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BPSUD Materiali Il sipario s'alza a sud
Dal "Sole 24-Ore", 3 dicembre 2006
di Renato Palazzi
 

Non a caso, forse, tra i talenti più affermati del nuovo teatro italiano spiccano i messinesi Spiro Scimone e Francesco Sframeli e la palermitana Emma Dante, che proprio di recente ha debuttato col suo Cani di bancata, in cui il fenomeno mafioso viene analizzato attraverso ambigui riti di appartenenza. Non a caso tra le personalità prepotentemente emergenti vanno inseriti i siciliani Davide Enia e Vincenzo Pirrotta, i calabresi Dario De Luca e Saverio La Ruina, fondatori del gruppo Scena Verticale, il pugliese Mario Perrotta. E lasciamo da parte la Napoli di Enzo Moscato o di Arturo Cirillo, che rientra in una sfera a sé stante.
Persino i vincitori del Premio Scenario della scorsa stagione, Gaetano Colella e il non-vedente Gianfranco Berardi, autori e interpreti del testo rivelazione Il deficiente, in cui si scambiavano i ruoli di finto e vero cieco, sono entrambi di Taranto. E già si stanno affacciando altri nomi, come quello di Tino Caspanello, autore, attore, regista che arriva da Pagliara, in provincia di Messina, e con la sua compagnia Pubblico Incanto ha presentato a Milano due interessanti testi, uno dei quali nel 2003 era tra i vincitori del premio Riccione.
Si può dire che da qualche anno a questa parte il laboratorio, la fucina creativa della nostra scena sia inequivocabilmente il Sud, dal punto di vista geografico e non solo geografico. Certo, anche Carmelo Bene era profondamente, visceralmente figlio della sua Lecce, che gli dava stimoli espressivi e insopprimibili radici culturali: ma lui aspirava a una purezza, a una sorta di classicità sovra-nazionale. Gli artisti di cui si è detto sono invece i cantori dei pregi e dei difetti della propria terra, ne utilizzano le cadenze, ne svelano i guasti, attingono a piene mani alle sue memorie.
Come si spiega questo fervore, questa vitalità espressiva in luoghi per altri aspetti segnati da piaghe sanguinose? A differenza di quanto avveniva fino a poco tempo fa nella cosiddetta “Romagna felix”, qui è difficile parlare di favorevoli circostanze ambientali, di investimenti in qualche modo mirati, di proficuo sostegno delle istituzioni. In alcune aree dell’Italia meridionale non mancano o non sono mancati i fondi per il teatro, basti pensare ai ricchissimi festival cui abbiamo assistito a Palermo: ma sarebbe difficile, probabilmente, parlare di una vera politica culturale.
Scimone e Sframeli, tanto per fare un esempio, si sono formati alla Civica di Milano, la Dante è maturata tra Roma e Settimo Torinese. L’unico che non può fare a meno di Palermo e del suo stadio è Davide Enia, che però prova in casa perché non riesce ad avere neppure una sede provvisoria. Gli spettacoli di Vincenzo Pirrotta sono stati prodotti dal Centro Teatrale Bresciano o dallo Stabile di Roma, quelli del suo quasi omonimo Perrotta dal Teatro dell’Argine di Bologna. Scena Verticale è riuscita a creare un bel festival nella natia Castrovillari, ma ha rischiato di non poterne fare più nulla per un rovinoso taglio dei finanziamenti.
E’ più utile, di sicuro, interrogarsi sull’influenza di certe innate componenti estetiche, partendo dalla fondamentale questione del linguaggio: in un Paese tradizionalmente privo di un’autonoma lingua teatrale come è il nostro, in un Paese che da sempre oscilla tra l’astratta perfezione del verso dell’Alfieri e la scrittura ingegnosamente esasperata e artificiale di Testori, ogni parlata dotata di una qualche sua implicita forza naturale è destinata a imporsi, a incidere profondamente sulle dinamiche della scena.
Rispetto agli accenti veneziani e più ancora partenopei che da sempre hanno sorretto i comici italiani, il siciliano o il calabrese hanno qualcosa di ruvido e appartato, sono la voce di minoranze escluse dalla Storia, con una loro intatta carica di estraneità che spiazza e aggredisce le platee. Soprattutto rispetto al napoletano sostanzialmente piccolo-borghese di Eduardo, questi dialetti hanno echi arcaici e remoti che evocano di per sé un oscuro sentore di tragedia.
