ateatro 105.43
Il taccuino di un'attrice in cerca della sua voce
Pietre d'acqua di Julia Varley, Ubulibri, Milano, 2006
di Fernando Marchiori
 

Pietre d’acqua di Julia Varley (Ubulibri 2006) è un libro consigliabile a chi si avvicina ai manuali di antropologia teatrale e rischia di credere di aver capito. Non solo ci offre una interessante declinazione personale (femminile) del lessico familiare all’Odin Teatret, all’ISTA e a una galassia di studi ormai canonici, ma soprattutto ci mette di fronte all’evidenza di una comprensione e di un sapere che precedono e trascendono la loro stessa – fondamentale e sempre insufficiente – fissazione nei libri. Come nei seminari, nei quali

“i principi che all’Odin Teatret sono incorporati implicitamente in tempi lunghissimi (…) sono spiegati, analizzati ed esemplificati in poche ore”,

anche nei manuali si rischia infatti di leggere delle conclusioni come se fossero i presupposti di un lavoro che è fatto invece di ricerca ed esperienza concrete. Mentre conferma l’importanza del lavoro dell’Odin Teatret nella definizione di un linguaggio comune per saldare la teoresi e la pratica teatrale, questo “taccuino di un’attrice” è dunque anche un utile monito per coloro che scambiano lo studio di principi e tecniche per il “metodo Barba”, e insieme rappresenta un tentativo di salvaguardare ciò che sempre si perde nel passaggio dalla pratica tacita e lenta, dall’esercizio dell’intelligenza del corpo, alla comprensione meramente intellettuale di elementi tecnici.



L’autrice racconta prima un’iniziazione al teatro ancora immerso nel mondo “dell’ideologia e dell’entusiasmo disarmato”, poi il lungo, faticoso e in un certo senso sempre incompiuto apprendistato nell’Odin Teatret, dove ha dovuto “imparare a pensare con il corpo per esistere come attrice”. Qui dapprima la crisi:

“Avevo scelto il teatro come modo di dire no, per essere ribelle attraverso l’azione (…) All’Odin Teatret avevo scoperto che non sapevo cosa fosse realmente un’azione”.

Poi l’“adozione” da parte di Tage Larsen, l’apprendimento del training come se fosse “una forma di preghiera pratica”, il “samurai” insegnato da Iben Nagel Rasmussen, le figure del mimo studiate con Ingemar Lindh, i trampoli, l’acrobatica, il lungo lavoro sulla sua voce fragile e insicura. Nel definire la propria drammaturgia d’attrice, Julia Varley ne rinomina il livello dinamico come “presenza”, quello narrativo come interpretazione del tema, del testo e del personaggio, e quello evocativo come “universo personale fatto di necessità e rigore, di immaginazione impulsività”. Associazioni, equivalenze, organicità, opposizioni, improvvisazione e composizione, azioni fisiche e azioni vocali, montaggio ed elaborazione: sono concetti e procedimenti che l’autrice affronta sempre cercando di assecondare il “pensiero del corpo”, il corpo pensante che dev’essere lasciato decidere da sé. Anche l’azione più astratta

“è concreta nel pensiero dei piedi e nel respiro delle cellule. È il risultato di una reazione a qualcosa che sento e conosco, ma sono incapace di parafrasare in figure”.

Nel “micro-laboratorio” che è oggi il training per Julia Varley – zona non pubblica di ricerca, archivio personale e “intercapedine di indipendenza dal regista” e dagli obiettivi dell’Odin – l’attrice lavora in autonomia senza sapere dove andrà a parare, “ma consapevole che sto piantando i primi semi del bisogno di fare un nuovo spettacolo di cui ignoro tutto”. Può nutrirsi del paragone con la pittura o della ricerca vocale. Può tradurre in azioni fisiche un testo, trasformare in azioni vocali una partitura fisica e persino fissare una partitura vocale che serva da sottotesto. Cuore dell’azione è il torso, come nelle sculture di Rodin. È lì quel nodo senza il quale l’azione non esiste, ma non si vede, scorre, è fatto di tensioni in movimento. Mentre improvvisa e crea materiali ha completa libertà e totale fiducia da parte del regista. Poi è con quei materiali che il regista improvviserà a sua volta.





Le pagine dedicate al montaggio e al rapporto dell’attrice con Barba sono tra le più interessanti del libro, proprio perché svelano una prospettiva differente sulle varie fasi di lavoro, compresa quella più dura, “quando Eugenio abbandona il punto di vista dell’attrice per passare dalla parte dello spettatore”. È un grande potere quello del regista, che la Julia Varley conosce bene, sia per un rapporto di incontro-scontro con Barba che dura da trent’anni – è interprete di tutti gli spettacoli da Anabasi in poi – sia perché è lei stessa a sua volta creatrice di assoli e dimostrazioni.
Certamente il libro sarà utile, come si augura l’autrice, “a un’attrice in cerca della sua voce” anche perché è un esempio di storiografia al femminile. Uno sforzo riuscito proprio perché la ricerca di un atteggiamento, di un procedere nuovo che sia anche un discorso di gender, non si riduce mai ad antagonismo pregiudiziale o a polemica rivendicativa. È in realtà una ricerca aperta e concreta. Cioè ancora una volta più praticata (nella scrittura) che teorizzata. Fin dalla scelta del sostantivo femminile “attrice” per parlare anche del mestiere in generale, sovvertendo così “l’uso corrente di includere il femminile nel maschile universale”. Una scelta che potrebbe condizionare pesantemente lo stile ma che invece è risolta con delicatezza e dichiarata come un semplice contributo al riconoscimento del ruolo delle donne all’interno di quella “storia che danza” che è la storia della professione teatrale. Dare volto e voce a persone apparentemente anonime è uno degli obiettivi per i quali Julia Varley ha dato alle stampe questi suoi taccuini d’attrice. E lo raggiunge senza mai perdere di vista le relazioni, così importanti per le donne di teatro, che spesso

“trovano più soddisfazione nel partecipare a un progetto comune che nel vedere il proprio nome stampato su un libro”.

Ecco allora gli interessanti richiami al lavoro di The Magdalena Project, un’iniziativa di donne di teatro fondata da Jill Greenhalgh che organizza festival, esperienze seminariali, approfondimenti teorici. Ecco una galleria di veloci e intensi ritratti di artiste scontornati con decisa sensibilità politica: il coraggio della cilena María Canepa, impegnata dopo il golpe del 1973 nelle poblaciones di Santiago in “corsi di dizione” che davano occasioni e strumenti alle donne di quei quartieri popolari di prendere la parola in pubblico; la magia di Zofia Kalinska, collaboratrice di Kantor in Polonia; la grande maestra di danza Odissi Sanjukta Panigrahi, che “danzava sulla scena e nella vita come una bambina e un guerriero”; la cubana Flora Lauten che continua, nonostante le difficoltà materiali, a dirigere il Teatro Buendía in una chiesa ortodossa sconsacrata all’Avana; Patricia Ariza, regista e attrice del Teatro La Candelaria, che in Colombia ha lavorato con prostitute, bambini di strada, mendicanti, e coordina un’associazione di artisti per la pace. E naturalmente Iben Nagel Rasmussen, la cui straordinaria attenzione alla pedagogia teatrale l’ha ormai resa vera e propria “capostipite di una tradizione” i cui esiti sono disseminati nel mondo.


 
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