ateatro 102.8 Milano per la riforma del teatro di prosa Un progetto in 10 punti di Sisto Dalla Palma
1) La crisi delle risorse destinate al teatro e allo spettacolo è relativa. In crisi è solo il FUS, fermo da anni a fronte di una crescita di soggetti e a una forte espansione della spesa.
Ma il FUS rappresenta solo un terzo del flusso complessivo delle risorse. La parte più cospicua è rappresentata dalla spesa degli Enti Locali, attraverso il protagonismo dei Sindaci e degli Assessori alla cultura. Oltre a queste risorse, bisogna calcolare le risorse aggiuntive che vengono dalle sponsorizzazioni: tutto questo costituisce nell’insieme un’entità finanziaria ragguardevole non ancora calcolata. In ogni caso l’erogazione avviene senza controllo da parte degli operatori e si riversa su linee che privilegiano gli eventi, le iniziative effimere, la organizzazione del consenso, il ritorno di immagine, così che in questa dinamica il teatro si trova ai margini del processo decisionale: esso si costituisce come soggetto passivo che mette a disposizione della committenza pubblica e privata la sua creatività, sottomettendola non a una progettualità carica di istanze artistiche ed etico-politiche, ma a una programmazione in cui emergono ispirazioni estranee alle ragioni vere del teatro e alle domande reali della società. Questo spiega la crisi artistica e morale della nostra scena che da tempo rivela segni di stanchezza anche nelle aree che dovrebbero essere aperte all’innovazione.
2) La riforma avviata da Veltroni ha provocato una grave dislocazione dei poteri decisionali in favore del potere politico, mortificando i poteri di rappresentanza delle categorie. Facendo valere alibi moralistici e precludendo al teatro anche il ruolo di consultazione che storicamente gli era stato riconosciuto, si è preferito ricondurre alla politica ogni determinazione aggravando il conflitto di interessi, le incompatibilità previste dalla legge e sostituendo ai rappresentanti delle categorie membri di nomina politica, in un quadro di equivoci pluralismi e di ridotte competenze.
Il sistema delle commissioni e dei comitati ha dunque stravolto un equilibrio che aveva, con molti limiti, svolto una funzione positiva per oltre un cinquantennio e che nella transizione dallo stato autoritario allo stato democratico era stato via via adeguato alle nuove esigenza di libertà.
L’involuzione autoritaria con l’intervento pervasivo della mano pubblica nel processo di organizzazione dello spettacolo è stata aggravata dalla transizione istituzionale che ha portato verso la cosiddetta seconda Repubblica e all’avvento del bipolarismo. In questa mutazione il teatro ha rinunciato a far valere i suoi diritti. Invece di battersi per sottrarre la cultura al condizionamento della politica ha accettato la logica infausta dello spoils system e la pretesa delle diverse maggioranze di piegare alle proprie strategie il sistema dello spettacolo. All’interno di questa logica, il teatro ha piuttosto cercato di lucrare in modo opportunistico sulla contiguità col potere politico. Il risultato è stato la crescita del trasformismo, il prevaricare di alcune lobbies, l’ipertrofia negli apparati pubblici dello spettacolo e la marginalizzazione delle aree non-pubbliche più aperte all’innovazione. Nell’area del teatro pubblico si sono accentuati i fenomeni di rendita di posizione, gli abusi di posizione dominante mai sanzionati dalle autorità di controllo, anche per l’inerzia, il timore, la compiacenza dei soggetti teatrali più interessati a un sistema di cooptazione e alle varie forme di utilità marginale piuttosto che alle esigenze di controllo, di partecipazione e di autogoverno. La riprova è la mancanza di ricambi e l’impoverimento del settore.
Ciò che si è prodotto attraverso i mutamenti del quadro istituzionale e le politiche spregiudicate di spoils system ha reso conclamata la necessità di decostruire il sistema pubblico, recuperando risorse e rinnovate capacità di iniziativa culturale. Il teatro pubblico si è costituito dentro i contesti istituzionali della cosiddetta prima Repubblica, per dare garanzie di stabilità all’esperienza artistica, per evitare i meccanismi perversi del teatro commerciale, per svolgere una politica di riequilibrio tra le diverse istanze culturali presenti nella società e nel mondo dello spettacolo. Nella storia di una generazione si sono salvaguardate alcune condizioni di libertà e dei pluralismo, ma si è anche favorita l’affermazione dell’ideologismo, la strumentalizzazione della cultura, una caduta della capacità di innovazione del sistema e uno sperpero di risorse. In realtà il mito del teatro pubblico si inscrive entro le pratiche di ispirazione francese e tedesca, estranee alla nostra tradizione, e cariche di implicazioni paternalistiche e autoritarie.
