ateatro 10.1 Ci sono cose che non si possono dire ai morti? Una lettera a Moni Ovadia su Tevjie e noi di Oliviero Ponte di Pino
Caro Moni,
sono venuto al Teatro Strehler per applaudire il tuo nuovo spettacolo, Tevjie un mir, ovvero Tevjie e noi, dove ti misuri con un classico della letteratura teatrale yiddish come Tevjie il lattaio di Shalom Alecheim.
Ancora una volta sei tornato negli shtetl dell'Europa Orientale, là dove vivevano le comunità ebree, dove predicavano i chassidim, dove vivevano uomini miti e giusti come il tuo lattaio.
Hai giustamente evitato ogni tentazione di musical (inutile precisarlo) per raccontare la vicenda a modo tuo, con la tua compagnia, la straordinaria (ormai lo sappiamo tutti che sono bravissimi) TheaterOrchestra. Evitare il "rischio Broadway" e raccontare la storia a modo tuo, in sostanza vuol dire una cosa: la consapevolezza che una grande distanza ti separa (e ci separa) da quel mondo. Infatti nella prima scena ci porti in una prova dello spettacolo - di quello che avrebbe potuto essere un "musical à la Moni" - ma quando ti siedi davanti allo specchio per truccarti ecco che arriva lui, Tevjie in persona - un manichino che parla nel suo arrochito yiddish, con i suoi abiti lisi, i riccioli e la barba in disordine. E ti chiede che cosa stai facendo, e perché vuoi raccontare la sua storia, e chi sei, e chi sono i tuoi compagni.
È - lo hai già detto tu nelle interviste - un meccanismo pirandelliano, intorno al quale poi costruisci l'intero spettacolo: Tevjie interroga, e voi raccontate, spiegate, a volte addirittura vi confessate. Bisogna subito sottolineare che non incontri l'autore (Shalom Alecheim aveva ovviamente una grande consapevolezza intellettuale, essendo stato uno degli inventori della tradizione e della letteratura yiddish) ma il suo personaggio - o meglio addirittura un uomo - quell'uomo, un semplice lattaio dal cuore forse troppo grande, probabilmente ignorante e un po' buffo, ma a modo suo assai saggio.
A quel punto diventa necessario spiegargli tante cose, perché Tevjie sembra essersi appena risvegliato, non sa nulla di quello che è accaduto nel mondo dopo che sulla sua commedia è calato il sipario. Per esempio gli devi dire dove ci troviamo, tu, Moni, ma anche Tevjie e noi, gli spettatori: "Siamo in Italia". Poi ti chiede perché mai raccontate il suo mondo (più che la sua storia), e perché quei goyim, che hanno biografie e parentele così diverse e lontane dalle sue (e Tevjie chiede loro genealogie e pedigree, manco dovessero sposarsi una delle sue figlie), vogliono raccontare la sua storia. O meglio, quello che chiede loro Tevjie è - in effetti - che diritto hanno loro di incarnare la sua storia, avendo origini così lontane dalle sue. Per Tevjie raccontare dei matrimoni delle sue figlie - rivivere la sua vicenda - sembra un po' un rito, e quegli attori non gli paiono abbastanza consacrati. E così via.
Il vero problema sollevato dal tuo spettacolo secondo me è tuttavia un altro. Non tanto perché quegli attori vogliano raccontare la storia di Tevjie (quello lo spiegano molto bene, andando a disseppellire i mille fili che ci legano a quella tradizione straordinaria, fatti di religione, cultura, politica, filosofia…). La vera domanda è perché nessuno - neanche tu - ha il coraggio di dire al mite e saggio lattaio che il suo mondo non c'è più, che è stato spazzato via dalla follia più atroce della storia dell'umanità. Cancellato.
Insomma, c'è una cosa che non volete dirgli, una cosa che lui non deve scoprire. Ed è enorme, perché è la vera e unica ragione per cui voi state facendo quello spettacolo. È una intuizione davvero straordinaria - anche dal punto di vista teatrale, perché crea una tensione e innesca la dinamica che sottende la tragedia e la gag. (Una parentesi: per certi aspetti, fin dai tempi degli sciamani, il teatro è il luogo dei morti. Il luogo in cui l'attore può morire - per poi ri-morire la sera dopo - e noi spettatori possiamo parlare con i morti.)
