Tanto per cominciare,
un po' di date.
1600 (?) - Va in scena a Londra l'Amleto di William Shakespeare, il testo più
noto (e probabilmente il più rappresentato e e il più riscritto)
del teatro occidentale.
1748 - Izumo Takeda, Shourako Miyoshi e Senryu Namiki scrivono quello che diventerà il
testo più noto e popolare del teatro giapponese, Kanadehon Chusingura,
ispirandosi a un fatto di cronaca avvenuto nel 1702 (ma ambientando l'azione
nel XIV secolo). Il signore di Ako, Asano (Enya), dopo essere stato offeso,
cerca di uccidere il proprio nemico, Kira (Kono), nei corridoi del castello
di Edo. Asano fallisce nell'impresa, gli viene ordinato di uccidersi e
il suo clan viene disperso. I samurai che erano al suo servizio si trovano
senza padrone; 47 di loro, guidati da Oishi, decidono di vendicare il loro
signore. Ci riescono, al termine di varie peripezie. Dopo di che, commettono
hara-kiri per dimostrare la loro fedeltà all'antico signore. Il
testo ha curiose analogie con Amleto: il tema è lo stesso,
la vendetta; Amleto si finge folle, Oboshi nasconde i suoi propositi dandosi
al libertinaggio; sia Amleto sia Oboshi moriranno dopo aver compiuto la
loro vendetta. Il consigliere di Enya, Ono, che poi tradirà il suo
signore, ricorda Polonio, e morirà come lui. E così il destino
di Gertude è simile a quello di una donna del clan di Enya, Okaya:
suo marito verrà ucciso dal figlio di Ono.
1902 (35° anno dell'era Meiji) - Va in scena al Teatro Asahi di Osaka il primo Amleto
giapponese. A recitare il testo (intitolato Il castello d'acero)
sono attori dello Shinpa (una nuova scuola di kabuki). Ma l'ispiratore
dello spettacolo è Morita Kanya (1846-1897), un impresario che aveva
dato un forte impulso alla modernizzazione del teatro giapponese, portando
in scena testi occidentali e scrivendo egli stesso drammi ambientati in
Europa e negli Stati Uniti.
1992 - Va in scena al Teatro Haiyuza di Tokio Kanadehon Hamlet (Premio Yomiuri)in cui
Harue Tsutsumi intreccia i due classici del teatro orintale e occidentale.
Siamo nel 1897, e stiamo assistendo a una prova dell'Amleto nel
teatro di Morita Kanya, il Teatro Shintomi. In effetti si tratta - secondo
gli usi del teatro giapponese dell'epoca - dell'unica prova dello spettacolo,
che dovrà andare in scena la sera successiva, anche per salvare
un teatro oppresso dai debiti. A recitare il testo sono attori del kabuki
- che però pensavano di essere stati convocati per interpretare
Kanadehon Chushingura. Di Amleto non sanno nulla: mai visto, mai sentito
nominare. "Regista" dello spettacolo è il nobile e facoltoso Miyauchi
Reinojo, che nei suoi soggiorni americani ha avuto l'occasione di vedere
l'ultima esibizione del leggendario Edwin Booth alla Brooklyn Academy of
Music. La serata è costellata da una serie di incompresioni: molti
attori si presentano in scena con i costumi del kabuki, e soprattutto il
loro stile di recitazione tutto convenzionale è lontanissimo dal
realismo ricercato dal regista. Questo Amleto non andrà in
scena: da un lato esplodono le incomprensioni tra il regista e gli attori
(malgrado l'intervento di un giornalista che illustra le somiglianze tra
i personaggi dei due testi); dall'altro lo sfortunato Morita Kanya muore
assediato dai creditori. Le sue ultime parole riecheggiano il monologo
finale del pallido principe. Per vedere il primo Amleto giapponese
bisognerà aspettare il nuovo secolo.
Kanadehon Hamlet è un testo che ha evidenti sfumature didattico-didascaliche, nel tentativo
di ricostruire un episodio poco noto della storia del teatro. E' un momento
peraltro molto particolare. Il Giappone è nel pieno dell'era Meiji,
quella che segna la modernizzazione dell'arcipelago. In Occidente inizia
invece a infuriare la moda del "giapponismo". Mentre gli attori giapponesi
si trovano costretti a misurarsi con il "realismo psicologico" occidentale
(quello che nasce, per certi versi, proprio nei monologhi di Amleto), gli
spettatori occidentali restano affascinati di fronte alle raffinate convenzioni
dei primi attori orientali che viaggiano verso gli Stati Uniti e l'Europa:
proprio in questo incontro si trovano alcune delle radici delle rivoluzioni
teatrali del Novecento.
Seppur confinato in un pomeriggio di prove in un teatro in via di fallimento, lo scontro
tra Oriente e Occidente può farsi assai aspro, come dimostra questo
brano del dialogo, dove il protagonista dell'Amleto, il volonteroso
Naritaya Maziko, si scontra con il produttore e con il regista.
KANYA Naritaya, sei così bravo a fare lunghi monologhi, non è vero?
Non puoi trovare toni un po' più ricchi?
