ateatro 103.26 speciale milano il Piccolo Teatro nella rete della contemporaneità Otto domande a Sergio Escobar di Oliviero Ponte di Pino
Su Milano ci sono due scuole di pensiero, gli ottimisti e i pessimisti. In cosa sei ottimista e in cosa pessimista?
Sono assolutamente ottimista sulle opportunità creative che offre Milano. Ma vorrei fare una premessa. Ci si interroga se Milano sia ancora nei grandi circuiti culturali internazionali. Mai come in questo momento Milano è stata un punto di riferimento internazionale, come dimostrano le intense relazioni del Piccolo Teatro con i maggiori teatri del mondo, dalla Francia alla Russia, dalla Germania alla Cina e ai paesi del Mediterraneo. Questa è una precisa scelta che il Piccolo ha fatto, unitamente ad altre istituzioni culturali. Milano ha un solo difetto: non se ne rende conto. Mi viene in mente una recente affermazione di Umberto Eco: quando una città continua a interrogarsi su che cosa sia davvero, allora quella città rischia il fallimento.
Nel teatro, e in generale nella cultura, accadono molte più cose di quanto si veda. Questo però è l’aspetto che forse mi interessa meno: perché se lo dico io, che il teatro lo faccio, può apparire un gesto buonista nei confronti di attività ritenute minori oppure una difesa corporativa della categoria.
Il mio ottimismo riguarda soprattutto le grandi opportunità che offre chi vive e gravita attorno a Milano e che la politica non sa intercettare: così l'ottimismo si somma a un pessimismo radicale, a causa della totale miopia di chi dovrebbe leggere queste cose. Faccio un esempio riferito al Piccolo, perché offre una chiave di lettura interessante soprattutto per i politici.
Nel 1998, dopo che il Piccolo aveva già girato il mondo in largo e in lungo, ho deciso – e con me Ronconi, anche se all’inizio era perplesso – di fare un esperimento, anche se non l’abbiamo mai esplicitato come tale. L’ipotesi era che a Milano vivesse gente forse disorientata, ma profondamente interessata a capire le nuove complessità del mondo. Quindi abbiamo deciso di far recitare nei nostri teatri che sono teatri di prosa e dunque il più lontano possibile dall’universalità della musica - in lingue diverse. Risultato: in otto anni e in tre sale abbiamo fatto recitare in 18 lingue diverse. Questo per noi è un merito, ma anche un dovere. Una proposta che poteva sembrare diretta a un numero molto ristretto di interlocutori - quelli che viaggiano per studio ci sono sempre stati - ha toccato lo zoccolo duro del pubblico, ci hanno riempito le sale.. La “gente” (e uso volutamente questo termine) ha risposto con una fame assoluta di comprensione delle differenze e delle complessità. C’è dunque un potenziale della città, che è anni luce più avanti rispetto all’intuizione della politica e di chi ha amministrato la città.
Ecco, quello che mi induce al pessimismo è che fatti come questi sono totalmente estranei alla politica, la quale non solo è autoreferenziale – e lo si dice da quando è nata la politica – ma anche totalmente miope nei confronti della complessità offerta da opportunità come questa. La politica è pigra, non sa reinterpretare la centralità relativa di Milano, il suo “essere attraversata dal mondo”. Questa curiosità è estranea al mondo politico ed è invece molto presente nella vita dei teatri e della cultura. Sono come due città che non trovano una sintonia.
Accennavi alla quantità di lingue diverse che sono state parlate sui vostri palcoscenici: ma dove andate a cercare gli spettacoli che poi presentate nella stagione internazionale del Piccolo Teatro? Che tipo di rete utilizzate?
La rete è molto artigianale, fatta soprattutto di passaparola. Ci sono vari modi di gestire le ospitalità: attraverso le grandi agenzie, con i critici... Le agenzie ci sono abbastanza estranee: non le guardiamo con diffidenza, se fanno il loro mestiere; ma il nostro grande approvvigionamento di idee arriva piuttosto da una rete complessa di relazioni con altri teatri. La sensazione che mi insegue da quando faccio questo mestiere – e ormai sono quasi trent’anni – è che mi stia perdendo qualcosa di importante che sta succedendo in qualche parte remota del mondo. E’ un pensiero che non mi leverò mai di torno.
Quando parli di rete, ti riferisci soprattutto all’Unione dei Teatri d’Europa?