3) Nell’arco dell’ultimo decennio, l’avvento di una società più aperta, con i sommovimenti prodotti nella vita economica, ha costretto le imprese a confrontarsi con le logiche severe del mercato e ad aprirsi alla concorrenza internazionale. Sta finendo la concorrenza tra area pubblica ed area privata, e si è avviata, anche sotto la spinta di nuovi interessi aggregati a livello nazionale e internazionale, una smobilitazione degli apparati pubblici, e il riposizionamento delle industria di Stato e dei servizi dentro il mercato. Abbiamo cosi assistito a un trasferimento di risorse e di poteri: tutto il sistema dell’IRI e dell’industria di Stato è stato spietatamente decostruito, dalle banche alle ferrovie, alle poste, alla siderurgia, all’industria pesante, al sistema delle comunicazioni. Perfino l’acqua e l’energia hanno subito un trasferimento in ambito privatistico, così come è avviato un processo di liberalizzazione nelle professioni e nella istruzione. Questo è il senso della svolta che si è prodotta a livello internazionale.
4) All’interno di questa trasformazione imponente e inarrestabile un solo segmento del sistema è rimasto pressoché interamente sotto il controllo dello Stato e degli Enti locali: il teatro pubblico. Una realtà anomala che nemmeno obbedisce a un severo statuto pubblicistico, ma piuttosto opera attraverso scambi, ibridazioni, alleanze spregiudicate col teatro privato e con una imbarazzante politica di marketing. Il teatro pubblico, immobile e vulnerabile come il Colosso di Rodi, resiste a tutti gli assalti, fedele a un primato garantito dalle sue origini ma non più dai suoi risultati. Ma la decostruzione del teatro pubblico, che deve essere sospinto sul terreno del confronto aperto con tutte le altre componenti del sistema teatrale, non si impone solo per ragioni di concorrenza, di abbattimento di privilegi, di recupero di risorse. Questa decostruzione deve essere rigorosamente perseguita perché il teatro pubblico è frutto di una politica culturale che non ha più senso, di cui rappresenta una forma residuale. Questo spiega la crescita delle lobbies, delle clientele, delle intese tra soggetti che condizionano lo sviluppo di tutto il teatro italiano. Nella molteplicità dei soggetti che operano nella cultura a esso è riconosciuta indebitamente una rappresentanza privilegiata degli interessi collettivi. Questo privilegio, che in Inghilterra si riconosce solo a un organismo teatrale, espressione della tradizione nazionale shakesperiana, obbedisce a logiche che non hanno più senso, perché le culture teatrali e le istanze creative si sono così diversificate che non può essere riconosciuta la “reductio ad unum” di queste diversità, legittimando nei fatti la distanza abissale tra le fasce alte e le fasce basse di un sistema teatrale costruito a canne d’organo.
5) L’involuzione del teatro italiano, lo squilibrio che si produce al suo interno tra i diversi segmenti interessati dal finanziamento pubblico, la perdita di competitività, l’ipertrofia normativa che pretende di regolare i processi con indicazioni e parametri sempre più mortificanti per la libera espressione della creatività artistica, impongono di por mano anche nel sistema del teatro a un progetto riformatore che rimetta in moto le energie più vive e le chiami a un confronto reale tra di loro e col resto dell’Europa.
Un progetto riformatore può e deve ripartire da Milano, città che ha nel tempo dato coerenza ai processi di trasformazione delle arti e dello spettacolo, guidando nelle fasi più importanti la crescita del sistema, portando alla ribalta internazionale altri e oramai più rilevanti momenti della creatività nel campo della moda, del design e della comunicazione.
6) Il progetto riformatore deve far leva su alcuni momenti essenziali:
a) il recupero della partecipazione reale delle categorie al processo di acquisizione e redistribuzione delle risorse;
b) la smobilitazione del sistema pubblico e la sua trasparente dislocazione entro l’area privata, ponendolo in condizioni di pari dignità con soggetti concorrenti, evitando la concorrenza ai soggetti più deboli, con politiche confuse di marketing che surrogano in modo equivoco la crisi di una mission che metteva una poetica e una cultura artistica, parziale ma coerente, al servizio di una comunità;
c) l’istituzione di un sistema di garanzie atto a proteggere il sistema dello spettacolo e della cultura in genere dalle pretese della politica e di soggettività private animate da logiche di lucro e di immagine.
