ateatro 100.22 L'intelligenza del corpo: la Biennale Danza 2006 Giappone, Cina e altri corpi di Fernando Marchiori
La Biennale Danza di Ismael Ivo, riconfermato alla direzione del festival veneziano anche per il prossimo anno, continua a indagare le possibilità di espressione del corpo come meccanismo di conoscenze e competenze, come intelligenza “differente”. Le contraddizioni nelle quali si dibatte, letteralmente, il corpo umano oggi, vengono esplorate attraverso la sonda ipersensibile del corpo-mente danzante. Dopo il corpo attaccato e all’attacco (Body attack era il titolo dell’anno scorso), un corpo che guarda e ascolta il proprio interno, che danza l’interiorità e le interiora, le viscere e la spiritualità, la malattia e la vecchiaia, le secrezioni, il sesso e il gender. E per farlo va sotto la pelle (UnderSkin) nei modi più diversi.
In D.D.D, per esempio, il giapponese Takao Kawaguchi, del collettivo Kyoto Dumb Type, tende muscoli e tendini in torsioni inquietanti sopra un tavolino quadrato, seguendo il battito cardiaco amplificato del musicista Fuyuki Yamakawa, che ritma la performance ai bordi di uno spazio scenico pensato come un ring. Capelli lunghissimi e tratti androgini, Yamakawa annuncia i rounds, gratta la chitarra elettrica distorta, spiega agli spettatori con l’ausilio di una lavagna luminosa il funzionamento del cuore umano, canta alla maniera mongola con suggestivi vocalizzi diplofonici khoomei, calcola il numero di battiti cardiaci che la sua speranza di vita gli potrebbe concedere.
In Chi è devoto della compagnia Almatanz, coreografia e regia di Adriana Borriello, i corpi dei danzatori ritrovano invece, in una memoria gestuale continuamente interrotta e scomposta, i gruppi scultorei delle Pietà popolari del Sud o l’isteria delle Madonne pagane. Determinante il rapporto con la musica di Francesco De Melis, che dopo l’iniziale Bella ciao delle mondine cantata da Giovanna Marini passa a mescolanze di voci di strada, chitarre barocche, arie orientali, orapronobis e tarantelle. Una commistione non sempre felice caratterizzante anche i movimenti dei danzatori, che accennano a invocazioni, esorcismi, lamentazioni rituali, strisciano verso una madonna in trono, destrutturano genuflessioni, contrizioni e gesticolazioni “devote”, con qualche bel passaggio corale per quanto la dichiarata “trasfigurazione della matrice antica” risulti spesso solo esteriore.
Quick Silver del grande Ko Murobushi, uno dei più famosi artisti di butoh, va dentro il corpo come in un paese straniero, lo esplora nei suoi equilibri, nei rapporti con lo spazio esterno in continua mutazione, nel dialogo e nello scontro con la forza di gravità. Il corpo nudo (eccetto il perizoma) di questo danzatore delle tenebre è completamente dipinto d’argento. E, come sempre nel butoh, sembra cercare il punto in cui l’inizio della vita e la sua fine convergono, “qualcosa a cui reggersi mentre si collassa, qualcosa per andare al collasso mentre si è in piedi”. Sembra che prima di tutto si tratti di vivere un “essere semplicemente posati là”, e poi si cerchi di non rifiutare il sorgere del movimento, il disporsi delle membra, l’energia tutta interiore dell’argento vivo. Nel silenzio assoluto, quest’essere vivente impiega venti minuti per tirarsi su da terra rivelando a uno a uno i muscoli e le ossa, disassemblando il corpo, schiacciandolo. Dilata gli arti in modo impressionante, si trascina a terra inventando i modi meno “naturali” di avanzare. Per esempio facendo leva solo sugli avambracci o compiendo inarcamenti e semirotazioni con il bacino fisso. Il pubblico – sala gremita, moltissimi giovani – è magnetizzato. Segue una danza intestina che si rivela come un segreto. Danzano le ossa sotto la pelle, danzano le articolazioni, gli spasmi, le rughe, danzano le scapole in cima a una schiena disumana, lo sterno luccicante di sudore argentato, le rotule nella conquista della stazione eretta. A turno, Ko Murobushi disattiva una parte del corpo, ne anima un’altra ma in direzione innaturale. Forza il baricentro, cede, riprova. Il corpo si avviluppa in se stesso, si sviluppa, in un abbandono che è governo assoluto del sistema muscolare e nervoso. Il maestro giapponese sembra davvero ospite del proprio corpo. Impressionante il lavoro sulla maschera facciale. Da brividi il fiato “urlato”. Sembra di percepire lo sfregamento delle mucose, il cigolio delle viscere. Fino al capolavoro della verticale che si affloscia lentissimamente, ma che fa pensare alla proiezione accelerata di un’immagine pescata dal rimosso collettivo: il ciclo vitale di un fiore carnoso nel deserto postatomico.