MAZIKO Beh, nei testi che recito ho sempre un qualche accompagnamento, musica,
o danza, in modo che sembri davvero teatro.
MIYAUCHI Non hai ancora capito che cosa sia un vero dramma. Te l'ho detto mille
volte, devi esprimere i tuoi sentimenti, le tue emozioni, invece di cercare
lo "stile".
MAKIZO Ma questi sentimenti, queste emozioni, io non le capisco. Davvero, non
riesco a capire perché Amleto si comporti in questo modo.
MIYAUCHI Ma perché?
MAKIZO Amleto ha appena incontrato lo spettro di suo padre e ha deciso di vendicarlo.
Ma allora perché mai sta lì a baloccarsi con questa idea
di uccidersi o non uccidersi, e su tutto quello che succede dopo che siamo
morti?
TOKUJIRO (Claudio) E' vero. In Chushingura Yaranosuke, dopo la morte
del suo capo, non si lascia distrarre da nulla, si concentra solo sulla
vendetta. Non certo ha tempo per balbettare di essere o non essere, finché
non ha compiuto il proprio dovere.
MIYAUCHI Amleto non è Yaranosuke. Che sciocchezza è mai questa? Siamo
nel trentesimo anno dell'era Meiji, lo shogunato Togukawa è finito
da trent'anni! Ma il teatro giapponese non ha speranze, non è ancora
arrivata l'alba.
Questo frammento esemplifica uno dei temi del testo, le incomprensioni tra due mondi che s'incontrano
per la prima volta. Sono incomprensioni che riguardano due diverse visioni
del mondo (solo per fare l'esempio più clamoroso, il diverso significato
e valore del suicidio nelle due culture), ma anche due diverse concezioni
del teatro. E' una situazione che porta a situazioni a volte esilaranti:
per esempio quando gli attori si presentano in scena con abiti e trucco
a metà tra i costumi del kabuki e quelli di un uomo d'affari occidentale
di fine Ottocento. O quando uno dei comprimari commenta: "Un attore così
bravo è sprecato nella parte di Amleto" (mentre poco prima il regista
aveva proclamato: "Amleto è il nuovo teatro"). O, ancora, nel tormentone
delle scarpe che bisogna assolutamente togliere prima di salire sulla scena...
Quello che per i protagonisti fu, all'epoca, autentico dramma (l'impresario Kanya morirà
sulla scena a causa del fallimento dell'impresa), è diventato per
noi occasione di divertimento. Come spettatori smaliziati e consapevoli,
che hanno visto gli Shakespeare della BBC e il kabuki, studiato gli scritti
di Brecht e Mejerchol'd sui teatri orientali, rileggiamo le difficoltà
di interpretazione in chiave di parodia. Insomma, ci siamo costruiti un
altro punto di vista, che ci permette di de-costruire ironicamente i punti
di vista degli interessati. Anche questo spiega il successo del testo di
Tsutsumi Harue, portato in scena 4 volte nel giro di pochi anni.
Nota: per ulteriori approfondimenti (e qualche indicazione bibliografica), cfr. Graham Bradshaw e
Kaori Ashizu, Reading Hamlet in Japan, in Shakespeare
and the Twentieth Century. The Selected Proceedings of the International
Shakespeare Association World Congress, Los Angeles, 1996, cur. Jonathan
Bate, Jill L. Leverson e Dieter Mehl, University of Delaware Press, 1998.
Nello stesso volume, un saggio di Yoshiko Kawachi (Gender, Class, and
Race in Japanese Translations of Shakespeare) elenca alcune delle traduzioni
del celeberrimo "essere o non essere", che nel primo allestimento giapponese
il monologo venne tagliato. Va ricordato che è praticamente impossibile
trovare in giapponese un equivalente di "to be": il verbo "aru" significa
semplicemente esistere e non comporta tutti i significati di "to be".
Charles
Wirgman (1874) |
Arimasu, arimasen, are wa nan
desuka? |
C'è; non
'è. Che cosa è? |
Shoyo Tsubobuchi |
Yoni anu, yoni aranu |
Esistere in questo mondo, o
non esistere in questo mondo. |
Tsuneari Fukuda |
Se ka shi ka |
Vita o morte |
Junji Kinoshita |
Konomamani atte
iinoka |
Mantenere lo status quo o cambiare
lo status quo |
Matsuoka |
Ikite todomaruka, kiete nakanaruna |
Restare vivo o scomparire da
questo mondo |
|
E' irriverente.
La prima associazione
che ho fatto con il Progetto Otello, quando ho ricominciato a pensare
col mio ritmo normale (ero in battello, erano le due di notte, c'era alta
marea), è stata con la pedicure Lidia, di Dolo.
E' blasfemo, associare
una pedicure di Dolo ad un regista di Vilnius.
Sento che mi sto
spiegando malissimo. Non posso spiegarmi.
Quando per la prima
volta a 44 anni ho messo piede da una pedicure avevo sempre saputo di avere
dei piedi. Anzi: ero ben consapevole di averne due, di averli piccoli e
un po' bambini, di averli delicati e con qualche callo, attaccati a caviglie
deboli. Adoro camminare scalza, vado pazza per le scarpe, talvolta mi do
lo smalto di Dior sulle unghie: trovo che stia bene, soprattutto con gli
infradito.
