ateatro -1.15 Organizzare il movimento Appunti sparsi sul nuovo teatro e sulle sue forme organizzative di Oliviero Ponte di Pino
Questa è la prima versione
di un saggio che verrà pubblicato nel libro di Mimma Gallina sull'organizzazione
teatrale in Italia. Sarò ovviamente grato a tutti coloro che mi
faranno avere suggerimenti, correzioni eccetera.
Il teatro di ricerca, o di
avanguardia, o il nuovo teatro italiano, o comunque vogliamo
definirlo, rappresenta una sfida a qualsiasi modello economico-organizzativo.
È un fenomeno relativamente nuovo – emerso in Italia alla
fine degli anni Sessanta – e che tuttavia ha segnato e sta
segnando profondamente il corso del teatro italiano.
I modelli sono quelli del Living
Theatre americano, del Teatr Laboratorium di Jerzy Grotowski in
Polonia e poi dell'Odin Teatret di Eugenio Barba in Danimarca, il
Théâtre du Soleil di Ariane Mnouchkine. Il punto di riferimento
sono le avanguardie storiche del Novecento, gli "-ismi"
che avevano toccato il teatro solo episodicamente, più con
enunciazioni di principio che con una autentica pratica.
Nel corso dei decenni, si possono
individuare tre diverse ondate, ma con alcune caratteristiche
comuni e con alcune differenze rispetto al teatro cosiddetto
"ufficiale". Schematicamente, la prima generazione,
emersa appunto negli anni Sessanta, è quella delle cosiddette
"cantine romane": dal precursore Carmelo Bene (che però
ben presto preferirà le sale "ufficiali") a Leo De
Berardinis, da Giancarlo Nanni a Carlo Quartucci, da Memè
Perlini a Giuliano Vasilicò, da Simone Carella a Remondi e
Caporossi, solo per fare alcuni nomi. Tra la fine degli anni
Settanta e i primi anni Ottanta, la generazione dei gruppi non è
più "romanocentrica", anche se da Roma arrivano la
Gaia Scienza di Giorgio Barberio Corsetti, Marco Solari e
Alessandra Vanzi: interessa infatti molte realtà cresciute in
altre città, spesso in provincia: in Toscana il Carrozzone (poi
Magazzini) di Federico Tiezzi, Marion D'Amburgo e Sandro Lombardi
a Firenze, il Piccolo Teatro di Pontedera guidato da Roberto
Bacci e il duo Alfonso Santagata-Claudio Morganti; nell'area
napoletana Falso Movimento di Mario Martone, il Teatro Studio di
Caserta di Toni Servillo e il Teatro dei Mutamenti dello
scomparso Antonio Neiwiller (tutti e tre confluiti nel 1988 nei
Teatri Uniti); e ancora l'Out Off di Milano con Antonio Syxty e
poi Lorenzo Loris (sempre a Milano, in quegli stessi anni ma su
premesse diverse, nasce anche il Teatro dell'Elfo); Pippo Delbono
in Liguria; in Romagna, una realtà che si dimostrerà tanto
feconda da diventare un vero e proprio caso, nascono la Societas
Raffaello Sanzio e il Teatro della Valdoca a Cesena, e le Albe a
Ravenna; in un elenco che non può essere esaustivo, considerate
le decine e decine di realtà nate all'epoca, vanno segnalati
infine nell'area torinese il Teatro Laboratorio Settimo di
Gabriele Vacis e Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa; in Puglia
Koreja. Più di recente, con modalità, forme e obiettivi
curiosamente simili, hanno suscitato una certa attenzione critica
una serie di gruppi più giovani (etichettati come "terza
onda", "Teatri 90", dalla rassegna milanese che li
ha lanciati): tra gli altri, ancora tra Bologna e la Romagna, il
Teatrino Clandestino, Fanny & Alexander, l'Impasto, Motus e
Masque; a Rovigo il Teatro del Lemming; a Roma il Teatro degli
Artefatti; a Napoli Rossotiziano e libera mente di Davide Iodice.
Quelle appena citate sono tuttavia
solo le punte emergenti (spesso assurte a una certa notorietà
internazionale) di un fenomeno di portata molto più ampia: nel
corso degli anni sono nate, hanno lavorato (e spesso si sono
disciolte) centinaia di realtà simili a queste, caratterizzate
da alcuni tratti comuni.
