ateatro 0.31 Come se A proposito di Samuel Beckett di Oliviero Ponte di Pino
Questo testo è stato pubblicato
per la prima volta in "Per Beckett. i magazzini 9" a cura di Franco Quadri
con la collaborazione di Renata Molinari, Ubulibri, Milano, 1987.
L’afasia è uno tra i disturbi più
terribili che possano colpine un individuo, oltre che uno dei più
oscuri. Ma anche dei più curiosi, perché interessa funzioni
e meccanismi della mente che per noi restano ancora misteriosi. Alcuni
malati, per esempio, pur non comprendendo più il significato delle
parole, riescono tuttavia a ricostruire il significato di una frase in
base al "tono" di chi parla. Per loro il linguaggio si è ridotto
alle inflessioni, alla colorazione emotiva, all’espressione del viso, alla
coloritura del suono, alla sua tessitura musicale: insomma, alla sua "aura
evocativa". Altri malati hanno perso al contrario ogni sensibilità
per questi aspetti della comunicazione: anzi, tutto ciò che si aggiunge
al puro e semplice significato di una parola costituisce per loro un disagio
insopportabile, una fonte di fastidi e angosce. Per costoro, i discorsi
quotidiani appaiono ambigui, confusi, contraddittori: quanto mettiamo di
personale nelle nostre conversazioni è per loro solo una aggiunta
di "rumore" che rende vaga qualsiasi informazione.
Sono questi, forse, i due estremi di un territorio
immaginario, al di fuori del quale ogni discorso perde il senso e diventa
incomprensibile e inafferrabile. Ma il linguaggio – o meglio la comunicazione
– viene spesso attratto verso questi suoi limiti, anche al di fuori di
ogni patologia. Per fare due esempi (che sono in realtà altrettanti
problemi) potremmo situare a un estremo un’improvvisazione vocale, all’altro
un manuale di trigonometria.
Anche se può sembrare paradossale parlare
di afasia a proposito di Beckett, Come è sembra muoversi
proprio lungo questi due limiti estremi (e opposti), in un patologico percorso
di autocoscienza del linguaggio, in cui la parola diventa talmente pregnante
(poiché l’intero universo si esaurisce in essa) da ritrovarsi straniera
anche a se stessa.
Il narratore di Come è, creatore
e insieme vittima del suo stesso mondo, si impone un feroce autocontrollo:
"niente emozioni", ripete a se stesso in più di un’occasione. Come
se le emozioni e i sentimenti fossero, in questa esistenza ridotta ai minimi
termini, un lusso e una debolezza. L’aspirazione sembra quella della massima
oggettività: la descrizione esatta di un mondo i cui meccanismi
vengono messi a nudo nella parodistica scienza della terza parte.
Questo autocontrollo – imposto a una soggettività
già straniata dall’"io cito" che ritorna come sigillo e valvola di
sicurezza – finisce per diventare quasi un ossessione, come se per cogliere
il senso esatto di quell’inferno fosse necessario un linguaggio puro, assoluto,
facendo corrispondere a un meccanismo perfetto e ineluttabile un linguaggio
altrettanto meticoloso. Come se per riuscire a cogliere questo autoritratto
impietoso fosse necessario cancellare il disturbo, il"rumore costituito
dalla partecipazione emotiva alla propria stessa esistenza. Come se fossero
necessari una sorta di straniamento, una freddezza, un rigore che il gorgo
dell’emotività potrebbe intaccare.
esistere.
Ridotta a puro segno, la parola deve tornare
a essere Voce, a essere azione.
E ritrova la propria unica giustificazione
in se stessa, anche se in maniera diversa, proiettata all’estremo opposto
del territorio della comunicazione. Non è importante quello che
dice, ma che dica qualcosa, che continui a parlare, per rassicurarsi della
propria esistenza, per salvarsi dal silenzio, dalla distruzione. Per farlo
deve ritornare a essere respiro. E in quel preciso istante, non appena
incontra nuovamente il corpo, a questo linguaggio avvolto su se stesso
non resta altro che la coloritura emotiva. Se nel momento stesso in cui
canta all’infinito la propria finitezza la Voce non tace, inizia a dirci
qualcosa di diverso. Anche in questo, credo, sta il valore del recupero
al teatro di Come è: non appena l’attore si cala nei panni
della Voce, la riempie nuovamente di emozioni e sentimenti. Esiste una
"lettera": ciò che la Voce effettivamente dice. Ma aldilà
di essa, proprio nel momento in cui la Voce parla, trova un altro senso.
Proprio attraverso l’"aura evocativa" è possibile restituire il
senso all’ossessivo cicaleccio della Voce. Rinserrata nella pagina scritta
in una vacua autosufficienza, gratuita e eccessiva, la parola ritrova nel
respiro le ragioni della propria esistenza.
Sono diverse le voci che possono parlare attraverso
quella parola, come sono diversi i sentimenti che le animano, aldilà
(e forse contro) quello che effettivamente dicono. Il senso sfugge – o
diventa piattamente tautologico: ma attraverso la parola ci viene comunicato
qualcosa d’altro.
Giorni felici ispira a Marion: parlare,
sentire ancora la propria voce, significa semplicemente essere vivi. Anche
perché il logorroico delirio che dovrebbe arginare il Nulla si cobra
immediatamente di una primordiale felicità, della gioia del proprio
corpo e delle sue pulsazioni.
Ma può anche essere la sanzione beffarda
di una condanna definitiva della condizione umana. L’"in principio era
il Verbo" si è ribaltato nell’"io cito" con cui la Voce esordisce:
ma anche nell’universo – o nell’inferno – di Come è esiste
solo la parola. A illuminare questo ribaltamento escatologico, che è
insieme l’inevitabile conseguenza della premessa evangelica, ecco la cantilena
ieratica di Federico Tiezzi, a sancire in un rituale l’inevitabile apocalisse
e la sua quotidianità Ancora, è il muto doppio beckettiano
disegnato da Rolando Mugnai, a ricercare e ritrovare nella stessa biografia
le radici di una intima sofferenza e della conseguente ribellione etica.
Per finire nell’ironia tutta teatrale con cui Sandro Lombardi distacca
parodisticamente il feroce "dopo Pim", in uno sberleffo contro l’insensatezza
di una esistenza irrimediabilmente segnata dal limite: vera e propria messinscena
di una autocoscienza filosofica che trasforma la vita in un cabaret dell’Essere
- o del Nulla. Ma che contemporaneamente la annulla, nell’ansia di un altro
significato, nella ricerca di una vita in cui l’azzurro del cielo non sia
più soltanto una sfuocata nostalgia.
Quello disegnato dai Magazzini attraverso Beckett
è certamente un meticoloso resoconto dell’orrore. Ma testimonia
anche, disperata e vitale, la volontà di resistere a questo orrore,
di sopravvivergli a qualunque costo. Finché nelle ultime battute
non traspare, pallida, l’ombra del sentimento che sgorga più immediato
di fronte a questa immagine del nostro stesso tormento. Arginata e alla
fine vanificata in questo gioco assurdo la disperazione, ecco come un lampo
lontano un riflesso di pietà e compassione.
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© copyright ateatro 2001, 2010
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