E’ certamente la rete più evidente di relazioni internazionali, almeno a livello europeo. Si è costituita vent’anni fa per volontà e su progetto di Jack Lang e Giorgio Strehler, che volevano esplicitare la funzione trainante della cultura. Ma poi le cose sono cambiate: l’Unione rimane un punto di riferimento ma di fatto il nostro non è più il festival dell’UTE. Già il primo anno era anomalo, avevamo inserito la Cina, poi sono arrivati il Marocco, la Siria, il Libano...
Il nostro è il tentativo, forse un po’ infantile, di tradurre in fatti una sensazione. Nel mondo attuale, globalizzato, si stanno determinando reti profonde, complesse, che non sono più riconducibili alle logiche di un progetto predeterminato. Insomma, è come se una sorta di volontà si sostituisse al progetto; ma non si tratta di una volontà autoreferenziale, perché si butta nella complessità di relazioni che nascono da mille curiosità. Il Mediterraneo è un caso classico: prima della tragedia delle torri gemelle, il Piccolo ha deciso che se voleva essere davvero un “teatro d’Europa” doveva incarnare un’Europa che ha “un punto di vista su...”. Quindi l’idea di teatro d’Europa doveva svilupparsi attraverso la capacità di prendere posizione, di entrare in relazione con altre realtà che con l’Europa non avevano nessun rapporto. L’UTE resta un riferimento, una rete privilegiata. Ci occorre però un setaccio più fine per individuare i microsegnali: sono loro a darci l’immagine del mondo. E’ da quello che succede nella periferia milanese che si può capire quello che succede nei grandi rapporti internazionali. Di recente siamo stati in Cina con l’Arlecchino, con un gesto quasi retorico: è uno spettacolo di eclatante bellezza, ma può sembrare un’arma spuntata rispetto al nuovo contesto. Invece questo Arlecchino è stato accompagnato da una lunga presenza di nostre persone che hanno lavorato con le università, che hanno fatto incontri sulla commedia dell’arte. Da qui è nata una rete di relazioni, una curiosità reciproca: così abbiamo stretto un accordo che andrà avanti per quattro anni con la maggiore accademia d'arte drammatica di Shanghai. Da lì sono partiti altri mille rivoli: adesso vogliono capire come lavorare sui testi della drammaturgia italiana classica e contemporanea.
Perché oggi il progetto è stato sostituito dalla volontà progettuale di entrare in relazione con reti complesse di relazioni e diversità. Sembra una dichiarazione retorica, in realtà è un metodo che dà risultati fantastici. Basti pensare a Infinities. Con Ronconi non ci siamo certo detti che bisognava dare un esempio di questo metodo, ma Infinities ne è l’esemplificazione, come lo è il Professor Bernhardi. Si tratta del superamento di una visione deterministica, quando si dice: “Ho un progetto, ho determinati mezzi, otterrò questo risultato”. Oggi dobbiamo gestire una complessità che stimola enormemente le capacità del teatro, ma anche quelle della politica, della polis.
Hai citato Ronconi. Che tipo di rapporto c’è adesso tra il Piccolo Teatro e Ronconi?
Siamo arrivati insieme al Piccolo Teatro. Ho chiesto io a Luca di venire a lavorare con me, abbiamo un rapporto personale profondissimo. Negli ultimi anni, di fronte al cambiamento della funzione del teatro e al cambiamento della politica nel senso di polis, questo rapporto si è consolidato. Anche se Luca non è un uomo che ama esplicitarsi verbalmente - lo fa attraverso il teatro - siamo arrivati a balbettare fra di noi, non in pubblico, alcuni desideri, a cominciare dal quello di restituire ai teatri la loro centralità.
So che dicono che quella con Ronconi sia una convivenza coatta, ma non è affatto vero. In questi decenni il rapporto tra un artista e un teatro secondo me è cambiata. Come spettatore e come operatore ho vissuto l’epoca della Scala di Abbado, quella della Scala di Muti, quella del Piccolo di Strehler. Quel modello corrispondeva a un progetto, a un’idea, ed era basato su un senso di possesso e sull’identificazione del progetto tra l’artista e l’istituzione. Ma quell’epoca è finita, non perché gli artisti siano diventati troppo ingombranti ed egoisti nei confronti delle istituzioni, ma perché la situazione è sostanzialmente cambiata, anche per ragioni molto banali. Una volta i teatri vivevano in condizioni economiche difficili ma producevano di più. Alla Scala tra il ‘79 e il ‘90 si facevano dodici produzioni all’anno; per un artista questo significava la possibilità di svolgere un’attività professionale; insomma, c’era polo attrattivo per il suo prestigio, ma anche un polo produttivo che esauriva la creatività dell’artista. Oggi non è più così: per mille ragioni, la politica ha deciso che i centri di produzione sono meno importanti dei festival.