Insomma: pur avendo
una discreta consapevolezza dei mie piedi non ero mai andata da una pedicure.
Cioè da qualcuno che professionalmente si prende cura dei piedi.
La pedicure Lidia
ha tirato fuori i sui strumenti minuti, semplici, ha fatto quello che doveva
e ha cambiato la consapevolezza che avevo, di come un piede possa essere
considerato, trattato, bencurato.
La stessa cosa fa
la compagnia di Nekrosius con un'altra parte del corpo che, per convenzione,
chiamerò anima. Io so di averla, saprei descriverla, talvolta me
ne occupo. Poi sei qui, al Piccolo Arsenale, di fronte a questo regista
della Lituania il quale ti fa capire, grazie alla sua professionalità,
che la tua anima è un'altra cosa, si può trattare in un altro
modo, può stare così bene, essere talmente manicurata.
Adesso di anni ne
ho 45 e non avevo mai portato la mia anima dentro un teatro come questo.
Non è mai
troppo tardi.
Nel Progetto Otello
si capisce come il teatro possa essere una rivelazione della multisensualità
dell'anima, della sua capacità di essere sollecitata a strati, come
la curvatura di una trave lamellare: ed è solo la sua risposta coordinata
che aumenta all'infinito la capacità di flettersi, di muoversi e
cambiare entro un rischio calcolato, trovando sempre nuovi punti di equilibrio.
Il Progetto Otello
fa dell'anima un ricettore, sollecitato all'estremo, con una dosatura sapientissima
di pause e di improvvise sorprese, di reiterazioni e di assoli, di coralità
e di icone, di mania dei particolari e di travolgenti coreografie, di plasticità
virtuosistica e di struggimenti vocali, di colori accostati e panni svolazzanti,
di smorfie e di sudori, di pianoforte e di taniche piene d'acqua, di tutto,
tutto, tutto ciò che può andare in scena, essere recitato,
gestito, mostrato. Del teatro.
Il teatro con le
scenografie, il movimento, le trovate, gli attori (plurale!), il testo,
la storia. Il teatro teatro, con la regia regia, le prove prove (quante,
dio solo sa quante), la bravura, il talento, la scuola, il lavoro.
Probabilmente anche
i soldi. Sì sicuramente anche i soldi della produzione e non solo
adesso, con la Biennale. I soldi dello stato, la cultura di stato, alla
faccia di tutti i mercati della cultura e dell'arte.
C'è solo il
Berliner che possa competere nel mio album di ricordi, il Cerchio di
gesso, forse del 1972. E come dedizione al lavoro teatrale gli andini
di Brie e i ballerini del Tanztheater di Dresda. Ma niente eguaglia questo
compendio lituano.
Nei primi due tempi
di Progetto (3 ore circa) non si capiscono neppure i nomi di Otello
e Desdemona: la lingua mi è del tutto incomprensibile. Ciò
nonostante l'attenzione è completamente catturata, ciò che
la spiega meglio è non sto perdendo nemmeno una parola.
Paradosso.
Prima meraviglia:
quando Otello lascia il pianoforte, che stava suonando, per venire alla
ribalta con la sua spada e il suo pastrano da Bounty, lo strumento
continua imperterrito a mandare musica e ci accorgiamo (solo allora) che
c'è un uomo accovacciato sotto di esso le cui mani (anche prima)
lavoravano sulla tastiera.
Seconda meraviglia
Desdemona con la porta bianca sul dorso. Figura esilissima in un raso verde
maggiolino cangiante al nero (Romeo Gigli è nativo di Vilnius?),
recita con il volto e le mani, trattenendola in bilico (dio solo sa come)
finché arriva Otello, bianco ma con le mani nere di fuliggine. Il
gioco che i due fanno con le loro mani sulla porta è un capolavoro
di agilità fisica e di metafora: lei (ora dietro la porta bianca)
si aggrappa tutto intorno, mostrando solo le dita, che lui si accanisce
a picchiare (davanti alla porta) per staccarla: ogni loro lotta lascia
un segno di fuliggine sul perimetro della porta che, alla fine, ha un disegno
regolare e angoscioso di mani tutt'attorno. Allora Desdemona torna davanti
e Otello la colpisce, attraverso la porta (da dietro) con uno straccio
bagnato, che procura un rumore terribilmente violento, scuote la povera
Desdemona con la sua porta-guscio, schizza sulla scena ondate di gocce
che le luci rendono perfette, prima che si abbattano a terra.
Benché non
si capisca una parola, ogni espressione degli attori cattura completamente:
è l'esatto parallelo dei primi piani del cinema (povero?) dei Balcani.
Però qui parlano
e agiscono anche i corpi: ogni parte di essi, come i pugni di Jago che
si stringono al punto di sudare, anche il dito di Desdemona con cui Otello
scrive e le sue spalle ad angolo retto per portare un vassoio con manici.