Tanto per cominciare, sono nate dall'aggregazione
di alcune persone intorno a un progetto artistico condiviso,
spesso assai vago, destinato a verificarsi e definirsi nel corso
del lavoro. Tendenzialmente, almeno all’inizio, il principio
organizzatore all’interno della compagnia (soprattutto per i
gruppi nati intorno agli anni Settanta) è ugualitario, con ruoli
professionali indefiniti e intercambiabili. Nella fase iniziale (e
cioè per diversi anni) non ci sono obiettivi economici precisi;
anzi, si tratta in generale di un'attività non retribuita,
sorretta solo dalla passione e dall'impegno volontario. È un
teatro povero per vocazione e necessità. Le produzioni sono
autofinanziate, con budget ovviamente ridottissimi, scenografie
"fatte in casa", apparati tecnici rudimentali (magari
ingegnosi e inventivi). Va in ogni caso considerato che il budget
necessario per allestire e mostrare uno spettacolo teatrale resta
sempre assai limitato rispetto – per esempio – a un
film: da questo punto di vista, il teatro resta una forma di
comunicazione immediata ed estremamente "democratica",
pur rivolgendosi a un pubblico di nicchia. Anche in questo sta il
suo fascino, persino oggi.
In questo ambito, la centralità del
progetto artistico è assoluta. Rifacendosi alla metodologia
della ricerca scientifica, si privilegia la fase progettuale e di
sperimentazione rispetto alla presentazione del prodotto finito,
dell’opera da immettere poi sul mercato. Questo
implica spesso tempi di prova (o di laboratorio) assai dilatati,
con tempi e costi insostenibili per una compagnia teatrale
gestita secondo criteri imprenditoriali.
A differenza di quello che è
accaduto con altri movimenti innovatori del teatro italiano (primi
tra tutti gli stabili, ma anche molti esperimenti teatrali di
epoca fascista), realtà di questo genere non si pongono come
priorità il problema del pubblico. Come i loro modelli stranieri,
sanno di essere marginali (anche in rapporto all’invadenza
dei mass media) e di rivolgersi dunque a una élite – che
non è più una classe economicamente privilegiata, ma
semplicemente uno spettatore che sceglie quel tipo di
esperienza, per motivi culturali, generazionali, o per affinità
di vario genere. Da questo punto di vista, sia per l'artista sia
per lo spettatore, l'interesse per il teatro – o meglio, per
questo tipo di teatro – nasce da una sorta di "contagio",
cui segue una pratica che è anche educazione (o meglio
autoeducazione), fatta di spettacoli visti, di incontri, di
letture, di seminari e workshop, ma anche di rapporti e di
amicizie.
Per una giovane compagnia il primo
problema – ancor prima del raggiungimento del livello di
sussistenza – è la disponibilità di uno spazio di lavoro e
di prova, che soprattutto nelle realtà urbane ha costi
proibitivi. Questo dato che può contribuire a spiegare la
nascita e lo sviluppo di numerosi gruppi in provincia, dove ci
sono più spazi disponibili, dove gli enti locali sono più
aperti. Senza dimenticare che i luoghi privilegiati di questo
teatro, oltre a teatrini e cantine, sono non a caso spazi non
teatrali: strade, piazze, gallerie d'arte, edifici disabitati,
capannoni industriali, spazi urbani e naturali, riadattati a
teatro o più spesso utilizzati una tantum per la loro
suggestione e per la memoria vissuta che portano in sé.
Con caratteristiche di questo genere,
è ovvio che in una prima fase a sostenere questi gruppi sia una
spinta generosamente volontaristica. A un generico desiderio di
"fare teatro" (o meglio, un certo tipo di teatro) non
corrispondono in molti casi precise competenze tecniche: né sul
versante della formazione teatrale (attorale, registica, eccetera),
né su quello economico-organizzativo, né su quello assai
importante dei rapporti con le istituzioni pubbliche. Come già
accennato, molto spesso i componenti di questi gruppi hanno
acquisito le loro competenze professionali attraverso un percorso
di autoformazione, in genere lontano dalle istituzioni ufficiali
(Accademia e simili); a volte – soprattutto negli anni
Settanta e Ottanta – muovendosi in diretta polemica con un
percorso formativo che non appariva più in grado di soddisfare
le nuove esigenze professionali (il tentativo più organico di
aprire un'istituzione "tradizionale" alle esigenze
professionali del nuovo è quello condotto alla Civica Scuola d'Arte
Drammatica "Paolo Grassi" di Milano da Renato Palazzi).
