ateatro 100.10
L’interculturalità del teatro
Una introduzione
di Clara Gebbia
 

I - Fondamenti teorici dell’intercultura, pedagogia e didattica interculturale

Siamo già dentro la Società planetaria. Un inedito storico, che viene – e verrà sempre di più – a “scalzare” modelli, credenze, abitudini mentali, fedi e “appartenenze” tradizionali. Ciò coinvolgerà tutti in un grande “miscuglio” il quale produrrà, a sua volta, altri modelli, credenze, finora forse del tutto sconosciuti e, fino a ieri, anche impensabili.
Ma in quanto ci affacciamo, ormai, su quel “miscuglio”, in esso e/o da esso possiamo introdurre o ricavare nuovi orizzonti, del pensare, del credere, dell’essere-nel-tempo storico.
Prima di tutto il compito del Dialogo. Poi il principio della Krasis. Infine la regola dell’Apertura. Tre vettori che dobbiamo riconoscere, pensare, incorporare, valorizzare, far propri.
Con difficoltà, anche; ma di necessità, ormai.
L’intercultura come prassi pedagogica è il “varco” per realizzare questa nuova identità – cognitiva, culturale, personale – incardinata, appunto, sul meticciato.
Franco Cambi, “Intercultura: fondamenti pedagogici”