Terza meraviglia:
tutto il corpo di Otello, sospeso dal pugno stretto attorno alla spada,
piantata sul palco, che si flette sotto lo sforzo dell'uomo, quel tanto
giusto (QB quanto basta) per comunicarci lo sforzo e l'equilibrio, la tensione
e la tenuta, il pathos e la tecnica.
Meraviglie incessanti.
I corpi degli attori quando saltano sulle amache dello sfondo; color galletta
d'avena, stagliato sullo scuro del teatro e delle burrasche, vele raccolte
e letti, tesi da cordami che solcano il nero come un ricamo non lezioso,
morbidi quanto basta per evocare dei giacigli e delle alcove, rudi quanto
basta per essere metafora del viaggio per mare. Cadono all'improvviso,
con tempismo geometrico e, di quando in quando, qualcuno le usa, ci salta
sopra con una sforbiciata di qualche metro degna della miglior scuola sovietica
o DDR degli atleti olimpici, sparisce accolto nel telame, getta a terra
vestiti, lascia vedere solo il capo. Altre volte qualche donna, in abito
lungo colore del vino, li drappeggia facendone dei fregi palladiani che
le luci tolgono dal mondo delle stoffe per metterli in quelli dei marmi
o delle facciate.
Meraviglie minute.
Gli attori hanno fatto una lunga scuola per bere: Otello beve come i cani,
da enormi bacili di legno russo (ora sono pieni d'acqua e ce ne accorgiamo
dalla luce che vi riverbera, ora sono pieni di fuoco acceso, ora sono morte
cose rovesciate) tenendosi in bilico sulla spada e fa un rumore da bestia,
perfetto. Jago beve dal boccale di latta, quello del chai nelle motonavi
del Bosforo, e spruzza la schiuma delicatamente, come bevesse birra, invece
è acqua.
Meraviglie travolgenti.
La tempesta viene simulata attraverso un telo, meglio un sacco, con un
lato molto lungo (tiene il palcoscenico da destra a sinistra) e un lato
più corto (tiene un quinto del palcoscenico da avanti indietro),
cucito su tre lati. Gli attori lo tengono per i lati corti e corrono, facendo
gonfiare questo sacco che ha un lato lungo aperto, su e giù per
la scena accompagnati da suoni di mare. Dentro questa elementare tela si
creano, perfetti, il senso del gonfio, del rotolante, del violento, della
balia. Uomini ( e donne) e vele si muovono al ritmo delle onde. Trascinano
lo spettatore in scena e la scena è la tolda del veliero in tempesta.
Penso ai bambini
che preferiscono giocare con uno scatolone di lavatrice vuoto piuttosto
che con sofisticati bambolotti o sapientini meliconi. Penso alla
potenza dei disegni di bambino che Paul Klee ha vanamente ricercato da
adulto.
Qualche arguto spettatore,
molto adatto alle prime della Biennale, spiega al vicino (nella parte del
meno arguto) che il filo conduttore scelto da Nekrosius è l'acqua.
Infatti proprio in fondo al palcoscenico ci sono, perennemente, per quasi
4 ore di Progetto, 4 persone sedute che scuotono, a cadenza regolare
e monotona, delle taniche da benzina, legate da corde blu come fossero
pacchi regalo, e riproducono in modo ineccepibile la risacca di una spiaggia.
Il suono simulato più perfetto che io abbia mai sentito: ma a Nekrosius
non basta una perfezione, gli piacciono multiple (come l'anima che ne deve
essere colpita) e quindi te lo fa vedere il suono, nelle taniche impacchettate,
con i loro disciplinati e metodici agitatori, il viso compreso nella parte
di chi sta muovendo un mare.
Ci sono ciotole di
legno, a forma di piccole slitte, ora rovesciate sul pavimento, funzionano
da sassi carsici (come se le avesse posate là Music), gli attori
ci passano sopra agilissimi. Ora vengono voltate, rapidamente, sapientemente
in un muoversi da operai-ballerini.
Poi Otello, il comandante,
le raccoglie tutte attraverso delle funi, corde di nave, che le legano
(finora non ce n'eravamo accorti), e le trascina via dalla scena, tutte
e sono tante, facendo una reale fatica improba (perché pesano le
ciotole di legno). L'immagine del trascinatore di quelle che – ora – sono
piccole imbarcazioni rudimentali, canoe tozze, piroghe da laguna, è
nuovamente bellissima: una icona struggente del guidatore di navi, più
che un ammiraglio di flotta un profeta biblico con il grande fardello del
suo popolo nautico.
Lo sa Nekrosius che
Otello è, adesso, una figura di Caravaggio, con le stesse ombre
e la forza contadina sublimata dal gesto eroico?
Come sempre, negli
artisti e nei talenti, non serve sapere precisamente perché a loro
basta sentire.
All'inizio del secondo
atto c'è una tavola in primo piano con sopra una montagnola di sabbia,
grigia. I due fratelli gemelli, vestiti da bottegai inglesi (panciotto
su camicia bianca, traversa sui fianchi, papillon), fingono una conversazione
stupita mentre fanno elementari castelli di sabbia usando bicchierini di
plastica come formine. A loro si unisce la donna bionda (lunghissimi capelli
lisci e dorati, carnagione bianchissima da nordica, abito cremisi) che
compatta la sabbia con le mani, la disordina, la ammucchia finché,
ad un certo punto, trova il fazzoletto di Desdemona.