Il percorso educativo sia per i
quadri artistici sia per quelli organizzativi tende dunque a
privilegiare occasioni pedagogiche ben delimitate nel tempo (seminari
e workshop, magari alla ricerca di un "Maestro") –
e soprattutto l’esperienza diretta, la pratica. A volte
vengono utilizzate professionalità e competenze sviluppate in
ambiti artistici e professionali diversi dal teatro.
Questo processo di auto-formazione
comporta ovviamente una serie di svantaggi, e tuttavia può
costituire una grande ricchezza. Chiunque lavori in un gruppo
tende a essere in qualche modo un "creatore" più che
un funzionario, un tecnico o un semplice esecutore: gli viene
richiesto un apporto eccezionale in termini di impegno di tempo e
lavoro (rispetto al corrispettivo economico), e dunque un
investimento che è anche personale, spesso affettivo: il gruppo
costituisce una specie di microcosmo sociale e familistico, e di
questo tipo di aggregazione sociale tende a ricalcare le
dinamiche.
È forse possibile ricostruire una
possibile dinamica evolutiva del gruppo teatrale (tenendo
presente che si tratta di uno schema di massima, che cerca di
accomunare con inevitabili forzature percorsi irripetibili e non
riproducibili).
Inutile sottolineare che il punto di
partenza di queste esperienze è l’incontro tra alcune
persone con un fascio di interessi comuni, che s'impegnano in una
prima fase di lavoro tendenzialmente "chiusa" all’esterno:
si tratta di verificare le reciproche affinità e le comuni
curiosità, e di mettere a punto, prima ancora che uno spettacolo,
una metodologia di lavoro, secondo un andamento per prove ed
errori. In questa fase di esercizi e improvvisazioni, di progetti
a volte destinati a restare sospesi, iniziano ad accumularsi
materiali "teatrali". Dopo un periodo più o meno lungo,
emerge la necessità di rendere visibile il lavoro all’esterno:
all'inizio eventualmente con prove aperte o con l’invito di
osservatori esterni, poi in situazioni più strutturate e
pubbliche. A questo punto l’incontro con il sistema teatrale
diventa inevitabile.
Va subito premesso che da parte
degli addetti ai lavori (almeno per una parte di loro) l’attenzione
per le nuove compagnie è un'esigenza professionale. In Italia in
questi anni diversi critici e organizzatori hanno sostenuto realtà
emergenti: basti pensare a figure come Giuseppe Bartolucci o
Franco Quadri, e a rassegne come il Festival di Santarcangelo (affiancato
più di recente da Volterra, Pontedera, Castiglioncello eccetera).
Vi sono state poi, nel corso dei decenni, diverse occasioni di
aggregazione e confronto destinate a gruppi emergenti, in alcuni
casi con ambiziosi tentativi di auto-organizzazione: basti
ricordare l'incontro dei gruppi di base a Casciana Terme nel 1978,
le varie edizioni di Opera Prima a Narni (a cura di Giuseppe
Bartolucci) e poi a Rovigo (a cura del Teatro del Lemming), l'associazione
dei Teatri Invisibili, esperienze collettive come Linea Maginot
in Emilia, il Premio Scenario (che ogni anno seleziona e sostiene
produttivamente una serie di progetti di giovani artisti), e
censimenti come Scena Prima (in Lombardia) e Il debutto di Amleto
(in Toscana), vetrine per i nuovi gruppi come Teatri 90, inedite
forme di "federazione" come il più recente Prototipi,
che a Verona ha raccolto quattro gruppi romagnoli emergenti.
L’atteggiamento del sistema
teatrale è invece tutt’altra cosa. Esistono realtà che
hanno come compito istituzionale il sostegno alla sperimentazione,
come l'Eti e i Centri di ricerca; anche i teatri stabili
dovrebbero avere a cuore (oltre che nei compiti istituzionali)
almeno il ricambio generazionale. Nei fatti però, purtroppo, l'establishment
teatrale nel suo complesso si è mostrato abbastanza refrattario
a lasciarsi contaminare da esperienze considerate in qualche modo
estranee, e a volte addirittura disprezzate come dilettantesche e
avventuristiche. Così il nuovo è rimasto tendenzialmente
confinato in un ghetto: possono essere, appunto, minifestival,
rassegne e vetrine dentro o fuori le stagioni ufficiali dei
teatri, il circuito parallelo dei Centri di ricerca, il gran giro
dei festival e festivalini estivi.