Negli anni Novanta si poneva con immediatezza il problema della legittimazione dell’investimento nella cultura, che la retorica pubblico-privato non ha affrontato. L’alternativa non è tra legittimità e produttività, c’è un nucleo molto più profondo. Ma in quel momento la legittimazione che nasce da una scelta sociale condivisa è stata rinviata: la politica non si è presa questa responsabilità, si è rifugiata in retoriche privatistiche di cui quali paghiamo pesantemente i disastri sul piano della gestione, prima ancora che sul piano dell’autonomia artistica. Perché i problemi sul piano della gestione si riflettono sul piano dell’autonomia artistica, vedi il caso del Teatro degli Arcimboldi. La politica, che non ha dato una risposta, che sempre ha rinviato, ha una colpa enorme.
Quando la destra invocava: “Mercato, mercato”, ho detto a una ministra del governo di centrosinistra, una persona che mi è simpatica: “Ah, cari amici, se a destra vince il mercato, voi subito, siccome siete più bravi, volete far vincere il supermercato!” Questi estremismi hanno tolto legittimità al teatro anche agli occhi dei privati, anche se per fortuna non sono riusciti a togliergli la legittimazione agli occhi della gente: un vero miracolo, di cui non si capisce bene la ragione. Così si sono buttati sui festival, dove le cose semplicemente accadono, senza che ci sia fatica o una produzione alle spalle. Questo ha cambiato il comportamento degli artisti.
Di fronte a questo stato di cose, negli ultimi anni con Luca Ronconi abbiamo deciso di lavorare solo su progetti che sentiamo profondamente. Dal punto di vista artistico, lui è e resta l’anima del Piccolo Teatro. La controprova è il lavoro che fa con Masterclass e con la scuola, questa è la vera progettualità. Dopo di che oggi un teatro come il Piccolo non riesce a fare più di due o tre produzioni all’anno. Per cui mi sembrerebbe una pura idiozia vincolare un artista per un senso verticistico del possesso. Quando Luca fa spettacoli altrove, valutiamo la proposta: se rientra in un progetto comune, partecipiamo anche noi. Aspetto tranquillamente che qualcuno mi dica: “Ecco la dimostrazione che Ronconi non lavora più con Milano”. Ma questo fa parte della volgarizzazione di questo mondo e dell’esibizione del possesso del simbolo. E va di pari passo con l’idea del festival: “Ho strappato un artista a quegli altri, faccio il festival!” Ma così siamo molto lontani da un progetto artistico, da un rapporto reale con l’artista.
In questo momento Ronconi è profondamente legato al Piccolo, l’ha anche detto in una bella intervista, non l’aveva mai detto pubblicamente: “Sono molto legato al Piccolo Teatro, con Escobar c’è un rapporto fiduciario produttivo - non fiduciario contrattuale - e mi piacerebbe continuare a lavorarci”. Tutto il resto sono fandonie. Questo non significa che noi due, insieme, non stiamo aprendo anche ad altri: basta leggere i nostri cartelloni per vedere per esempio che Toni Servillo è presente al Piccolo in modo non banale. Ma la nostra non è una campagna acquisti come quelle dove Milan e Inter si strappano i calciatori: sono invece affinità che crescono. Così abbiamo dedicato il Teatro Studio all’attività dei giovani, anche se non credo nel pensiero generazionale giovanile.
Hai accennato al rapporto della città con le periferie. Un segno forte di quello che succede a Milano è che negli ultimi anni in periferia sono cambiate molte cose. Sono nate nuove sale e nuove realtà, accanto a un sistema molto consolidato. In tutto questo il ruolo del Piccolo quale può essere?
