ateatro 104.51 BPSUD Il ritorno a Itaca A Napoli, a Napoli di Claudio Ascoli, Chille de la balanza
Ne “Le origini di un attore” PierGiorgio Giacchè si domanda «Che senso ha dire dov’è nato un attore? Di quell’attore che si dice e si vuole sempre nomade e abitante una terra di nessuno?» Ha ragione, eppure questo non è del tutto vero quando l’attore è nato a Napoli. E io sono nato a Napoli nel 1950 e a Napoli ho fatto teatro molti anni, prima di abbandonarla volontariamente nel 1985.
Da allora sono in Toscana o meglio a Firenze, dove ha preso vita la mia buona pratica, di cui vi parlo oggi.
La buona pratica
Con la mia compagnia, i Chille de la balanza, nata a Napoli nell’ormai lontano 1973, ho ri-dato vita negli ultimi dieci anni ad un pezzo di città, San Salvi: l’immenso ex- manicomio di Firenze. Il “luogo San Salvi” è un fenomeno unico nel panorama fiorentino (e non solo); nonostante le migliaia di spettatori che ogni anno lo frequentano con una forte appartenenza e assiduità, non è un teatro, non è un laboratorio, non è uno spazio espositivo, né un punto di incontro; forse è tutto questo insieme e ancora di più: una casa dove convivono produzione ed ospitalità nel segno del rigore e della contemporaneità. Un giornalista l’ha recentemente definito “repubblica indipendente delle Arti”, e la vita di San Salvi, pur se così correlata a quella dei Chille, è infatti percepita da tutti come una “cosa pubblica”, aperta al mondo esterno. Chi viene a San Salvi sa a cosa va incontro…e si fida di quanto gli si propone! Quando alcuni anni or sono si ipotizzò una nostra promozione e trasferimento altrove, in pochi giorni oltre tremila persone manifestarono pubblicamente la loro opposizione e imposero alle istituzioni la prosecuzione del progetto artistico.
Non voglio qui quasi nulla dirvi delle cose fatte a San Salvi (dal Centro Antonin Artaud, alla Trilogia della vita - con gli eventi Kamikaze, Macerie e Paure in occasione dell’11 settembre, dal lavoro su Dino Campana - che proprio nel padiglione in cui lavoro fu rinchiuso prima del definitivo internamento a Castelpulci - a quello su Kafka, dagli special events come Calendimaggio, Giornata mondiale della Poesia, Ferragosto a San Salvi, 1° dicembre…per finire al recentissimo progetto su Cesare Pavese); in questo lavoro di Teatro del luogo, ha forse maggior rilievo – e qui ritorna Napoli, le mie radici, la mia cultura – spendere piuttosto qualche riga sul rapporto con il pubblico. Alla frequente domanda “il pubblico cos’è?”, io rispondo: «Indubbiamente è, intanto, l’altro. Proprio perché sono particolarmente chiuso ho necessità di un incontro con l’altro; non so se ne ho bisogno perché l’altro come si dice banalmente spiega me stesso; penso di averne necessità perché sono talmente legato alla mia terra, alla mia solitudine che ho un disperato bisogno dell’incontro. Il pubblico è anche la “piccola cosa” che dà senso ai grandi voli; forse è anche lo specchio, un modo di guardarsi dentro. E’ difficile per me capire cos’è, non lo so cos’è, in fondo non mi sono mai posto il problema di capire cos’era. So che c’è. E’ un po’ come un figlio, come un amore, come un genitore: io non so cos’è, non so cos’è mia madre, non lo so proprio, però c’è, è qualcosa che c’è.