I motivi dell'idiosincrasia tra il
"nuovo" teatro e quello ufficiale possono essere molti:
alcuni di carattere prettamente artistico o meglio culturale, che
in alcuni casi hanno portato a veri e propri scontri: basti
pensare alla direzione di Franco Quadri alla Biennale di Venezia
a metà degli anni Ottanta, condannata all'estinzione dopo aver
aperto al nuovo teatro italiano; altre difficoltà dipendono
invece da forme produttive e organizzative per certi aspetti
inconciliabili.
Nel corso degli anni sono stati
fatti diversi tentativi per sostenere il nuovo con un minimo di
continuità. Si è già accennato al ruolo dell'Eti, che da
sempre dovrebbe svolgere questo compito. Di fatto però, decennio
dopo decennio, le manifestazioni sostenute dall'ente sono state
troppo spesso mini-rassegne ghettizzate all'interno della
programmazione di altri teatri, corpi estranei in stagioni con un'impostazione
molto diversa; anche i recenti tentativi di produzione diretta da
parte dell'Eti sono rimasti alla fine episodici. Si è accennato
pure al ruolo dei Centri di ricerca, che avrebbero dovuto fornire
un sostegno produttivo e organizzativo a realtà centrate sulla
progettualità artistica. Purtroppo però i centri che non erano
nati attorno a un gruppo con una identità artistica forte (come
nel caso di alcuni dei più grandi e meglio dotati di risorse,
come il Crt di Milano, il Css di Udine, il Centro San Gemignano
di Modena, cresciuti intorno a progetti organizzativi e culturali
di ampio respiro, grazie anche alle personalità che li animavano)
nel migliore dei casi hanno finito per ridursi a finanziatori-produttori
degli spettacoli di gruppi che già seguivano un loro percorso (con
una funzione dunque di filtro economico-culturale); mentre sono
apparsi assai meno convincenti nei progetti che hanno prodotto
direttamente, in prima persona. Queste realtà non sono neppure
riuscite a costruire un credibile circuito alternativo per la
distribuzione del "nuovo": di fatto rappresentano
ancora una sorta di serie B, da cui le compagnie tendono a
emanciparsi non appena si presenta la possibilità di presentare
lo spettacolo in situazioni meno marginali.
In una situazione di questo genere,
è inevitabile che il rapporto di un nuovo gruppo con le varie
articolazioni del sistema teatrale pubblico e semipubblico segua
un percorso tortuoso. Non va in ogni caso sottovalutata la
possibilità di accedere a sovvenzioni pubbliche. Tra varie fasi
di apertura e chiusura, dalle sovvenzioni a pioggia degli anni
Settanta alla stretta degli anni Novanta e alle recenti parziali
riaperture, il meccanismo delle sovvenzioni nei suoi vari livelli
– centrale, regionale, provinciale e comunale – è di
fatto intervenuto pesantemente nello sviluppo del nuovo teatro.
Lo ha evidentemente sostenuto finanziariamente (rendendo
possibile la sopravvivenza, per quanto stentata), ma nel contempo
ha imposto una serie di condizioni. In primo luogo per accedere a
qualunque tipo di sovvenzione una giovane compagnia deve assumere
una forma giuridica stabile (e questo implica anche una struttura
organizzativa). In secondo luogo deve ottemperare a una serie di
parametri contributivi (ENPALS) che per i gruppi autofinanziati e
sostenuti dal volontariato possono inizialmente significare
semplicemente un vertiginoso aumento delle spese.
L'istituzionalizzazione del gruppo
è un passo prima o poi inevitabile, nel momento in cui le
maggiori istituzioni teatrali non sono in grado di cooptare i
nuovi talenti (e men che meno di garantire loro la possibilità
di una crescita professionale e artistica). Inoltre, a causa di
una serie di regolamenti, l'istituzionalizzazione diventa di
fatto una condizione indispensabile per poter essere inseriti
nelle stagioni "ufficiali" di teatri e festival: dopo
un massimo di 3-4 anni di attività "amatoriale", con
ogni probabilità il gruppo di amici unito solo da tanta voglia
di fare teatro è costretto a diventare una compagnia, oppure è
destinato a sciogliersi.