Ma per quale ragione Tevjie - che giunge dal luogo delle ombre - non deve sapere quello che è accaduto? Insomma, è chiaro che i vivi devono sapere, che la Memoria è un dovere, per mille ragioni. Abbiamo il dovere di testimoniare nei confronti dei vivi, e di quelli che verranno dopo di loro, dopo di noi, e sappiamo bene perché.
Ma i morti devono sapere? E se non devono sapere, perché?
Insomma, Moni, tu hai una memoria - quella della Shoah - che vuoi condividere con noi, con i tuoi spettatori, fin nelle sue pieghe più sottili, nei suoi risvolti più dolorosi, ma non la vuoi condividere con lui, con Tevjie - con i morti. Nello spettacolo - ma chissà, magari ero distratto - non ho trovato la risposta a questa domanda.
Allora ho iniziato a cercarmela da solo. Forse, mi sono detto, temi che il protagonista del dramma vi neghi il diritto di rappresentarlo: non ha più senso, ora che quel popolo non c'è più, raccontarne le vicende. Sarebbe inutile e, peggio, quasi sacrilego. Credo sia una ragione meschina. Da un lato il desiderio di fare uno spettacolo teatrale, di mettervi un po' in mostra. Dall'altro il peso della verità, la verità di milioni di morti. Non può essere.
Poi ho fatto un'altra ipotesi. Temevate che Tevjie facesse un'equazione molto semplice (e scorretta): i cristiani hanno ucciso i miei discendenti, molti di questi attori sono cristiani e dunque sarebbe oltraggioso permetter loro di narrare la vicenda delle loro stesse vittime. Ma sono sicuro che Tevjie non avrebbe mai ragionato così: lui incontrava delle persone, degli esseri umani, e non entità astratte su cui far ricadere colpe collettive.
Probabilmente all'autore, a quel Shalom Alecheim, precettore, rabbino, mercante e scrittore, più volte esule (per due volte all'inizio del secolo si era trasferito negli Stati Uniti), glielo avresti detto, dell'Olocausto. Superata la sorpresa, e il terribile dolore, probabilmente avreste cominciato a discutere: lui ti avrebbe fatto mille domande, e tu avresti risposto e raccontato, cercando di spiegare quello che forse non si può spiegare, usando tutti i libri che hai letto. Molte cose non le avrebbe capite, altre non avrebbe voluto capirle, avreste discusso a lungo - e sarebbe stata una discussione interessante, che non sarebbe arrivata al punto: perché Tevjie non lo si può dire, tutto questo?
Allora forse lo commetti per delicatezza, questo peccato d'omissione - questa enorme omissione. Per non infliggere al povero lattaio dello shtetl tutta l'insopportabilità dell'orrore, per non turbare la sua quiete di trapassato. Per non dirgli che le sue figlie hanno in realtà sposato l'orrore e il nulla, e all'orrore e al nulla hanno destinato i loro figli e anche i figli dei figli. In qualche modo, si tratta di preservare l'innocenza: almeno la sua, e la loro, quella dei morti, visto che noi l'abbiamo perduta.
A un certo punto si parla della nuova fuga in Egitto del popolo eletto -un'allusione alla creazione dello stato ebraico - ma neanche questo dev'essergli spiegato con esattezza: forse per non dirgli che alla fine Israele è diventato un popolo come tutti gli altri, con la sua terra, con il suo esercito, con le sue guerre… Non credo che in questo caso si tratti di una preoccupazione di carattere politico. È qualcosa che riguarda la natura dell'ebreo, il suo rapporto con l'esilio e la salvezza. Tevjie poteva forse sperare ancora nell'arrivo del Messia, mentre noi sospettiamo che Dio si sia nascosto - almeno in quel momento, e forse per sempre.
Questa è probabilmente una verità che nessun uomo può trasmettere a un suo fratello, è semplicemente impossibile (da un lato non ne ha il diritto, dall'altro semplicemente nessun uomo la forza per dare o togliere la fede a un suo fratello: dunque sarebbe stato inutile).
Magari - sto fantasticando - i morti non possono provare dolore, e questa notizia gli avrebbe provocato una sofferenza troppo atroce, troppo grande - e allora non glielo si può dire, per non sovvertire la natura dell'eterno riposo.
Insomma, non lo so perché non puoi raccontare a Tevjie dell'Olocausto, e ti sono grato di avermi fatto una domanda a cui non so rispondere.
Un abbraccio
Oliviero
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