Grazie a Strehler e Grassi, il Piccolo aveva una presenza e un senso non di appartenenza ma di progettualità fortissimo: poteva essere una cosa negativa che però ha prodotto cose stupende, ha concentrato il lavoro di due personalità straordinarie con risultati straordinari. Era il frutto di un progetto forte, di una leadership che allora le città consentivano: perché esisteva un centro e poi c’era il decentramento. Ora si è capovolto tutto. Quando sono arrivato al Piccolo sono stato accusato di lassismo nei confronti della competizione-aggressione da parte di altre realtà. Ma di fronte a un mondo complesso, che va capito, è necessario ripensare l’idea stessa di un progetto e sono felicissimo di trovarmi di fronte a questa possibilità, in un momento in cui non ci sono certezze ma opportunità. Ho studiato con Geymonat, che mi ha spiegato che il determinismo, nelle scienze come nella vita, porta solo all’ottusità. Così mi sono detto: “Benissimo, in apparenza togliamo la leadership identitaria del Piccolo in campo teatrale e apriamo il teatro ad altre esperienze, creiamo reti molto articolate che vanno dalla scienza alla matematica, dalla poesia alla musica”. Dopo che avevo deciso di imboccare questa strada, un’amica mi ha dato un documento sul “Progetto 2000” di Strehler: c’era scritto esattamente questo, anche lui aveva capito che si era chiusa un’epoca.
Cosa può fare adesso il Piccolo Teatro? Può continuare a ricercare nel solco del suo mestiere. Non penso che debba e possa sostituirsi alla nascita di nuove realtà, che sia spontanea o che venga progettata dalla politica. Non deve mettere uno scudo al pensiero generazional-giovanile, anzi, deve essere leggermente antipatico, perché è un’istituzione e le istituzioni in Italia sono antipatiche. Di fronte al nascere di voci diverse, di fronte all'emergere di nuove complessità, dovrà sopportare l’accusa di non essere à la page con il pensiero generazionale, e tuttavia dovrà come minimo evitare di danneggiarli. Stiamo creando rapporti di collaborazione. Ma attenzione: quando il Piccolo o la Scala mettono in piedi una collaborazione, rischiano di avere zampe che rompono il progetto. Perciò quel pizzico di antipatia deve rimanere, perché comunque abbiamo una funzione diversa. Questa è la mia idea: potrà sembrare antipatica, politicamente poco accorta, ma se ci mettessimo a fare il mestiere degli altri non potremmo sostituire la loro spontaneità e la loro fatica.
Il Piccolo è un’istituzione: c’è chi dice: “Dobbiamo tornare a essere il Piccolo”, e chi invece sostiene che dobbiamo essere un "Piccolo Festival". Sono idiozie. E’ piuttosto necessario stabilire rapporti con attività extrateatrali. Un esempio emblematico: sono stato guardato con sospetto quando ho stabilito dei rapporti con la Casa della Carità. A don Colmegna abbiamo solo detto: “Noi vi diamo una mano, e insieme cerchiamo di capire cosa succede in città”. Perché ci serve per capire il nostro teatro. Non abbiamo certo voluto sostituirci a realtà come il Teatro Officina, che stanno facendo un ottimo lavoro con gli immigrati.
Due nodi irrisolti sono diventati il simbolo di quello di cui abbiamo parlato finora: il Teatro degli Arcimboldi e il Leoncavallo, due realtà che la politica culturale milanese non sa gestire.
Quella del Leoncavallo è una storia che dovrebbe imbarazzare il centro destra. E’ la parabola di un’opposizione dura che entra lentamente nelle istituzioni. Si nasce incendiari e si muore pompieri, quindi è inesorabile che realtà che funzionano diventino istituzioni; anche perché poi molte delle intuizioni che si oppongono a una lettura banale della città, più idonee a leggere il cambiamento della società, hanno trovato lì un’espressione, certo più che nella politica “ufficiale”. Ecco la ragione degli azzardi di una parte del centro destra che flirta con il Leonka, che adesso fa tanto chic. Contemporaneamente nel rapporto con il Leoncavallo e con i centri sociali ci sono diverse ambiguità, perchè si scatenano le viscere più basse: “Guai a chi fuma uno spinello! Guai a chi scrive sui muri”, banalità che il tempo chiarirà. E naturalmente va benissimo un catalogo dei graffiti.
Dove non ci sono ambiguità ma un errore, è negli Arcimboldi. A Milano solo porsi il problema se Abbado e Muti possano coesistere nella stessa città è indice di provincialismo. Ci sono persone che vogliono assistere alla direzione dell’uno o dell’altro, e di tutti e due. In una città normale il problema non si porrebbe nemmeno. Se la direzione della Scala diventa un problema tra destra e sinistra, o all’interno della destra tra l'ala forte e l'ala debole, vuol dire che con la politica siamo davvero messi male.
