ateatro 100.16 Le recensioni di ateatro: Fragile del Teatro de Los Andes Regia di César Brie di Fernando Marchiori
Per tre mesi in tournée in Italia dopo alcuni festival internazionali, Fragile del Teatro de los Andes, regia e drammaturgia di César Brie, si ispira al primo capitolo di Nascita e morte di una massaia di Paola Masino. Un libro con una storia curiosa – censurato dal fascismo, riscritto poco prima della guerra, pubblicato negli anni Cinquanta e finalmente scoperto solo con la riedizione negli anni Ottanta – dal quale César Brie e Maria Teresa Dal Pero hanno tratto l’idea iniziale, quella di una ragazzina che non vuole diventare grande e si rifugia in un baule. Unico elemento scenografico materialmente al centro dello spazio vuoto – il resto sono oggetti d’uso, nastro adesivo e architettura di luci – il baule diventa il mondo di Lucia (la Dal Pero), la sua evasione e la sua prigione, antro buio dove urla la sua protesta e subisce il castigo, luogo della rivolta adolescenziale e del rifiuto parentale, scatola di bambola ipertrofica e cassa armonica per i suoi duetti con il nonno (Lucas Achirico). Una figura solo apparentemente secondaria, quest’ultima, che si carica invece il peso secolare dell’ingiustizia quando porta sulle sue spalle il baule legato con le cinghie al modo dei facchini paceñi, quegli aparapítas che attraversano indefessi e straccioni le strade della capitale e le pagine dei racconti di Jaime Sáenz. È lui – il suo fantasma – che apre il lungo funerale dell’infanzia, cui Lucia infine rinuncia “per vigliaccheria”.
Spettacolo raffinato, intimo fino alla commozione, divertente fino al grottesco, Fragile insinua una sottile inquietudine nello spettatore a mano a mano che questi scopre una parte di sé reagente in modo autonomo a ciò che accade in scena. Se di fronte a Lucia un adolescente può immedesimarsi, un adulto può prendere paura: di se stesso. Fin dalla prima scena, quando la protagonista, come uscendo da un quadro di Velásquez, perimetra la scena vestita di un lucido abito di carta bianca e trascina con una corda il vassoio sul quale un grande cuore di gelatina rossa palpita ad ogni strattone e sobbalzo della bambolona. A metà tra fumetto e melodramma, Lucia lo apostrofa sulle note di Monteverdi: “Sei pesante, questo vuoto che mi porto dentro è pesante”. Poi lo scuote, lo spezza, lo addenta, si strappa di dosso il vestito, lo straccia nel parossismo di una crisi che la porterà a ficcarsi nel baule come un pupazzo nel suo teatrino (c’è anche uno spioncino che si apre nella porta chiusa, a rinforzare la suggestione del teatro nel teatro).
Mentre i genitori (Alice Guimaraes e Daniel Aguirre) credono il cibo risolva tutto – matasse di tagliatelle crude vengono frantumate nei pugni chiusi e disseminate a terra – Lucia sente che crescere significa tradire la propria essenza, mutare natura, e dalla sua postazione resistenziale guarda le cose in un altro modo – quello dell’animismo incompreso e della rivolta senza speranza – compie i suoi viaggi fantastici, rievoca i giorni di scuola, mette in discussione la religione, proietta sul paesaggio il suo stato d’animo in un cosmocentrismo infelice. Così alle prime mestruazioni associerà il tramonto “e siccome le faceva male tutto il corpo, pensava che anche al cielo succedesse la stessa cosa”.
Grande prova d’attrice, la parte della Dal Pero si arricchisce nel contrasto tra l’età del personaggio e quella dell’interprete, sorprende ogni volta che la prima affiora sulla seconda, o la seconda copre la prima, o coincidono, dialogano, divergono. Ogni volta interrogandoci: quanto ci siamo dimenticati di noi?
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