L'immagine è,
ovviamente, perfetta e mi ricorda il film su santa Teresa di non so più
chi: una delle fotografie più pulite e penetranti del cinema a colori.
Sabbia, mare, spiaggia.
E Otello, sulla battigia
viene travolto dalla risacca: si voltola come accade quando l'onda si abbatte,
una due tante volte quante sono necessarie per prenderti in questo ritmo.
Che è violento, che è lotta, poi abbandono, stordimento,
resa. Un gesto in acqua fatto, qui, sull'asciutto dell'impiantito di scena:
come i thanztheater che nuotano o simulano la partita di tennis.
Ancora l'acqua, nella
scena della toeletta.
Da un lato della
scena (tutto in secondo piano mentre davanti si svolge un dialogo) due
maschi, in tenuta da marinai semplici, torso e polpacci nudi, piedi in
due tinozze. Da un altro lato (a sinistra per chi guarda) un paravento
di legno copre fino alla cintura tre donne che si occupano dei loro capelli,
le spalle nude, senza mai farci vedere la faccia o il petto. Lo straordinario
della scena sta nei loro movimenti: i maschi ripetono ritmicamente il gesto
di raccogliere l'acqua dalle loro tinozze, con un vaso da pianta in coccio,
lo elevano oltre il capo e lasciano che dal foro sul fondo il getto riporti
l'acqua da dove è stata presa. Lo fanno a tempo sfalsato: quando
il getto di uno finisce, inizia quello dell'altro: il rumore e l'immagine
della 'doccia' è così perpetuo. I due si comportano come
se fossero sotto questo getto che invece non li sfiora neppure, scorre
su un piano (immaginario) di fronte a loro (la solita suggestione multistrato).
Allo stesso modo
le donne non sono affatto bagnate ma è chiaro che si stanno lavando
i capelli per i suoni che emettono (piacere sotto l'acqua) e per un ritmico
scuotimento di chiome (tutte le hanno molto molto lunghe e folte e mosse)
che le mani scorrono, e aprono, e lisciano emettendo una sorta di polvere
di talco, impalpabile e biancastra che forse simula la nebulizzazione dell'acqua,
forse la cipria sicuramente qualcosa di intimamente femminile e cosmetico,
un'aura da toeletta.
Lo sa Nekrosius che
Virginia Woolf descrivendo tre signorine, pettinate e strofinate dopo il
bagno, ci dice che ronfavano di piacere e che le loro chiome parevano
tre alberi al vento?
Anche se non ha mai
letto Le onde è esattamente questo che sta mettendo in scena.
Assonanza di genio.
Questo progetto è
così, potrebbe continuare per sempre, in una sequenza di creazioni
concatenate, curatissime, suggestive che non ti lasciano mai, ti tengono
ancorato alla scena, allo svolgersi delle azioni.
Ecco cosa fa Nekrosius,
usando i suoi attori, fa di te quello che vuole.
Ti prende dal primo
istante e non ti abbandona, non ti posa mai contro lo schienale della tua
poltrona, semmai ti tira sempre più forte verso il palcoscenico,
ti chiama ad entrarci. Anche se non fa, per niente, un teatro in cui il
pubblico deve essere coinvolto.
Paradosso totale:
raramente sono stata così coinvolta da qualcuno che mi parlava in
una lingua che non capisco affatto.
C'è solo una
parola, generale?, che Jago ripete ossessivamente nel suo dialogo
con Otello, che viene detta, una dieci mille volte (QB), con tale implorazione
e disperazione nella voce (dieci, cento, mille modi di implorare e disperarsi)
da rimanermi impressa come unico fonema di tutto il testo shakespeariano.
Il suono sicuramente finisce in ja, generalja?, e comincia come
il nome di una donna anseatica o finnica, tipo gwenewal, con tante
doppie vu: l'effetto è qualcosa di strascicato, dolciastro, che
s'appiccica attorno. Forse è la lingua russa, baltica, lituana ad
avere questa struttura, questa proprietà fonetica.
E' la scena in cui
Jago fa sudare i pugni (semplicemente stringendoli) e parla così
rapidamente e nevroticamente, accompagnando le parole con gli occhi da
folle e le rughe della fronte, da rendere vane molte classi di Actor
Studio e annate intere di aspiranti attori e pretese di espressività
di quasi tutti i piccoli emuli sparsi per il mondo. Lo dice una che per
il pomo d'adamo e la vena sulla tempia di Paolini nel Vajont ha
tenuto il fiato e pensato di essere davanti ad un grande.
Forse non si dovrebbe
vedere questo Progetto, così si potrebbe continuare ad andare
a teatro anche in Italia, provare le nostre domestiche emozioni, amare
i nostri attori.
|
E' andata in scena
a Milano (Teatro di Porta Romana, per la rassegna Suoni e visioni") la
nuova opera di Filippo Del Corno, Orfeo a fumetti. Qui di seguito
l'intervista con l'autore realizzata per il programma di sala del Teatro
Regio di Torino, dove l'opera è stata replicata: un ottimo spunto
per cominciare a riflettere sulle possibili forme del teatro musicale.