Il Teatro degli Arcimboldi è un caso eclatante in cui l’interesse privato - nella sua idea di privato legittima e coerente, anche se con una logica un po’ becera dell’interesse privato - non è stato minimamente ricondotto all’interesse pubblico. Questa dichiarazione di impotenza da parte dei responsabili del potere pubblico ha trasformato l’interesse privato in un simbolo assoluto dell’efficienza e nell’ideale della città. E’ una follia, doveva essere l’inverso. Non è il discorso della sinistra che punisce la destra, né un pensiero moralistico contro il profitto. Invece l’interesse collettivo deve analizzare l’interesse privato e inserirlo in un contesto, facendo un favore anche al portatore dell'interesse privato: perché l’interesse privato non si può sviluppare se non all’interno di una società che pensa alla cosa pubblica. Altrimenti è solo una speculazione come qualunque altra.
A Milano nessuno l'ha fatto. Anzi, per anni abbiamo subito il trionfalismo di chi diceva: “L’abbiamo costruito in due mesi! E’ efficiente, si autofinanzierà!”. Con questo tormentone si è zittito chi voleva una sana riflessione politica su interesse pubblico e interesse privato. Adesso l'uovo si è schiuso e si è scoperto che gli Arcimboldi sono una grana. Ma un teatro può davvero essere una grana? Per un teatrante un teatro non è mai una grana. E perché è diventato una grana? A Reggio Emilia, quando i signori che organizzavano il Foro Boario decisero di finanziare il teatro e tradussero un interesse privato in un atto di interesse pubblico, non chiesero mai di entrare nel consiglio di amministrazione del teatro. Invece a Milano la divaricazione tra interesse privato e interesse pubblico non è stata solo accettata, ma è stata addirittura elevata a ideale politico. Allora gli Arcimboldi non sono più un teatro, ma solo un edificio che comporta tutte le grane che comporta un edificio, peraltro bello dal punto di vista architettonico. Ora sembra che non si possa più dire che quel teatro è un’opportunità e che dunque bisogna farlo funzionare; si dice, paradossalmente, come fa il mio amico Corbani dell’Orchestra Verdi, “chiamiamo le ruspe e buttiamolo giù, che costa meno”.
E’ il frutto abnorme di una città che non si è interrogata sulla funzione della cultura. La risposta di Milano al problema Arcimboldi è stata: “Abbiamo un bambino indesiderato.” Ma un teatro in più non danneggia la città. Milano può avere più orchestre e più teatri, se li mette al centro di una strategia, pubblica e privata. Per me il problema non è che danno soldi agli Arcimboldi e allora io mi devo lamentare perché mi levano dei soldi. Questa è ovviamente la preoccupazione immediata, perché chi gestisce un teatro deve far quadrare i bilanci. Ma il problema vero è un altro: la logica privatistica dà risultati disastrosi anche sul piano privato, perché porta a una gestione che disincentiva la creazione di risorse e banalizza l’apporto del privato alla città, perché banalizza il modello di città, perché abbassa il livello del dibattito. E quindi fra un po’ non ci saranno più risorse né per il pubblico né per il privato. Sul versante del privato, chi aveva interessi da esprimere li ha espressi: ma prima o poi a Milano finiranno anche le aree immobiliari su cui speculare, e soprattutto finirà la disponibilità del privato a condividere un modello che si è dimostrato inefficiente. Se oggi il Piccolo fosse un’area interessante dal punto di vista immobiliare, sarebbe al centro di chissà quali strategie...