Danza non-danza
Eppure, nonostante la tensione verso una danza come “rinuncia alla danza”, ecco che quest’ultima torna prepotentemente a prendere forma quando vi sono urgenze da esprimere. È il caso dell’Istanbul Dance Theatre di Geyvan McMillen, che a Venezia ha portato Kimlikler e Mahrem, due tempi di un’unica coraggiosa denuncia politica. La prima parte è una interrogazione sull’identità (in turco Kimlikler, appunto): impronte digitali proiettate sul fondale, ingigantite e moltiplicate, e nove danzatori che finiscono col mettersi in fila di profilo, di fronte, come disponendosi a foto segnaletiche, a un confronto all’americana davanti a quei testimoni oculari che sono gli spettatori. Un duello a suon di percussioni apre la seconda parte. Due danzatori nel cono di luce si confrontano, si misurano in virtuosismi, elevazioni, cadute, forse a tracciare il paradigma maschile che vedremo applicato subito dopo sulle ragazze. Le danzatrici portano i pantaloni, ma sono spinte a terra, calpestate, scosse in una danza che esplicita la violenza, l’umiliazione, la sfruttamento della donna. Sono fatte rotolare tra i piedi dei maschi, dimenate tra le loro gambe, trascinate, schiacciate. Ogni accenno di ribellione – volteggi autonomi, scarti, allontanamenti – viene subito represso, schernito. A queste donne per sopravvivere non resta che recitare l’antico ruolo di schiave e concubine: la lavanda dei piedi, la danza del ventre, l’offerta sessuale. Se nasce come denuncia della condizione di sottomissione intellettuale della donna nel mondo islamico, “oscurata e mortificata da un fondamentalismo di ritorno”, lo spettacolo fa riflettere anche in un contesto come quello occidentale di apparente parità di diritti. I puntini proiettati sul fondale diventano lentamente ma inesorabilmente uomini, si avvicinano camminando, squarciano il telo e prendono forma viva nei danzatori che chiuderanno in un lungo velo nero l’altra metà del cielo. Sono uomini che vengono da lontano, che ritornano sempre, come tutti i pregiudizi e le discriminazioni che questi artisti ci invitano a combattere.
Splendori e miserie della world dance
Con il gruppo Accrorap, diretto da Kader Attou, siamo di fronte a una pratica tra le più acclamate di world dance, con molti dei vizi e delle virtù da tempo evidenti anche nelle operazioni di world music, ovvero la freschezza di un’espressione che nasce dal confronto e dal meticciato artistico e insieme l’appiattimento, la perdita d’identità, il procedere per accumulazioni che portano, per eguali e contrarie ragioni, agli opposti del minimalismo estetizzante o del barocchismo.
Les corps étrangers è un lavoro complesso, stratificato, frutto di residenze incrociate in Brasile, Francia, India. Uno spettacolo tecnicamente sbalorditivo, senza sbavature, con una coerografia incalzante, salutato da lunghi applausi alla fine. Eppure la forza gestuale, l’atletismo, il virtuosismo di una delle maggiori formazioni hip hop in circolazione, solo in alcuni casi si amalgamano o si integrano pienamente nell’incontro con la gestualità misurata della tradizione orientale o con quella più scomposta e veemente di una danzatrice brasiliana. Più spesso Bharatanatyam e Capoeira diventano pretesto e decor delle evoluzioni mozzafiato tra rap e breakdance. Ottimo dal punto di vista performativo per l’energia di questi figli delle banlieues, lo spettacolo è discutibile per l’afflato ecumenico e new age che lo ispira. Non una meditata operazione cross-cultural, ma un esempio deteriore di globalizzazione culturale. Un melting pot di consumo, ben sintetizzato nel fondale a pannelli mobili che riproduce come in un polittico il Giudizio universale di Van der Weyden (1451) appesantito da immagini di viaggio, miti d’oggi, divinità orientali e pretestuosi richiami politici (il muro in Cisgiordania).
Dalla Cina con precisione
Ben diverso l’equilibrio fra tradizione e innovazione raggiunto in Oath (Midnight Rain) della cinese Beijing Modern Dance Company.