Questa è
una domanda un po' provocatoria: perché hai scelto proprio Omar
Pedrini? Per l'identità tra finzione e realtà con Orfi? Per
i suoi mezzi vocali e il carisma in scena? Oppure è una strategia
di marketing per conquistare il pubblico rock?
In Poema a fumetti
Buzzati racconta la storia di Orfeo ambientandola ai giorni nostri: Orfeo
diventa così Orfi, un cantante rock di grande successo. Mi è
sembrato molto importante mantenere questa intuizione di Buzzati: il potere
magico e incantatorio del cantore mitico si trasfigura nel carisma quasi
sciamanico di una rock-star. Così ho provato a coinvolgere Omar
Pedrini, leader dei Timoria, ossia del gruppo più interessante e
innovativo della scena del rock italiano. Ma soprattutto quando ho visto
un concerto dei Timoria dal vivo, la straordinaria potenza della presenza
scenica di Omar mi ha convinto definitivamente: Orfi non poteva che essere
lui. D'altra parte nel mio lavoro e nell'esperienza di Sentieri selvaggi
abbiamo sempre cercato di lavorare con artisti provenienti da altri campi
e linguaggi della musica di oggi. Nel confronto tra stili, idee e pratiche
nascono sempre tantissimi nuovi stimoli creativi, e spesso questi stimoli
passano anche al pubblico che ascolta, che conosce e sperimenta insieme
a noi nuove possibilità espressive. La contaminazione, anziché
continuare a parlarne, va fatta, purché dietro non vi sia alcuna
strategia di marketing. La contaminazione deve essere un tentativo sempre
a un altissimo grado di sperimentazione, con il rischio di fallimento sempre
in agguato, e non una scappatoia per cercare di avere un po' di pubblico
in più.
Hai cucito la parte
di Orfi su misura per lui?
Omar impersonerà
Orfi nei tre momenti della storia in cui Orfi imbraccia la chitarra e canta
canzoni. Una delle canzoni, quella che Orfi canta per ottenere di incontare
Eura, sarà proprio una canzone dei Timoria, in una nuova versione
che ho realizzato apposta per l'opera. Sulle altre canzoni invece vorrei
mantenere il segreto; soprattutto la prima sarà, spero, una sorpresa.
Comunque non posso pensare a Orfeo a fumetti senza Pedrini, anche se tecnicamente
si può operare sulle canzoni in modo che siano cantate da un altro.
A Buzzati è
sempre piaciuta la musica e ai musicisti è sempre piaciuto il suo
modo di scrivere? Come ti è venuto in mente di musicare il Poema
a fumetti?
Ho sempre letto Buzzati
con grande passione, e lo ritengo uno dei grandissimi scrittori del nostro
secolo. In ogni suo libro si trovano suggestioni musicali di notevole interesse;
per esempio ne Il grande ritratto il super-calcolatore creato a immagine
e somiglianza di una donna si esprime attraverso suoni di vera e propria
musica elettronica. Ma sono tantissimi i casi che si potrebbero citare;
sicuramente Buzzati era un autore che aveva uno spiccato senso musicale
e un orecchio raffinatissimo. Non è quindi un caso che tanti musicisti
a lui contemporanei lo scegliessero come librettista e collaboratore. L'idea
di fare qualcosa su Poema a fumetti la coltivo da diversi anni;
credo che per un musicista fare "qualcosa" su Orfeo sia un richiamo a cui
è impossibile sottrarsi... per me Orfeo è diventato con un
processo naturale e quasi inspiegabile Orfi, e Euridice nella mia immaginazione
ha il bellissimo volto di Eura. Forse a conquistarmi sono state proprio
le immagini di Buzzati, la loro grande carica evocativa, la loro capacità
di raccontare il mistero della morte e dell'amore con tratti invece semplici
e quotidiani, così come Buzzati sapeva fare benissimo con la scrittura.
Poi c'è un particolare, alla fine, che ancora una volta scarta rispetto
alla storia più tradizionale di Orfeo: anche se Orfi perde Eura
per sempre, qualcosa di lei gli rimane, e gli rimarrà per sempre.
Ma anche qui non voglio svelare nulla di più.
A Settembre musica,
un paio d'anni fa, si è vista una delle prime opere a fumetti della
storia (forse la prima in assoluto), The Carbon Copy Building, del
trio Lang-Gordon-Wolf. E' lì che hai capito che il matrimonio fumetti-opera
si poteva celebrare?
Veramente è
una storia lunga da raccontare: ho sempre progettato di fare un'opera su
Poema a fumetti, e ovviamente doveva essere un'opera a fumetti. Nell'aprile
del 1998, David Lang era in Europa e passò a Milano per lavorare
un po' con noi di Sentieri selvaggi che stavamo preparando la prima di
un suo pezzo. Una sera, mentre stiamo andando in macchina a Lugano per
sentire un concerto, parliamo dei nostri progetti e io racconto "…il mio
sogno è riuscire a fare un'opera a fumetti" e lui mi risponde "…ah,
io sto proprio lavorando a un'opera a fumetti". Ho sbandato rischiando
di finire fuori strada per la sorpresa, e poi ci siamo fatti una grande
risata. Questo per chiarire che nessuno ha rubato l'idea all'altro ...