L’intercultura, intesa come prospettiva di incontro-dialogo tra diverse culture, è ormai necessaria.
La sua necessità è data in primo luogo data configurazione multiculturale che sta assumendo il mondo, che pur attraversato da fondamentalismi, irrigidimenti e chiusure, diventa sempre più miscela di culture, melting-pot dove ogni cosa confluisce e si amalgama, un grande crogiuolo dove razze, culture, tradizioni, idee, religioni, usanze e costumi, cibi e lingue si uniscono inscindibilmente e (auspicabilmente) convivono. In questo nuovo assetto la società si configura variegata come il manto di Arlecchino [M. Serres, Il mantello di Arlecchino. “Il terzo-istruito”: l’educazione dell’età futura, Venezia, Marsilio, 1992], un patch-work reso possibile dagli spostamenti e dall’incontro inedito di persone, cose e informazioni che le migrazioni da un lato, e le nuove tecnologie dall’altro, hanno attuato. Tutto ciò rende reale e urgente il problema di come affrontare la multiculturalità, anche perché essa assume un duplice significato: di minaccia o di opportunità. Di minaccia in quanto ancora ai giorni nostri lo straniero è “barbaròs”, colui che balbetta la lingua dell’in-group, incapace quindi di comprendere e di farsi comprendere, demonizzato, reso capro espiatorio di frustrazioni e violenza repressa.
Tutto ciò ha un” illustre” precedente nel mondo moderno: precisamente nel 1492, data presunta proprio della nascita della Modernità, quando l’incontro della cultura occidentale con una cultura altra, si trasformò, da grandiosa opportunità che era, in uno sterminio per mano della cultura europea etnocentrica, razzista, imperialistica, coloniale, e dominante (non perché più giusta o più vera, ma perché più forte), attraversata dall’idea dell’affermazione dei propri valori attraverso la cancellazione di tutto ciò che fosse diverso.
L’intercultura, invece, si fonda su altri caratteri, opposti a quelli precedentemente enunciati: la differenza come valore, lo sguardo antropologico, il dialogo e l’incontro.
E’una scommessa e una sfida, colta in primo luogo dalla pedagogia che della nuova forma mentis che dall’intercultura deriva deve occuparsi e deve diffondere, a livello sia teorico che pratico.
La differenza, dicevamo, è ciò che contrasta l’identità e l’appartenenza. Considerata fino ad oggi un disvalore e una minaccia all’identità, la differenza in tutte le sue declinazioni, sia essa religiosa, sessuale, etnica, si assume il ruolo di “squadernare” l’universo dei possibili modi di essere dell’umano, di mettere in gioco nuovi modelli, e di rendere quindi possibile il confronto con l’altro, con il diverso. Il suo difficile compito è di contrapporsi all’identità, principio fondante dell’Occidente posto a fondamento logico e metafisico in primo luogo da Aristotele e da tutta la storia della filosofia greca. L’intercultura si propone invece di affermare il pluralismo come ricchezza e valore, sconfiggendo la logica dell’appartenenza, laddove significhi l’identificarsi con una terra e una storia che cristallizzino l’io.
L’idea della sopraffazione, dell’io che si afferma, si riscontra diffuso ai giorni nostri, poiché veicolata dalla televisione in primo luogo: l’affermazione del sé più bruto, non quello delle qualità intellettuali, etiche, relazionali, ma quello della ricchezza sbandierata, del corpo esibito e mercificato, della legge del più forte e del più violento, della parola che vince sull’altra perché urlata, reiterata, dell’immagine onnipresente, capace di sopraffare. E’ in questo caso che si è parlato di “io minimo”, perché solo, chiuso nel suo narcisismo, incapace di comunicare.
Ciò che il reale incontro con l’altro esige, e uno degli aspetti su cui l’intercultura si fonda, è invece la possibilità di un io che si fa tu, che ha la capacita di relativizzarsi, di mettersi in discussione, di porsi come punto di vista tra gli altri, di tacere per ascoltare. E per far ciò l’Io (che, per dirla con Franco Cambi “ha faccia di tu” [F. Cambi, Intercultura, pedagogia, teatro, Roma, Carocci Editore, 2001] deve farsi carico, certo con rischio, della propria identità multipla, non divisa ma plurale, in grado di differenziarsi in io paralleli e di incontrare realmente l’altro: un’io che pone se stesso come problema e non come fondamento alla maniera di Cartesio.
Così facendo, la chiusura dell’“io minimo” unicamente rivolto a sé, può abbandonare lo specchio in cui si rimira e guardare al mondo come una continua avventura di ricostruzione di un sé mobile, che si costruisce in itinere nel dialogo e nell’incontro.