Questo sistema di garanzie deve collocare il teatro fuori dalla logica bipolare e dello dello spoils system, salvaguardando in ogni caso la condizione di terzietà rispetto ai due poli dello schieramento politico.
7) L’ipotesi attorno a cui occorre lavorare per avviare un progetto riformatore deve prevedere l’uscita di tutte le rappresentanze pubbliche dagli organismi che operano nel campo dello spettacolo, così che resti attribuito alle Amministrazioni Pubbliche un compito nella organizzazione dei servizi, escludendo ogni intervento attivo nella realtà del teatro e riportando in prima istanza il ruolo dello Stato e degli Enti locali nel definire strategie e finalità complessive. Occorre prevedere che le Amministrazioni Pubbliche interessate a promuoverne la crescita dello spettacolo nelle realtà di loro competenza conferiscano le loro risorse, di natura economica e strumentale, a un soggetto terzo che provveda a immetterle nel circuito culturale secondo un modello normativo e operativo stabilito dagli Enti Pubblici interessati.
Questo soggetto terzo deve essere costituito sulla base del principio dell’interposta persona tra potere politico e potere culturale, così come definito da Keynes nel 1945 con l’istituzione dell’Arts Council. Ciò comporta il passaggio dall’ispirazione centralista e paternalista francese a quella che vige nel mondo anglosassone. Questo soggetto terzo dovrebbe prevedere rappresentanze della società civile, della cultura, della scuola, dell’Università, della Fondazione Cariplo e, magari in modo paritetico, delle categorie teatrali.
8) Nel quadro del conferimento delle risorse economiche, questa Fondazione dovrebbe valersi anche degli apporti che potrebbe e dovrebbe garantire il Ministero di Beni Culturali attraverso il completamento di un disegno federalistico.
In questo disegno dovrebbe avere un ruolo definito e strategicamente orientante la Regione Lombardia e l’area metropolitana milanese.
9) Il ruolo ordinamentale dello Stato e degli Enti Pubblici territoriali dovrebbe integrarsi dialetticamente con quello di una Fondazione intesa come edizione italiana dell’Arts Council.
Essa dovrebbe procedere con un sistema di servizi e di competenze monitorando il territorio, erogando contributi, definendo convenzioni specifiche coi diversi soggetti sulla base di progetti e tenendo conto della redditività artistica e sociale degli stessi. Nel quadro di convenzioni e intese bilaterali sarebbero così soddisfatte le esigenze di un Teatro Pubblico trasferito interamente nella sfera privatistica.
In questo contesto le categorie, oltre ad avere loro specifiche rappresentanze, dovrebbero garantire ai soggetti rappresentati la opportunità di essere ascoltati nella fase istruttoria, consentendo il confronto tra le parti per il perseguimento di finalità diffuse e collettive.
10) Il progetto riformatore dovrebbe essere messo a regime dopo una adeguata fase di sperimentazione e verifica. In questa fase Milano deve proporsi con una sua precisa indicazione strategica e una serie di proposte che facciano tesoro della esperienza delle convenzioni. Se all’area metropolitana milanese può e deve essere riconosciuta una particolare autonomia, allora essa deve tradursi sullo sforzo di correggere l’eredità di una normativa insostenibile, che pesa con indicazioni analitiche mortificanti su ogni slancio creativo, mettere in discussione stratificazioni cristallizzate nel tempo e che pregiudicano l’evoluzione degli stessi modelli artistici, le forme dei linguaggi teatrali, le strutture relazionali che contraddistinguono gli attuali assetti del teatro: alludiamo alle normative sulle agibilità, sui vigili del fuoco, sull’uso degli spazi e così via. Solo così possono liberarsi iniziative insospettate di creatività che oggi a Milano si orientano in altre direzioni. Al teatro sono necessarie risorse diversificamene allocate, spazi dismessi e poveri, nell’ambito di un imponente patrimonio di archeologia industriale, un sistema di servizi più articolato che si adegui ai mutamenti in atto.
Ma al teatro sono necessarie prima di tutto nuove condizioni di libertà.
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