In questa fase all'interno della
struttura diventano necessarie nuove figure e nuove competenze
professionali: cresce il carico degli impegni amministrativi,
diventa necessario procacciare piazze per gli spettacoli, tenere
i rapporti con le istituzioni (anche per ottemperare alle
complesse pratiche per ottenere i finanziamenti) e con la stampa,
gestire le tournée, promuovere gli spettacoli (in particolare
presso il pubblico scolastico)… Per svolgere tutti questi
compiti, non è più sufficiente il personale artistico (attori,
regista, scenografo) e tecnico, ma anche organizzativo. Le nuove
figure possono essere individuate all'interno del gruppo (spostando
forza lavoro dal palcoscenico e dalla sala agli uffici) oppure
facendo ricorso all'esterno. In molti casi, proprio per quanto
detto finora, l'inserimento può rivelarsi difficile: perché i
gruppi sono attenti soprattutto alle esigenze artistiche (tendenzialmente
meno al pubblico e alle necessità organizzative); perché la
logica del gruppo chiuso rende problematico l'accoglienza di
nuove individualità, che magari hanno percorsi e formazione
molto diversi; ma soprattutto perché la logica in cui si muove
qualunque burocrazia ha molte difficoltà a entrare in rapporto
con una pratica fondata sull'entusiasmo e sull'impegno personale.
Ma con questo abbiamo già delineato
le fasi iniziali di quello che potrebbe essere il tipico percorso
di un giovane gruppo teatrale. Nella prima fase, si tratta di
misurare la propria necessità di fare teatro e di mettere a
punto una propria personale visione e pratica scenica: perché la
forza di ciascun gruppo nasce dalla precisione dell'idea di
teatro che riesce a mettere e fuoco, dalla potenza del mondo che
reinventa sulla scena. Spesso si tratta di definire una
grammatica, ricreando addirittura gli elementi base dell'evento
teatrale (il tempo, lo spazio, il suono, il corpo, il gesto…)
per poi articolarli in una sintassi: tutta la storia dell'arte
del Novecento dimostra che non esiste una tradizione, una logica
dell'opera d'arte, ma che tutte le convenzioni sono legittime,
nel momento in cui sono dotate di una propria coerenza e
comunicano una forza poetica. I primi spettacoli dei nuovi gruppi
più interessanti vivono proprio della sorpresa e della felicità
della scoperta di una nuova lingua teatrale – a volte un'autentica
rivelazione, un'esplosione creativa contagiosa e trascinante.
Queste "lingue private"
presentano ovviamente alcuni rischi: il primo è ovviamente
quello della chiusura, la costruzione di un discorso
autoreferenziale, tutto proiettato sulle dinamiche interne del
gruppo, e dunque comprensibile solo a una ristretta cerchia di
iniziati. A questo proposito va ricordato che il metodo di lavoro
procede spesso per improvvisazioni e che dunque affonda le radici
nel privato (nella memoria individuale, intima): l'elemento
personale, che ha ovviamente notevole rilevanza per chi lo
propone, l'attenzione alle dinamiche interne, l'elaborazione di
una lingua teatrale sempre più complessa e autoreferenziale
rischiano di prendere il sopravvento sulla necessità della
comunicazione e sul confronto con il mondo esterno. Il processo
di elaborazione drammaturgica e il montaggio registico dovrebbero
evitare questa deriva. Ciò nonostante, la tensione autoanalitica
del lavoro può creare un mulinello che risucchia ogni apertura
verso l'esterno e che conduce a una sorta di implosione. In
questo gorgo hanno finito per arenarsi diversi gruppi del
cosiddetto Terzo Teatro, tra la fine degli anni Settanta e l'inizio
del decennio successivo.
Un secondo pericolo può nascere
paradossalmente proprio dal successo di un determinato linguaggio:
che rischia rapidamente di ridursi a formula vuota, a cliché
ripetitivo. Così una compagnia, dopo la fase della sorpresa e
del successo, può anche "galleggiare" a lungo,
sostenuta da un gruppo di fedelissimi e da fasce di pubblico che
via via si rinnovano. Ma alla lunga si innesca un rallentamento
quasi inerziale, che porta a un progressivo svuotamento di
energie creative.