Ciò di cui l’intercultura inoltre si sostanzia, dicevamo, è lo sguardo antropologico dotato della capacità di relativizzare i saperi e le culture. Lo “sguardo da lontano” di Lévi-Strauss (osservare una cultura altra relativizzando la propria), e la figura stessa dell’antropologo che è attento a ciò che è diverso, che partecipa per comprendere e per attuare questa partecipazione si decostruisce, riconoscono nella differenza un principio e un valore. La critica all’etnocentrismo già dal ‘700 aveva dato i suoi frutti ma era rimasta una prospettiva elitaria, da studiosi. Adesso, invece, il sorgere di una nuova forma mentis che faccia dell’incontro e del dialogo con l’altro il suo fondamento e il valore per eccellenza va assimilato, e complice la pedagogia, deve permeare di sé la cultura collettiva.
A proposito del dialogo (o dell’ascolto, che vi è sotteso), Franco Cambi lo pone come una delle 4 categorie dell’ intercultura: quella senza la quale ogni condivisione sarebbe impossibile. Il dialogo è esso stesso un valore, fine e mezzo dell’intercultura, grazie a cui è possibile proiettarsi sulla differenza dell’altro e accogliere la realtà plurale e la varie manifestazioni dell’esistente interiorizzandole, accogliendole come possibili visioni del mondo.
La prospettiva privilegiata che emerge è chiaramente quella etica: lungi dall’essere pura accoglienza tout-court il dialogo trova ancora una volta nel suo farsi e nella reale presenza dell’altro il suo significato. Naturalmente, la categoria-dialogo presuppone la categoria-decostruzione, intesa come una messa in discussione dell’identità in quanto “punto di vista che non esclude altri punti di vista” che non si pone come egemone e assoluta o portatrice di verità.
Altra categoria fondamentale è la tolleranza, da molti definita “cripto-egemonica”poiché presuppone uno sguardo dall’alto, quello di chi tollera a discapito di colui che è tollerato. In realtà, il ruolo di chi tollera e di chi è tollerato è compresente nello stesso individuo, per cui di fatto non c’è uno che “assolutamente tollera” e uno che è “assolutamente tollerato”.
E’ nella compresenza di questi ruoli che ci si “incontra” in una prospettiva “etica”.
La costruzione in comune, categoria legata alla concreta situazione comunitaria a cui è demandata la costruzione di valori etici condivisi e dialettici, rimanda decisamente alla prospettiva pedagogica. Se intesa non solo come “fare insieme”, ma anche come “pensare insieme” racchiude il compito della riflessione su se stessa e della trasmissione della cultura che la comunità deve condividere, pedagogisti e scuola in prima linea, in quanto luogo della trasmissione di saperi per eccellenza.
Dunque l’intercultura si pone quindi come una vera e propria “rivoluzione” antropologica, un mutamento di paradigma rispetto al passato, che rompe con ciò che era considerato fondante, proponendo una nuova visione pluralistica della realtà.
La pedagogia, in quanto scienza della formazione, è la prima tra le scienze umane che stanno lavorando a questo compito, quello di forgiare questa nuova forma mentis. Alla luce di quanto detto, la pedagogia deve nutrirsi di quei fondamenti teorici e filosofici di cui sopra (dell’antropologia culturale, della differenza, dell’incontro e dell’ascolto) e non esser pura pratica o generico accoglimento e fondare la propria riflessione su un'appartenenza capace di rileggersi, di operare revisioni, di ripensare l’identità. La forza delle nuove identità forgiate e forgiatisi in itinere, è proprio la consapevolezza di sapere la diversità, e la sua forza nel poter incontrare realmente il nuovo poiché capace di pensarlo continuamente. Il nuovo paradigma pedagogico non è un semplice impegno educativo, ma un pensiero capace di teorizzare i fini e i mezzi dell’intercultura per dar vita ad una cultura fondata sul meticciato, ibrida, che pure mantenendo gli statuti di base della cultura originaria, la riconnetta ai principi nuovi prodotti dalla globalizzazione.