In realtà quando poi ho visto la loro opera, tra l'altro bellissima,
mi sono molto tranquillizzato. Tra la loro e la mia operazione non c'è
quasi nulla in comune. The Carbon Copy Building era un progetto
tecnologicamente molto complesso, dove il fumetto, creato apposta, costruiva
una scenografia dove agivano personaggi in carne e ossa. Orfeo a fumetti
è molto più semplice; sono direttamente le tavole di Buzzati
a raccontare la storia, e l'unica personificazione tra interprete e personaggio
sul palcoscenico sarà quella Orfi-Omar.
Come hai lavorato
con gli altri autori del progetto?
Ho lanciato dei fili
che ora inizio a raccogliere e che si concretizzeranno nello spettacolo.
Con Manuel Cicchetti e lo Studio DueEffe ho già lavorato un paio
di anni fa a Montepulciano e so che realizzeranno con grande inventiva
i suggerimenti che gli ho proposto. La parte musicale vedrà impegnati
Boccadoro, Sentieri selvaggi e tre cantanti che hanno già collaborato
con noi in più occasioni. In pratica si è creata una sorta
di repubblica ideale, un gruppo di lavoro dove ciascuno porta la propria
autonoma competenza e creatività a formare un progetto comune. E'
il grande vantaggio di un teatro musicale così agile: poter scegliere
tutti i compagni di strada, uno a uno. Con Pedrini l'avventura contiene
un po' più di mistero; di fatto è la prima volta che lavoriamo
insieme, e con un musicista come lui so già che il momento più
ricco sarà nelle prove, in quello scambio molto pratico di conoscenze
e esperienze che si ha quando ci si mette al lavoro con voci e strumenti.
Raccontaci se un
artista trentenne come te che decide di vivere scrivendo musica si sente
pienamente integrato nella societa in cui vive, se si sente un emarginato
di lusso, oppure se deve accettare troppi compromessi per continuare a
lavorare in piena libertà...
Non sono un artista;
al massimo un artigiano. Gli oggetti che creo, siano lavori teatrali o
brani strumentali, non fanno parte di un mercato commercialmente sviluppato
e non hanno una diffusione planetaria. Ma hanno un vantaggio: chi li desidera
ascoltare, poi li apprezza (o anche li disprezza) veramente, con una propria
autonoma scelta di gusto. Sono oggetti che non vengono consumati, ma ascoltati
e valutati da un pubblico che sceglie di impegnare il proprio tempo per
confrontarsi con un linguaggio magari non immediato, ma che forse li potrà
affascinare o emozionare. Non c'è nessuna dinamica commerciale,
o diktat estetico, o imposizione editoriale, che sovrintende alle mie scelte.
Così devo dire che sono abbastanza soddisfatto della mia situazione:
non sono famoso, non sono ricco, non sono potente: sono libero.
|
Ciao Oliviero,
Andrea mi ha riferito
della vostra telefonata a proposito di Faccia di cuoio. Mi piacerebbe conoscere più
nel dettaglio cosa ne pensi.
Per noi è
stata un'esperienza molto positiva fino al momento di entrare al Portaromana.
Siamo entrati in teatro tre giorni prima del debutto e da lì in
poi la situazione ci è sfuggita di mano per grossi problemi tecnici
che non ti sto a dire, ma soprattutto ai miei occhi lo spettacolo ha cambiato
sapore. E' già la seconda volta che mi capita (lo stesso era stato
con Hamletmaschine) e credo proprio che le dimensioni e l'"aria"
del Portaromana poco si addicano al nostro lavoro. La replica che hai visto
tu era già molto più soddisfacente, giorno per giorno abbiamo
rimessa mani a tutto.
E' un onore per noi
essere nel cartellone di Teatridithalia, ma sono sicura che il nostro lavoro
in luoghi così è penalizzato, a meno che non nasca
lì, ma questo non sarà mai possibile.
Dobbiamo riflettere
molto bene per scelte future. Io amo spazi dove il rapporto con il pubblico
è più ravvicinato, dove tutto sia più gestibile, visto
che non abbiamo una squadra di tecnici a disposizione.
Andrea mi ha riferito
i tuoi dubbi rispetto all'età degli attori. E' un dubbio che all'inizio
ho avuto anch'io, ma rileggendo il testo mi è poi sembrato poco
probabile che un ventenne possa fare ragionamenti sulla vita come quelli
che fa "lui", discorsi che presumono un'esperienza di vita molto profonda
e a tanti livelli, una maturità. Anche i conflitti di coppia su
problemi economici e altro sono tipici di persone non giovanissime. Mi
sembra interessante, invece, mettere in scena persone adulte che si giocano
tutto in modo irrazionale, perchè non sono ancora riusciti a dare
valore e solidità alla propria esistenza, per assaporare un momento
di gloria, consci dell'inutilità delle proprie convinzioni al cospetto
degli altri.
