossa all’interno della tradizione delle avanguardie. Ivrea 87 si muoveva ancora all’interno di quella logica (anche se già emergevano spinte ed esigenze diverse). Oggi quel metodo è ancora valido? E’ ancora in grado di cogliere il senso delle trasformazioni e anticipare il futuro?
C’è in ogni caso un settore in cui il metodo delle avanguardie non sembra aver perso il proprio smalto: è quello della multimedialità e dell’intreccio del teatro con i nuovi media e le nuove tecnologie.
Ma probabilmente, per rilanciare lo “spirito di Ivrea” non è sufficiente limitarsi a censire l’esistente, identificare un terreno condiviso e creare un fronte comune. E’ ancora più importante e necessario creare le condizioni per far emergere il nuovo: in questa ottica, esperienze come il “Premio Scenario”, “Opera Prima” o il “Premio Riccione” e altre iniziative analoghe, così come certi “festival vetrina” da sempre attenti alle nuove realtà, svolgono una funzione importante, ma certo non basta. Ma come è possibile favorire davvero le realtà più giovani e nuove? C’è inoltre, da parte delle giovani generazioni, una notevole diffidenza nei confronti degli assetti esistenti e la richiesta di regole chiare e meccanismi trasparenti: come possiamo soddisfarli?
Un altro nodo riguarda gli assetti istituzionali. Il teatro in questi decenni ha funzionato per progressive cooptazioni: per prime – dagli anni del fascismo - furono sovvenzionate dal potere centrale le compagne private, nel dopoguerra anche gli stabili, dagli anni Settanta le cooperative e i gruppi di ricerca, infine nelle circolari ministeriali entarono via via stabili privati, teatro ragazzi, circuiti, festival, centri di ricerca, progetti speciali…); negli ultimi anni la riduzione del fondo ministeriale è stata compensata da un aumento di risorse messe a disposizione dagli enti locali (regioni, province e comuni) e più di recente da Arcus spa. Il nuovo ministero Rutelli, al di là del progressivo reintegro del FUS previsto dal programma di governo, ha stanziato somme notevoli per il Festival Nazionale e per il Fondo Stato-Regioni. Ma come verranno gestiti questi fondi? Con quali criteri verranno ripartite queste risorse? Andranno a beneficio dei soliti noti, in grandi vetrine festivaliere e in progetti faraonici, o potranno contribuire a rinnovare il nostro sistema teatrale? Anche su questo versante un’iniziativa come Ivrea 2007 dovrebbe prendere posizione.
Infine – ma è ovviamente un nodo centrale – gli aspetti organizzativi. L’immobilismo degli stabili – già denunciato nel ’67 - è ormai cronico: sono affollati di direttori a vita e bloccati nelle loro scelte artistiche da macchine pachidermiche ed equilibrismi politici. I centri (malgrado qualche eccellenza come Ravenna Teatro) non sono riusciti a creare una rete alternativa e vivono da anni una crisi d'identità. La forma del gruppo, egemone negli anni Ottanta, si è profondamente trasformata e non offre più un modello. Molto si sta muovendo: continuano a nascere nuovi teatri, nelle grandi città (soprattutto nelle periferie) ma anche nei centri minori; fioriscono festival e rassegne (anche se alcune realtà “storiche” appaiono in declino); l’esperienza delle residenze sembra offrire un’alternativa interessante; si sviluppano interessanti forme di auto-organizzazione, a diversi livelli.

Questi sono solo alcuni spunti di riflessione: volendo davvero pensare a una Ivrea 2007, di carne al fuoco ce ne sarebbe davvero molta. Quello che forse manca, oggi, è un luogo – uno spazio critico - nel quale condurre questa riflessione. Le due edizioni di Ivrea sono nate dalla collaborazione – dalla comunanza di intenti – di un gruppo che raccoglieva artisti e critici, gi uni e gli altri certo “di tendenza”. Un meccanismo analogo ha dato forza negli anni Ottanta al Terzo Teatro, grazie alla collaborazione tra i gruppi e alcuni docenti universitari. Oggi è possibile pensare a una analoga alleanza tra “teorici” e “pratici”? La critica può ancora avere un ruolo propulsivo? E in che sede lo può esercitare?
A questa, come ad altre domande, dobbiamo ancora cercare una risposta. Quello che possiamo fare è – ripetiamo - mettere lo spazio liero e indipendente di ateatro a disposizione di tutti, per provare a riflettere, tutti insieme, se è possibile in quale modo rilanciare lo “spirito di Ivrea”.


 
© copyright ateatro 2001, 2010

 
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