La scuola è naturalmente per sua stessa costituzione luogo di incontro tra diversi, dove ci si “allena” al dialogo e al pluralismo e alla molteplicità dei punti di vista. E’ uno spazio di confronto dove attuare ancora una volta l’incontro, il dialogo e la costruzione in comune ponendosi reciprocamente in ascolto a prescindere che si appartenga o no alla stessa etnia. Le differenza tra alunno e alunna, tra status sociale degli alunni, tra alunni e docenti, le differenze generazionali (il rapporto con i genitori) fanno si che la scuola sia il terreno dove si possa ”insegnare la democrazia praticandola” [F. Pinto Minerva, Intercultura, Laterza, Roma-Bari 2002]. Più che di accoglienza deve parlarsi di incontro e scambio, in cui la reciprocità ha un valore fondamentale. La scuola è un laboratorio permanente sulla differenza in cui operare il passaggio dal pensiero monolitico (quello che si nutre dell’appartenenza) al pensiero nomade e migrante (quello che vive l’appartenenza come problema, nel suo farsi); il luogo dove la forma mentis dell’intercultura può diventare habitus, cultura condivisa e realizzare l’obiettivo di divenire fucina ed esercizio di democrazia, in cui ampio spazio è dato al dialogo, allo scambio, all’interiorizzazione di idee comuni.
Naturalmente il progetto formativo va ripensato in tal senso: a partire dal contesto scolastico, dai luoghi. Lo spazio stesso deve dichiarare l’apertura, utilizzando lingue diverse nella comunicazione, negli avvisi, non solo per l’utilità che questo comporta, ma per dar visibilità agli alunni immigrati, comunicando le potenzialità creative che l’arrivo di un bambino straniero offre e per comunicare la convinzione che l’eterogenetà è fonte di ricchezza.
Tutte le discipline scolastiche sono chiamate riscrivere i loro curricula in prospettiva interculturale: in primo luogo la lingua. Strumento per l’espressione di sé e comprensione degli altri, può divenire da ostacolo insormontabile a occasione di scambio. Naturalmente per fa ciò occorre il lavoro coordinato dei docenti, che con un atteggiamento volto a incoraggiare anche i minimi progressi dell’alunno immigrato e mai all’intolleranza verso incertezze o lentezze accolgano con giocosità e creatività la presenza dell’alunno straniero, osteggiando, dentro e fuori di sé quei seppure velati o inconsci tentativi di assimilazione e omologazione, facendo dell’eterogeneità una ricchezza e un valore.
La narrazione, sia essa di fiabe (che richiamano sempre la cultura di origine, ma che hanno una capacità di essere condivise da tutti, bambini e adulti), o di racconti biografici o storici dei paesi di provenienza, si presta a divenire una finestra sui mondi di facile comprensione e capace di suscitare grande interesse per il bambino. Ma di questo diremo in seguito.
Per quanto riguarda il curricolo degli studi storico-geografici, è uno degli assi principali del percorso formativo, su cui si fonda la reale possibilità di costituire un pensiero migrante. La presenza di alunni di altri paesi può essere di stimolo a studiare storie e geografie altre nella convinzione che la storia è sempre più storia dell’umanità e non del singolo paese, in cui ogni avvenimento è in profonda connessione con avvenimenti lontani nel tempo ma anche nello spazio.
Così la geografia, da meramente descrittiva, divenga profonda conoscenza del territorio e del mondo, capacità di orientarsi e di adattarsi al cambiamento e spunto di riflessione del rapporto uomo-ambiente e sull’influenza di quest’ultimo sulle culture. Tutto insomma deve mirare alla costituzione di un pensiero mobile, adattabile perché aperto al cambiamento. Storia e geografia vanno quindi ripensati in termini più generali, in cui il soggetto non è il singolo paese, ma l’Umanità, contribuendo a formare nei singoli l’idea di “cittadino del mondo” proposta da Pinto Minerva.
L’insegnamento della religione (o meglio delle religioni) pone, in quest’epoca segnata dai fondamentalismi, dagli scontri a sfondo religioso e dall’intolleranza, una questione delicatissima. In termini interculturali si impone un passaggio da un insegnamento confessionale ad un insegnamento basato sul confronto e il dialogo. Le religioni, per la loro importanza nella costituzione di valori, abitudini di vita, credenze, e di appartenenza in genere, costituiscono un terreno in cui l’incontro e lo scambio possono essere di natura profondissima. Per far ciò, e affinché ciò non alimenti chiusure e irrigidimenti, deve proporsi un insegnamento volto allo scambio e alla convinzione che i propri valori e la propria fede non neghino altre fedi e altri valori, evidenziando come vi siano molti valori comuni a diversi popoli e culture. Naturalmente la questione della modalità dell’insegnamento della religione mette in campo non pochi problemi, posti in primo luogo in Italia dalla Chiesa cattolica. Sono state fatte varie ipotesi: da quella di uno studio storico delle religioni a quella dell’affiancamento all’insegnamento attuale della religione, di laboratori sulle religioni, ma la questione è ancora aperta.