Quando ci è stato chiesto, ho risposto che il Piccolo avrebbe dato una mano al Teatro degli Arcimboldi, perché i teatri sono le nostre chiese, perché un teatro in più può far solo bene a questa città. Ma prima è necessario smontare il meccanismo e capire perché quel teatro è diventato un bambino indesiderato, anche se fa parte della famiglia - non quella del Piccolo, ma quella della città, sia chiaro. Adesso il mio amico Sgarbi esplora tre ipotesi diverse e fra loro contraddittorie: insomma, prende tempo, perché si trova di fronte a un’equazione con tre incognite e per risolverla deve inventarsi un’altra matematica, visto che con i vecchi criteri la questione non si risolve. L’altro giorno un giornalista mi ha chiesto: “Sai che forse stanno decidendo in giunta di dare sei milioni di euro all’Arcimboldi? Dovresti lamentarti come persona di teatro, perché ti levano i soldi”. Gli ho detto che mi lamenterò se e solo se prima si lamenteranno le persone che hanno responsabilità della cosa pubblica, perché si sta ipotizzando di dare sei milioni di euro a un progetto che non esiste. Gli Arcimboldi, prima di diventare un problema dei teatranti, sono un problema della città, della maggioranza come dell’opposizione. Un problema della politica. Se non si affronta questo nodo, è inutile guardare solo al risultato finale, se i soldi li danno agli Arcimboldi invece di darli a noi. Naturalmente al momento giusto il Piccolo dirà anche questo, ma prima deve presentare un progetto. Se i miei amici del Teatro dell’Elfo devono presentare un progetto per avere dei finanziamenti, perché non deve farlo chi rappresenta la cosa pubblica per gli Arcimboldi? Ma è difficile far passare questo ragionamento, e così il problema della gestione degli Arcimboldi viene ridotto a una bega tra teatranti. E’ una follia! E’ per questo che poi le risorse diminuiscono: perché a Milano l’attività teatrale è ritenuta se va bene un abbellimento, o peggio una rottura di scatole, perché la cultura non rientra nella strategia di sviluppo della città.
In effetti la grande differenza tra Milano e città come Torino o Roma, è che lì l’investimento in cultura è stato centrale, esplicitato e fondante della politica della giunta. A Milano per l’amministrazione la cultura è stata considerata un fastidio, un abbellimento, uno spreco.
Invece l’investimento in cultura è strutturale. La vicenda dell’Arcimboldi va riletta dal punto di vista ideale, ideologico, gestionale, economico. Quando mi invitarono alla posa della prima pietra, dissi a un funzionario del Comune che peraltro stimo: “Speriamo che abbiate già dato un biglietto in mano a qualcuno, perché vada in giro per il mondo a fare accordi”. Intanto però agli Arcimboldi non c’è collegamento della metropolitana. A Milano soprattutto, ma in tutta Italia, c’è un problema ideologico e politico irrisolto. In Francia prima hanno fatto i collegamenti e poi hanno costruito la Villette. Da noi prima si fanno gli insediamenti e poi si pensano i collegamenti. In Italia evidentemente non crediamo che le cose servano a creare relazioni reali, crediamo solo nel valore oggettivo dell’affare: ma facendo così muore anche l’affare! La Fiera, gli Arcimboldi, la Malpensa soffrono della stessa malattia e diventano indifendibili. Malpensa è indifendibile perché si sono fatti gli insediamenti ma non si sono fatti i collegamenti. Il collegamento è un fatto materiale, ma è innanzitutto un fatto politico e ideale. Dunque è necessario restituire una funzione alle relazioni, ma alla politica questo sembra non interessare.
Il Piccolo ha da qualche giorno un nuovo consiglio d’amministrazione. Cosa vorresti che facesse il consiglio di amministrazione di un teatro come il Piccolo?
Sono sicuro che continuerà a fare quello che hanno fatto tutti i Cda precedenti, ovviamente ciascuno con la propria specificità e sensibilità. Sono anche certo che continuerà a sostenere il ruolo che compete al primo teatro pubblico d’Italia. Qualche anno fa si volevano abolire i consigli d’amministrazione dei teatri pubblici. C’è stato un ampio dibattito, io ero contrario perché mi sembrava giusto che i consigli di amministrazione ci fossero, perché rappresentano un legame profondo con la città e con i soci fondatori.
In questi anni un consigliere ci ha garbatamente detto di fare molto e bene ma di non avere una “linea” culturale. Ma oggi sbaglia e rischia di non capire la realtà chi fa prevalere un senso rassicurante di appartenenza rispetto alla curiosità profonda, morale, etica, artistica che deve avere un teatro come il Piccolo. La funzione del Piccolo è quella di essere forte come istituzione e ben gestito. Per il resto, mi piace ricordare Edgar Morin quando dice che la fraternità è dei curiosi, degli irrequieti, dei meticci, dei bastardi. Ecco, il Piccolo vuole essere questo. Questa visione non è coniugabile con il fatto di essere una grande istituzione? La sfida è proprio questa: il Piccolo può restare una grande istituzione senza perdere questa profonda curiosità? Se qualcuno pensa che il Piccolo debba riconciliare o mettere tranquilla la città, pensando che ci sia un senso di appartenenza, da inserire in un grande progetto della città, non ha niente a che veder con quello che mi interessa fare in questo teatro.
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