Quest’eco di incolmabili distanze riesce spesso ad accendere l’immaginario dello spettatore anche là dove sfugge il senso delle singole parole, un po’ come avveniva per gli spettacoli in polacco di Kantor. Da Giancarlo Cauteruccio, che ha tradotto Beckett in un aspro calabrese, al giovane Pirrotta che ha raccontato l’Orestea nello stile incalzante con cui vengono di solito descritte le gesta dei Paladini, si è visto che quando alla comprensione razionale si sostituisce il puro ritmo l’autore certo non ne risente. Il che vale ancor più per narratori come Enia o Perrotta, cui serve una materia verbale malleabile dalla quale trarre ulteriori suggestioni sonore.
Ma ovviamente il problema non è solo in una scelta di vocaboli: l’arretratezza economica, la posizione defilata rispetto ai processi della modernità fanno sì che in queste aree si conservino intatte delle antiche tecniche espressive che altrove, se anche mai si fossero sviluppate, non sarebbero in alcun modo sopravvissute. Soprattutto la cultura siciliana, come ha confermato l’ultima proposta ancora in fieri di Enia, Studio # 1, concentra una gamma di risorse alquanto varia e preziosissima per il lavoro dell’attore: si pensi solo ai canti rituali, alle nenie, ai lamenti funebri.
Quando, negli spettacoli della Dante, entrano gli strepitosi fratelli Mancuso con le loro cantilene etniche si è irresistibilmente trasportati in altre epoche e ad altre latitudini, un effetto che, con tutto il rispetto, non verrebbe certo suscitato dall’orchestra Casadei. E poi c’è la tradizione del cunto - una particolarissima modalità di emissione vocale che altera vertiginosamente l’andamento della recitazione e lo stesso costrutto sintattico della frase – o la dizione sghemba dei pupari, che con le loro intonazioni artefatte, coi loro voluti strafalcioni praticano una forma di straniamento spontaneo che sarebbe piaciuto a Brecht.
C’è poi una forte vena antropologica per cui gli spettacoli che arrivano dal Sud, se non attingono ad antichi miti, se affrontano la realtà contemporanea tendono in genere a riflettere una società degradata, squassata da miserie e distorsioni, che non appena approda al palcoscenico acquista il risalto di una livida denuncia: il microcosmo meridionale, così come viene analizzato dai suoi stessi figli, è sì oggetto di feroce sfruttamento, ma anche dominato dalla sottocultura televisiva, dalle mode, dai dettami di un ottuso consumismo. La sua condizione travalica dunque i confini locali, diventa metafora di un disagio più ampio che ci investe tutti.
Soprattutto il tema del nucleo famigliare, coi suoi eccessi e le sue contraddizioni, risulta centrale negli spettacoli di Emma Dante, di Scena Verticale, di Enia, dello stesso Berardi, che utilizzava lo spunto della cecità per evidenziare i rapporti di sopraffazione reciproca che univano tre fratelli: per questi artisti il teatro diventa un formidabile osservatorio sui mali della famiglia patriarcale con le sue oppressioni millenarie, con le sue segrete violenze, coi suoi delitti d’onore, ma anche sul declino della famiglia odierna con le sue piccole soperchierie, coi suoi vizi inconfessabili, coi suoi ordinari impulsi di sottomissione dei più deboli.
E infine la cultura del Sud con la sopravvivenza di tante usanze millenarie - anche a volersi guardare dal folklore – si dimostra uno straordinario arsenale di immagini, di suoni, di gesti carichi in sé di enigmatici archetipi: come si è potuto constatare anche in quest’ultima regia della Dante - ma non solo nel lavoro della Dante - basta portare alla ribalta un certo repertorio di ceri accesi, di lumini, di ex-voto, di statue di madonne, tracce di una religiosità barocca e pagana, permeata di elementi tribali, e l’effetto teatrale è immediato e irresistibile, un effetto teatrale che nessun’ altra tradizione nazionale potrebbe mai suggerire.


 
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