La coreografa e ballerina Gao Yanjinzi – già apprezzata l’anno scorso a Venezia per un intenso duo con la madre, un confronto generazionale che rappresentava anche la convulsa transizione alla modernità di un intero Paese – torna a interrogarsi sulle trasformazioni culturali in Cina e costruisce il nuovo spettacolo su alcune permanenze filosofiche all’incrocio tra Taoismo, Confucianesimo e Buddismo. Su una rivisitazione di musiche dell’opera tradizionale di Pechino, i danzatori incarnano il continuo alternarsi dei principi opposti e complementari dello Yin e dello Yang: femminile e maschile dialogano e si manifestano anche nella stesso personaggio, come i colori fondamentali dello spettacolo, bianco e nero, perché secondo i principi del Tai Chi “il bianco e il nero non sono assoluti; il nero, portato all’estremo, è bianco; il bianco, portato all’estremo, è nero; nel nero c’è il bianco; nel bianco c’è il nero”. Su questa danza di opposti si sviluppano le cinque figure che si alternano in scena. Cinque storie legate a un nastro rosso che un personaggio velato dello stesso vermiglio tira una alla volta e poi tutte insieme alla fine. Un ballerino avvolto da un velo di tulle blu, che danza con i piedi in aria, lentissimo, e poi avanza nelle strisce di fumo in metamorfosi animali. Una giovane dagli slanci aerei che si muove a mezzo tra la Duncan e il butoh finché il nastro che ruota in aria non le si attorciglia alle gambe impedendole di danzare oltre. Una bambola in costumi tradizionali, un po’ crisalide e un po’ farfalla, i cui passi si perdono a mano a mano che luci e musica diventano inquietanti. Una figura marziale con vessilli sulle spalle e strisce di stoffa che la tengono al centro del palco come una Supermarionetta. Quando si stacca dal mento la lunga barba rossa, sembra vacillare, uscire dalle convenzioni, ma infine cade, si spezza, strappa nastri e bandiere. Infine una splendida danzatrice-insetto che, su un enorme trapezio a un metro da terra, compie evoluzioni dondolando verso la platea, mutando inclinazioni e prospettive, volteggiando in un sogno.
Aldilà dei significati simbolici suggeriti – gli elementi in natura (metallo, acqua, legno, fuoco e terra), le loro rappresentazioni simboliche tradizionali (il fiore, l’uccello, il pesce, gli insetti, l’erba) – non si può che rimanere colpiti dalla consapevolezza corporea di Gao Yanjinzi e dei suoi compagni e dalla loro capacità di “riuso” di elementi della tradizione (nei passi come nella musica, nei costumi, nel trucco, nelle luci) per inventare liberamente storie nuove proprio nel riconoscimento di una radice lontana ma non recisa. È forse l’esempio di un’altra via alla globalizzazione, non subita come omologazione e appiattimento culturale, ma proposta come dialogo tra differenze? Le ovazioni del pubblico rispondevano anche a questo messaggio?
Metronomi e saudade
Esito non previsto di un progetto seminariale con gli anziani della Sadler’s Wells Company of Elders, diretto dalla portoghese Clara Andermatt, Natural porta in scena il corpo senile, i suoi tempi e movimenti differenti, la sua pura presenza, il suo esserci ancora, vivo controsenso al pregiudizio del corpo danzante sempre giovane per forza. Quasi nessuno di questi anziani – dieci donne e cinque uomini, vestiti di scuro e con i capelli argentati – aveva precedenti esperienze di danza. La grazia e la leggerezza con le quali sfiorano i loro limiti, aggirano le loro rigidità, sono il risultato di vite vissute più che di esercizio artistico. Il breve spettacolo prende la forma della confidenza tra vecchi amici attorno a una tavola. Si aprono piccoli quadri danzati, una diagonale di inviti al ballo, una carezza sul viso, un fado alla cui saudade ben s’intonano volteggi e passi incerti, delicati. Finché ciascuno carica un metronomo, lo lascia sul palco e se ne va, scendendo in platea. Nel silenzio, i metronomi smettono uno a uno di ticchettare, finisce il tempo, si spengono le luci. E con un’emozione intensa quanto inattesa termina uno spettacolo fatto di niente, dove non era importante – adesso è chiarissimo – ciò che quelle persone facevano, quanto il fatto che fossero lì. A mostrare il loro passare. A rivelare anche a noi la nostra stessa presenza, la nostra provvisorietà.
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