La mia vita è il teatro, semplicemente e soltanto un teatro degli affetti. Nel senso che l’unica cosa che renda possibile tutto questo insieme impossibile, questo dis-equilibrio permanente, esplosivo, ridondante che è il teatro è una vita di affetti. Come fai altrimenti a vivere tutto questo? Che possibilità hai di mettere rigorosamente insieme uno smembramento, uno svuotamento, un tornare dentro, uno star leggero, un danzare, un perdersi, un non accontentarsi, un non accumulare nulla, un continuo buttare via e rifondare? Come fai, se non hai la sicurezza, nel tuo corpo, di un affetto che ti invade? Ma l’affetto è faticoso, richiede attenzione costante e continua, tensione, dedizione, quotidiana costruzione di una traiettoria comune che parta dalle proprie radici. »
Il ritorno a Itaca – La partenza. Perché sono andato via.
Ora però è il momento di capire come io viva l’essere solo oggi qui a Napoli e cosa nei fatti impedisca il mio (ma non solo il mio!) ritorno a Itaca.
Ero partito più di vent’anni fa da questa città splendida, contraddittoria, che amo profondamente nella sua contraddizione, e l’unico modo per me di andare via era trovare un opposto. Avevo forse bisogno di una maggiore solitudine: a Napoli è difficile essere soli!
Nello stesso tempo a Napoli era (è?) anche difficile fare, agire al di là della continua emergenza, era quasi impossibile non impegnare il proprio tempo che nella continua ricerca dell’interlocutore giusto: bisognava capire che la regola dominante era l’assenza di regole e che ogni artista doveva cercare di ingrandire la propria fetta di torta, essendo immodificabile la torta stessa. Fortunatamente, però, questo fenomeno che in parte si è purtroppo diffuso sull’intero territorio nazionale (spesso mi trovo a dire che in tempi di crisi, l’intera Italia si è napoletanizzata) era accompagnato da tante esaltanti e positive energie.
Ma torniamo al mio periodo napoletano.
Scrive Costanza Lanzara (Il teatro dei Chille) «A Napoli, nel lontano 1973, in via Port’Alba al numero 30, nel quartiere universitario, una scritta su due neon sovrastava l’entrata di un teatro sotterraneo: “TEATRO, COMUNQUE”. Una virgola a segnare il limite, la soglia su cui sospendere un sostantivo che abbracciava un universo di creazione - il teatro -, verso un avverbio che avrebbe segnato la traiettoria del loro percorso: - comunque -. “Comunque” al di là di ristrettezze economiche, “Comunque” come impegno politico, quando portare “Majakovsky a New York” per le strade della città napoletana significava indurre le forze di polizia a credere che fosse necessaria la loro presenza per proteggere gli attori. “Comunque” come un destino o un’ossessione che ha profondamente segnato Claudio, unico dei tre figli e dei tanti cugini della famiglia a seguire le orme artistiche del padre Antonio e soprattutto dello zio Nello.
Fu leggendo un vecchio testo, in copia anastatica, di Luigi Molinaro del Chiaro “Canti popolari raccolti in Napoli” che Ascoli trasse l’ispirazione per la nuova iniziazione. Chille de la balanza, in italiano ‘Quelli della bilancia’. Ovvero gli antichi venditori di frutta e ortaggi del Seicento che giravano tutti i giorni per i mercati del centro storico muniti delle loro stadere, le bilance appunto, catturando i racconti del popolo e gli aneddoti più stravaganti e li riproponevano la sera nelle osterie davanti a un bicchiere di vino.