II - Intercultura, pedagogia, teatro

Il teatro appartiene alla sfera del rito, del gioco e della festa ma anche dell’ artigianalità e della comunicazione in ogni senso, coinvolge tutto quel campo che possiamo chiamare genericamente antropologico.
E’strumento di ricerca verso l’io e verso il mondo.
Questo teatro non mira soltanto al prodotto come fase assoluta, ma pone l’attenzione al processo come fase continua di apprendere attraverso il fare e l’immaginare.
Giuliano Scabia, “Teatri delle diversità”


Prendendo come spunto la dichiarazione dell’importanza, secondo Pinto Minerva, del ruolo della narrazione in una prospettiva interculturale, mi fermerei a sottolineare le potenzialità di un mezzo espressivo che sulla narrazione si fonda: il teatro, che è anche una pratica di convivenza democratica e una modalità di conoscenza reciproca. Già utilizzato in alcune (poche) scuole, soprattutto licei classici per i rimandi alla cultura greca e latina, il teatro è a mio parere una pratica educativa che è anche spunto di riflessione teorica sul mondo, costitutivamente interculturale.
Esso può dispiegare le proprie potenzialità non solo nell’istituzione scuola e in età scolare ma anche come strumento educativo in età adulta e nei più diversi contesti. Il teatro, che nella forma della narrazione trova le sue radici nelle tradizioni di ogni paese, è una di quelle forme dell’appartenenza che ben si presta ad essere messa in campo nel gioco dell’incontro tra culture.
Ma come far dialogare filosoficamente i poli dell’intercultura, della pedagogia e del teatro?
Se “l’intercultura come prassi pedagogica è il varco” [Ibidem ] per la realizzare la nuova identità meticcia, i percorsi di cui la pedagogia può servirsi sono molti.
Uno dei possibili è certamente il teatro.
Naturalmente mi riferisco a certo tipo di teatro, quello che in seno alla questione semiotica (vedi ateatro) abbiamo definito “teatro laboratoriale”, in contrapposizione ad un teatro che definiamo “ermeneutico” o “di prova” in cui colmare la distanza tra testo scritto e messa in scena è quasi uno svilimento del testo, con un ruolo “debole” assegnato alla prassi e un ruolo “forte”assegnato alla drammaturgia. [C. Gebbia, La specificità del segno teatrale Una questione di gatti, ateatro 81.26]
Il teatro laboratoriale si pone invece come sistema integrato di segni di varia natura, dati dalle sovrapposizioni di piani differenti, ma non ordinati gerarchicamente: quella che abbiamo chiamato “iridescenza del segno”.
I nessi tra pedagogia e teatro, comunque, sono evidenti.
Scrive Cambi: “La pedagogia, è disciplina che si colloca tra teoria e prassi, in quanto sapere ma progettuale”; e ancora: “disciplina di frontiera posta al limite di questa frontiera dei saperi, là dove si impastano nella pratica e dove si raccordano nell’umano che li sostiene”. [Ibidem ]
Peculiarità simili possono essere rinvenute nel teatro: incapace di essere pura teoria, o letteratura, ha in sé costitutivamente la dimensione del fare, la presenza del corpo, lo sguardo dell’Altro.
E se la pedagogia “possiede almeno una prassi: quella educativa, per modificare la realtà”[Ibidem], così il teatro (quello laboratoriale) ha proprio nel laboratorio la sua prassi: luogo di incontro reale, capace di render conto della complessità delle relazioni, incontro tra volti, incontro tra culture, frattalica fucina di fucine.

Osservando diversi metodi laboratoriali [Ricerca personale condotta partecipando/osservando i laboratori di: Carlo Cecchi e l’ attenzione al problema recitativo dell’ “intonarsi” gli uni agli altri, Marco Baliani, narratore, Claudio Collovà, con la “vivificazione delle immagini pittoriche” e con il lavoro con i ragazzi della Comunità Filtro del Carcere Minorile Malaspina di Palermo, Michele Perriera alla scuola di teatro Teatès di Palermo, con particolare riferimento all’etica del lavoro teatrale, Maria Claudia Massari del “Corpus Rompus” di Siena, Armando Punzo e la “Compagnia della Fortezza” con il lavoro ventennale con i detenuti del carcere di Volterra] possiamo rinvenire una consonanza alle categorie del teatro laboratoriale e quelle dell’intercultura enunciate da Cambi a cui possiamo infatti associare, per macrodefinizioni, una fase del lavoro laboratoriale:

alla decostruzione/la creazione del gruppo:
La figura del regista partecipante fa sì che esso non agisca da occhio neutro-esterno rispetto alla costruzione dello spettacolo ma piuttosto da uno dei punti di vista dal cui incrocio si genera il significato di quanto si sta costruendo insieme e senza una progettualità forte a monte del lavoro laboratoriale. Ciò comporta una preliminare attenzione alle dinamiche di conoscenza reciproca del gruppo piuttosto che agli esiti estetici finali.