Non è dunque un caso che la storia
dei gruppi più longevi sia punteggiata da profonde crisi (con un
andamento quasi ciclico), segnate dalla necessità di ampliare e
di rinnovare il proprio vocabolario creativo, di far crescere la
tavolozza con innesti e contaminazioni. Questo può significare l'inserimento
di nuove individualità artistiche all'interno del gruppo, ma
soprattutto spinge ad ampliare la gamma degli interessi,
inserendo nuovi elementi che entrano a far parte della grammatica
di base. Il caso più clamoroso, per riferirsi ancora ai gruppi
nati negli anni Settanta, è il superamento di un teatro che
tendeva a rifiutare l'uso della parola a favore del lavoro sul
testo. Altri esempi possono essere rappresentati dalle
contaminazioni musicali, dall'incontro con i classici, dalla
riscoperta del dialetto, dall'incontro con nuove tecnologie,
dalla collaborazione con attori non-professionisti (per esempio
teatro in carcere, o teatro e handicap).
Rispetto allo sviluppo di un
percorso creativo, questi nuovi elementi costituiscono ulteriori
fonti di energia, in grado di innescare dinamiche inedite. Al
contempo rappresentano altrettanti ostacoli con cui misurarsi,
punti di resistenza contro i quali affinare la propria poetica.
Chi prende parte anche con funzioni organizzative a un percorso
di questo genere deve rendersi conto che questi allargamenti d'orizzonte,
queste correzioni di rotta fanno organicamente parte del metodo
di lavoro e della ricerca di un gruppo – anche se in
apparenza cozzano contro la razionalità economica e/o
organizzativa.
Perché a questo punto il gruppo ha
già raggiunto una struttura articolata: un nucleo artistico
sostanzialmente stabile, con alcuni ruoli ben disegnati (in
genere quello del regista e quelli degli attori principali, più
eventualmente altri, per esempio scenografo); una struttura
organizzativa (una o più persone); a volte un ufficio stampa
interno alla compagnia. Il gruppo può avere anche alcuni spazi
da gestire: un ufficio, una sala prove, un magazzino; a volte
addirittura un teatro – e in questo caso la struttura
diventa ancor più complessa. In base ai diversi progetti, può
diventare necessario costruire collaborazioni con altre figure
artistiche o tecniche.
Sostenere una struttura di questo
genere (per quanto ridotta ai minimi termini) comporta un giro d'affari
annuo dell'ordine delle centinaia di milioni. Come si può
dedurre da quanto detto finora, gli introiti derivano da fonti
diverse. Una parte deriva ovviamente dagli incassi, ma in genere
non è certamente sufficiente a garantire la sopravvivenza della
compagnia (come accade peraltro con tutto il teatro di qualità
in Italia). Abbiamo già accennato alle diverse forme di
finanziamento dal governo centrale e dagli enti locali. Vi sono
poi varie forme di coproduzione degli spettacoli: il finanziatore
può essere di volta in volta un festival (in Italia o all'estero),
un Centro di ricerca, un Teatro stabile... Ancora, vi sono
attività in qualche modo legate al teatro che spesso consentono
di raggiungere la "linea di galleggiamento": le più
frequentate sono ovviamente il lavoro con (o dentro) le scuole, i
seminari e i workshop, ma nel passato ci sono stati anche
interventi nelle sfilate di moda o nelle discoteche e altre
soluzioni ancora più fantasiose. Per gli sponsor privati, invece,
il teatro (e in particolare il nuovo teatro) rappresenta ancora
un intervento a rischio, che non offre sufficienti visibilità e
garanzie sul prodotto finale.
Riuscire a garantire la
sopravvivenza economica di una compagnia teatrale, lo si sarà
capito, non è impresa facile. Vanno tenuti in considerazione
ulteriori elementi di difficoltà: rispetto all'esterno, il
cronico ritardo con cui vengono effettivamente erogate le
sovvenzioni pubbliche, l'assenza di un efficace circuito di
distribuzione, la diffidenza di chi programma le sale teatrali
nei confronti di proposte a volte insolite, che così vengono
ghettizzate o semplicemente rifiutate, la disattenzione dei mass
media; rispetto all'interno, una gestione spesso antieconomica
delle risorse, scelte subordinate alle ragioni artistiche prima
che da quelle del mercato, e le ricorrenti crisi implicite in un
percorso di autentica ricerca.