Era una stagione di lotta, di impegno politico, ma nonostante questo di leggerezza, di divertimento.(…)
Intanto continuava il percorso rigoroso di ricerca: iniziò il lavoro di scrittura scenica su Pulcinella, figura emblematica del retroterra culturale partenopeo che Claudio coltivava in sé. Una lettura retrospettiva del lungo percorso ascoliano di creazione teatrale può cogliere, nei tratti che compongono il Cetrulo di Acerra, un sottile filo rosso che è sempre rimasto sotteso alla trama creativa ed esperienziale del regista napoletano. In Pulcinella, infatti, si può leggere, svincolandolo dalla funzione di presunta caratterizzazione dell’anima napoletana che in esso si specchia, l’immagine archetipica del trickster, strano personaggio emarginato e peregrinante, frequentatore di sporcizie e oscenità, ma allo stesso tempo eroe fondatore, donatore di beni e generoso demiurgo. Pulcinella, come il trickster, fa ridere di se stesso e della sua inadeguatezza, che è poi maschera della sua inquietante alterità, dicendo in tal modo l’impossibilità di un’alternativa radicale del disordine al sistema dei valori culturali. Il teatro come soglia liminale della percezione conflittuale dell’abolizione del limite ha sempre rappresentato per Ascoli, nel rapporto individuo-società, il campo di esplorazione del disordine mortifero e genesico, che la creazione lascia erompere da sé. Senza mai scegliere per uno solo dei due poli egli ha incessantemente proposto nei suoi spettacoli la contraddizione-in-vita dell’esistenza umana, fino a connotarla come condizione di felicità. Ecco, quindi, che Pulcinella-trickster si muove leggero tra Dio e il diavolo, la vita e la morte, candidamente osceno, sa essere furbo e sciocco allo stesso tempo, maestro nell’uso del nonsenso, del discorso alla rovescia, irriverente verso ogni forma di istituzione; tutti elementi che ricompariranno, a tratti, nel gioco profondo della vita artistica di Claudio Ascoli. (…)
Se di Napoli portò via qualcosa con sé fu l’ammaestramento corporeo di dar voce alle sensazioni fisiche, di instaurare con esse un dialogo che fosse la modalità conoscitiva che condiziona l’approccio al mondo. Ciò che, in fondo, preconizza il corpo dell’attore artaudiano del quale Ascoli sentirà presto il fascino travolgente. Il corpo nella sua immediatezza sensibile così lungamente sollecitato dagli odori, i colori, i sapori, della sua Napoli era e sarà sensorialità della conoscenza, lo strumento di appaesamento nell’altrove topico e utopico. »
Il ritorno a Itaca – L’impossibile ritorno: il tradimento e il senso di colpa.
Perché allora - per di più partendo da simili premesse, e credo che questo destino non riguardi solo me, ma accomuni tanti artisti nati a Napoli e che altrove hanno trovato una loro compiutezza - l’impossibile ritorno? E tutto ciò mentre la città soffre, tra i tanti mali, proprio della mancanza di esperienze nuove e al tempo stesso antiche, capaci di relazionare e coniugare l’humus partenopeo con diverse visioni e modi d’essere?
E’ difficile rispondere: io credo – tra le molte cause - che ogni partenza da Napoli sia sempre stata vista, percepita dalla città (dai napoletani) come una sorta di tradimento imperdonabile e che al tempo stesso che gli artisti “emigrati”, pur nella consapevolezza della giustezza della scelta fatta, continuino a vivere un inconfessato e immotivato senso di colpa.
Lo stallo di questa surreale situazione oggi, nel perdurare e nell’aggravarsi della questione meridionale anche in campo teatrale, impone finalmente un comune, inedito sforzo di novità.
Il ritorno a Itaca – Un invito alla città e…ai napoletani come me, definitivamente lontani da Napoli.
Ritengo, e come me molti compagni teatranti e operatori culturali che lavorano con successo in tutt’Italia, che sia giunto il momento di un nostro ritorno ad Itaca, di un ritorno che porti umilmente con sé le esperienze vissute altrove, rendendole disponibili all’incontro e alla verifica con la Napoli di oggi: un incontro consapevole delle tante differenze-divergenze che potrebbero manifestarsi e che il nostro essere napoletani dovrebbe (forse) meglio capire ed interpretare.
Solo allora, dopo aver contribuito o provato a contribuire ad una possibile, necessaria nuova nascita della città, ri-partire da Napoli per andare…altrove, poiché – come dice Giacché «…l’attore è sempre nomade e abitante una terra di nessuno»: e ciò finalmente potrebbe valere anche per un attore napoletano.
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© copyright ateatro 2001, 2010
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