• al dialogo/l’ascolto:
Sulla base della costruzione del gruppo sopra accennata si ha poi una sorta di restituzione della propria individualità da cui viene però esclusa la fissità del ruolo attore-spettatore. Il metodo laboratoriale prevede il vedere e l’osservare oltre che il fare, come momento di pari importanza.

• alla tolleranza/la fiducia:
Attraverso una serie di esercizi laboratoriali viene costruita una fiducia fisica ed emotiva nell’altro. Ognuno diviene depositario della incolumità e dell’intimità degli altri.

• costruzione in comune/la maschera
La maschera, intesa come tappa del processo in cui il materiale prodotto diventa autenticamente “teatro”, proprio per la sua generazione ibrida e comunitaria racchiude in sé il percorso pedagogico ed estetico e segnala la necessaria indiscernibilità dei due aspetti. Se la maschera è autenticamente teatrale, nel senso delle categorie laboratoriali sopra descritte, essa è il prodotto di un incontro etico, tra individui, in cui si genera l’estetico.

Da quanto detto emerge una profonda affinità tra il percorso etico-estetico-pedagogico sopra proposto e la faziana “logica della compossibilità”, su cui Giambalvo basa la reale possibilità di un mondo condiviso [E. Giambalvo, L'uno/i molti, l'io/l'altro, l'identico/il diverso/il differente e la logica della compossibilità, Palermo, Edizioni della Fondazione Nazionale "V. Fazio-Allmayer", 1997]. In tale percorso infatti la formazione di singoli è affidata alla collaborazione che si instaura all’interno del gruppo, il teatro così sembra divenire il luogo privilegiato per l’ “attuare e promuovere la formazione umana come educazione al pluralismo, al riconoscimento e al rispetto dell’alterità, o della diversità-differenza, dei singoli individui e delle varie culture” [Ibidem ].
Se concepiamo come auspicabile un universo di compossibili il teatro appare il laboratorio per eccellenza in cui sperimentare in piccolo ma concretamente le dinamiche interazionali, estetiche e concrete che possano inverare la progettualità pedagogica.
La maschera, obiettivo del percorso laboratoriale teatrale, rinvia a quella categoria di singolo relazionale e compossibile in cui sembra essere racchiusa la possibilità di una nuova identità costruita su un reale pluralismo che accoglie come contributo imprescendibile la storia dei singoli senza decidere preventivamente un punto di vista privilegiato.
Il teatro così inteso è inoltre un “laboratorio di democrazia”, naturalmente quando non si fondi sul narcisistico e compulsivo bisogno di esibizione e di plauso.
In tale percorso infatti la formazione di singoli è affidata alla collaborazione che si instaura all’interno del gruppo. Il teatro così sembra divenire il luogo privilegiato per promuovere e attuare la formazione come educazione al pluralismo, al riconoscimento e al rispetto dell’alterità.
La Differenza emerge quindi come valore del processo di costruzione del significato in una dimensione dialogica in cui la disponibilità all’ascolto si connota come autentica apertura al punto di vista dell’altro; viene in tal modo meno una identità forte legata a prospettive egemoniche e ad un soggetto fisso nel proprio solispismo o al narcisismo comune a tanti presunti “artisti”.
Da quanto detto emerge una profonda affinità tra il percorso teatrale e la reale possibilità di un mondo condiviso posta come obiettivo dall’ Intercultura, proponendosi non soltanto come pratica ma come attività “che ripensa il mondo” in termini di “compossibilità” [Ibidem ], prendendo così parte a quella auspicata “rivoluzione antropologica” che l’Intercultura, attraverso la pedagogia in primo luogo, ha il compito di innescare, risignificando il concetto di bellezza come qualcosa non da contemplare, ma da condividere in quanto cittadini del mondo e membri dell’Umanità.


 
© copyright ateatro 2001, 2010

 
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