Si tratta spesso di esperienze che
– sempre nella tradizione delle avanguardie –
anticipano e sperimentano, in un ambito limitato e quasi
laboratoriale, tendenze che avranno risonanza più ampia. Il loro
interesse sta anche in questa capacità di cogliere allo stato
nascente inediti fenomeni estetici e sociali, di presentire gusti
e mode, di mettere in atto nuove forme di comunicazione e di
interazione. A questo aspetto, nei casi migliori, si coniuga una
notevole capacità critica e autonomia di giudizio, e la necessità
di inserire queste sperimentazioni e anticipazioni in un contesto
culturalmente assai ricco e articolato. Possono dunque costituire
un punto d'osservazione privilegiato – non solo per chi per
un motivi o per l'altro è appassionato di teatro, o se ne deve
occupare per ragioni professionali.
A questo punto, è quasi inutile
precisare che la faticosa sopravvivenza di questi gruppi
indipendenti non è certo il sintomo di un sistema sano. Quello
italiano ha garantito in questi anni la sopravvivenza e la libertà
di ricerca alle realtà artisticamente più forti, ma al prezzo
di una costante marginalizzazione e di una sostanziale
deresponsabilizzazione. I periodici tentativi di far interagire
la struttura portante del teatro pubblico (e cioè i teatri
stabili) e le successive generazioni di artisti (in sostanza le
nuove leve più interessanti della scena italiana) si sono
inevitabilmente conclusi in un sostanziale fallimento, sia nel
caso della produzione di un singolo spettacolo (e infatti questi
esperimenti non sono stati ripetuti) sia nel caso della gestione
di un teatro: le insormontabili difficoltà incontrate da Mario
Martone al Teatro di Roma è solo l'ultima conferma dell'impossibilità
di un rinnovamento.
È forse impossibile identificare
tutti motivi di questa incomunicabilità, anche se alcuni sono
impliciti nell'analisi condotta fin qui (e dal confronto con
quello che emerge dalla situazione dei teatri stabili italiani).
Ma a dare il segno della situazione, può bastare un dato: uno
degli eventi teatrali italiani più importanti del 2000 è stato
certamente Genesi della Societas Raffaello Sanzio,
proclamato dai critici italiani, attraverso il Premio Ubu,
spettacolo dell'anno. Il lavoro è stato coprodotto da alcune tra
le più prestigiose istituzioni teatrali: lo Holland Festival di
Amsterdam, lo Zürcher Theater Spektakel, lo Hebbel Theater di
Berlino, Le Maillon Théâtre di Strasburgo, il Perth
International Arts Festival australiano, il Centre Dramatique
National di Orléans. In Italia, nel corso dell'anno, ha trovato
solo cinque piazze, per un totale di meno di trenta repliche.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Oltre ai materiali prodotti
direttamente dai gruppi e ai cataloghi di festival e rassegne (spesso
di difficile reperibilità), si segnalano qui alcune opere di
carattere generale.
In primo luogo il Patalogo, l'annuario
del teatro curato da Franco Quadri ed edito dalla Ubulibri, che
con cadenza annuale segue e documenta dal 1977 quello che accade
sulle scene italiane, e che al lavoro dei nuovi gruppi ha
dedicato costante attenzione.
Poi, anche per le indicazioni
bibliografiche contenute nei volumi:
Stefania Chinzari – Paolo
Ruffini, Nuova scena italiana. Il teatro dell'ultima
generazione, Castelvecchi, Roma, 2000.
Fanny & Alexander, Masque Teatro,
Motus, Teatrino Clandestino, Certi prototipi di teatro. Storie,
poetiche, politiche e sogni di quattro gruppi teatrali, a
cura di Renata Molinari e Cristina Ventrucci, Ubulibri, Milano,
2000.
Oliviero Ponte di Pino, Il nuovo
teatro italiano 1975-1988. La ricerca dei gruppi: materiali e
documenti, La casa Usher, Firenze, 1988 (gran parte del
volume è consultabile e scaricabile gratuitamente dal sito http://www.olivieropdp.it).
Franco Quadri, L'avanguardia
teatrale in Italia, 2 voll. Einaudi, Torino, 1977. |