In fondo è
la condizione di tanti miei "nostri" coetanei, che non accettano certe
regole, che sanno di avere una testa che funziona, ma che subiscono molte
frustrazioni, che non hanno molto da perdere, che hanno voglia di brividi
veri. Tanta pigrizia, ma anche tanta rabbia, poi a un certo punto, qualcosa
esplode.
Tieni anche conto
che i testi interessanti (e soprattutto rappresentabili per noi per i diritti)
che ci passano fra le mani sono pochissimi: quando abbiamo letto questo
non avevamo tante alternative... in ogni caso è stata una scelta
convinta.
Comunque se hai qualcosa
da suggerirci, volentieri, non aspettiamo altro!
Mi hanno detto che
le mail devono essere brevi, questa non lo è. Chiudo qui.
Grazie per interessarti
sempre a Extramondo.
Michela
cara michela, cerco
di riassumere.
il testo mi è
sembrato curioso e interessante, e mi sembra anche che il lavoro di regia
che hai fatto fosse funzionale ed efficace e valorizzasse il testo.
Avevo invece delle
perplessità perché mi sembra che dua attori (o meglio due
persone) come Andrea e Bruna Rossi abbiano un'età tale per cui in
quei ruoli non sono naturalmente credibili, e dunque devono fare un gran
lavoro (che svolgono con grande impegno) per "adolescentizzarsi" - ma lasciando
sempre qualcosa d'irrisolto.
E' un problema di
realismo, o meglio di credibilità. Non sarò certo io a dire
che Amleto dev'essere un pallido spilungone in calzamaglia nera, o Otello
un negro. Ma i protagonisti di Faccia di cuoio sono con tutta evidenza
due ragazzi inesperti della vita e pieni di slanci. Chi abbia vissuto un
po', o è completamente fuori di melone, oppure ha imparato (magari
a sue spese) che su certe cose è meglio non scherzare. Di più:
l'intera logica del testo mi sembra basata sul fatto di raccontare una storia apparentemente
assurda e vagamente surreale, per poi dire alla fine: "Guardate, è
successo davvero". Insomma, l'effetto sorpresa e l'efficacia del testo
(il pugno nello stomaco) dipendono proprio dalla credibilità del
tutto.
Per calarsi nei panni
dei due ragazzi, Andrea e Bruna devono invece fare una serie di deformazioni
vagamente grottesche. La camminata tutta sghemba di Bruna, che hanno solo
certe ragazzine che cercano di fare le timide e qui diventa un tic distorto
è la più clamorosa: è una bella soluzione registica
e attorale, ma è una caricatura. Anche i "discorsi" dei ragazzi:
se li fanno due adolescenti, a caldo, come dettati da circostanze che li
portano a esseer più saggi, è un conto; se li fanno due adulti
per i quali rappresentano il distillato di decenni d'esperienza, è
un altro (e non sono i monologhi di Amleto).
Ecco questa è
la mia perplessità, per certi analoga a quella che mi ha suscitato
Arturo Cirillo che sceglie di fare La notte è madre del giorno
interpretando un adolescente che dovrebbe avere la metà dei
suoi anni (e che anche lui si sente costretto a fare "qualcosa di fisico"
e bello - ma che in qualche modo porta
la pièce su un terreno che non è il suo).
Dopo di che, sia
Krassner sia Norèn hanno scritto testi in apparenza realistici (uno
ispirato a un fatto di cronaca, l'altro alle proprie vicende familiari)
che poi raccontano tutt'altro. Ma se questa forzatura del realismo è
il dato di partenza, credo che poi l'impatto dei testi (di testi peraltro poco conosciuti
in Italia) rischi di perdersi.
Un altro problema
di cui abbiamo parlato con Andrea riguarda i suoi possibili ruoli. Per
certi aspetti è un attore anomalo: ha una tecnica costruita con
l'energia, ed è nato come "monologante". Credo che non sia facile
stargli accanto in scena, è necessario costruire un equilibrio e
una fiducia reciproca, e in questo caso ci siete riusciti. Mi sembra la
strada giusta (dopo gli squilibri di Hamletmaschine, quand'era circondato
dagli allievi della vostra scuola).
Il problema, lo dici
anche tu, è il repertorio, e non è di facile soluzione (anche
pensando al fatto che non vi potete permettere grandi compagnie). Faccia
di cuoio è certo un testo interessante - e non ce ne sono molti
di quel livello.
Infine, il teatro
di Porta Romana. Non credo sia un vero problema (al di là dei tempi
di prova): quando ho visto lo spettacolo (all'ultima replica, è
vero) mi sembrava ormai messo a punto, con una serie di soluzioni tecniche
interessanti (e non semplicissime: il filmato, le luci, eccetera). Certo
che nell'intimità
di uno spazio più raccolto certe cose hanno maggior impatto - o
un impatto diverso. Ma insomma, Faccia di cuoio sul palcoscenico
regge più che bene.
Cia-o.
|