(tratto dal libro di Carla Benedetti, Il tradimento dei critici, Bollati Boringhieri, che uscirà in libreria il 21 giugno 2002).
Il 3 novembre 2000 Mario Martone si dimise dalla direzione del Teatro di Roma. Lo fece con una lettera pubblica al sindaco Rutelli, che uscì sul quotidiano "la Repubblica". Spiegando le ragioni che l'avevano indotto a dimettersi, Martone rendeva di dominio pubblico ciò che forse altri avrebbero preferito lasciare seminascosto nelle pieghe della gestione interna, "avvolto dalla nebbia dei verbali segreti e delle necessità di facciata". Subito si aprì una polemica che tenne per un paio di mesi la cronaca. Conservo in una cartellina diversi ritagli di giornale (con qualche annotazione mia a margine, reazioni del momento). Forse non sono completi, però ce n'è abbastanza per dar forma a una storia: una di quelle storie che molti avranno l'impressione di conoscere già. Perciò il suo titolo è questo: "il potere che ognuno conosce e nessuno racconta".
La verità sulle cifre
21 aprile 2001. Nella cronaca romana di "Repubblica", un trafiletto non firmato, privo di occhielli e di enfasi, riporta questa notizia clamorosa:
Teatro di Roma. Niente deficit in bilancio.
Per essere sicura di aver capito bene, rileggo una riga dell'articolo. Sì, si tratta proprio del "bilancio consuntivo del Teatro di Roma relativo alla gestione di Mario Martone compresa tra il 1 settembre 1999 e il 31 dicembre 2000" e alla stagione da lui porgrammata.
Quindi non era vero nulla di quel che fu detto pochi mesi fa sulle perdite disastrose provocate dall'ex direttore dimissionario! Quindi lasciò credere il falso Walter Pedullà, presidente del Consiglio d'amministrazione, quando dichiarò ai giornali un rosso in bilancio di 350 milioni. C'è poco da aggiungere. Se ci fosse un processo, quella sarebbe la prova definitiva che scagiona l'imputato e incolpa gli accusatori per falsa testimonianza.
E' stato questo trafiletto, uscito molti mesi dopo le polemiche, a mettermi voglia di raccontare di nuovo dall'inizio l'intera vicenda.
3 novembre 2000. "la Repubblica". Lettera di dimissioni di Martone.
Nella lettera al Sindaco, il direttore del Teatro di Roma spiega innanzitutto in quali condizioni si è trovato a lavorare a partire dalla primavera. Aveva dovuto presentare ben 14 volte il bilancio al Consiglio d'amministrazione, e l'approvazione, che normalmente è a maggio, era arrivata ad agosto - quando la stagione cominciava all'inizio di settembre. Una "guerra logorante", non motivata da ragioni sostanziali, visti i dati positivi della sua direzione: in meno di due anni - dichiarava il direttore - il pubblico era aumentato del 56 per cento; era nata la seconda sede dello stabile, il Teatro India; si era realizzato, con la rassegna "Per antiche vie", uno dei più grandi progetti di decentramento del teatro italiano; la programmazione era stata ininterrotta, dodici mesi all'anno, raggiungendo in certi casi risultati clamorosi (come il tutto esaurito per "Genesi" della Societas Raffaello Sanzio); si era sorretto la crescita di giovani artisti, aperto al cinema, alla musica ecc.
Questa quindi non fu solo una lettera di dimissioni, fu anche un atto di guerra contro chi non avrebbe avuto interesse a portare allo scoperto tutto l'operato "interno", visibilmente immotivato: cioè probabilmente motivato da ragioni non dicibili. E fu anche un atto d'accusa al sistema amministrativo del teatro, che Martone definiva "il male oscuro del Teatro di Roma", un male di lunga data contro cui era andato a urtare anche il precedente direttore Luca Ronconi: e cioè lo scontro di poteri tra l'apparato amministrativo e il settore artistico, a danno continuo di quest'ultimo. Per correggerne la causa, e cioè la concentrazione verticistica di ogni potere operativo nelle mani della macchina amministrativa (cosa che continuamente dissemina il percorso del direttore di "ostacoli, trappole e mine vaganti"), Martone aveva proposto di introdurre elementi di orizzontalità e di collegialità nel progetto di ristrutturazione che si stava allora discutendo (la cosiddetta "pianta organica del teatro). Il Consiglio d'amministrazione aveva invece varato, con un solo voto contrario, una pianta organica che ribadiva quella gestione verticistica.
Essendo quella lettera pubblica un atto di guerra, la controffensiva cominciò immediatamente, fin dal giorno successivo.
4 novembre 2000. Walter Pedullà, presidente del Consiglio d'amministrazione del teatro di Roma, rilascia questa dichiarazione alla giornalista Emilia Costantini del "Corriere della sera":
La verità è che Martone se ne va perché gli abbiamo più volte chiesto di correre ai ripari in una situazione che stava precipitando sul piano del bilancio. Negli ultimi mesi è stato un disastro.
E alla giornalista Rita Sala del "Messaggero":
Accusiamo una pesante, preoccupante flessione delle presenze e degli incassi. Siamo già a circa 350 milioni in meno rispetto alle pur non ottimistiche previsioni.
Le cifre fornite dal presidente rimbalzarono poi nei titoli dei giornali, riprese da alcuni giornalisti, donne e uomini di teatro, che amplificarono l'annuncio del disastro economico. Per Valeria Moriconi, intervistata da Valerio Cappelli sul "Corriere" del 4 novembre, il "ragazzo" Mario Martone non aveva l'esperienza sufficiente per dirigere uno Stabile. Le faceva eco il suo intervistatore: "da Ronconi a Martone: è come passare da Schumacher a un pilota di go-kart? ".
Articoli analoghi uscirono sia su giornali "di destra" come "Il Tempo", "il Giornale" e "Panorama", sia su un settimanale di "sinistra" come '"L'Espresso", che il 7 dicembre pubblicò un articolo di Rita Cirio introdotto che ribadiva chiassosamente le "cifre catastrofiche rivelate da Pedullà". La conclusione della giornalista era che: vista la "gestione così negativa" di Martone, visto che padre Ubu, una volta "messo il sedere sul trono" ce lo tiene ben inchiodato, bisogna procedere d'urgenza al commissariamento del teatro. L'occhiello recitava: "Non ha fatto quadrare i conti? Calano gli abbonati? Pazienza. Per l'intellighentia l'ex direttore è un simbolo. Ma di che cosa?".
Invece non era vero niente. Martone i conti li aveva fatti quadrare: non aveva fatto calare gli abbonamenti, lasciava un teatro senza deficit e con una sede in più.
C'era poi nell'articolo della Cirio una frase che sul momento non capii: diceva che quelle erano "catastrofi prevedibili", che il suo giornale aveva "denunciato fin dall'inizio della gestione" di Martone. Strano! Come avrà fatto l'"Espresso" a prevedere fin dall'inizio quell'esito catastrofico, per di più falso? Ormai mi stavo appassionando. Cercai l'articolo. Lo trovai. Era davvero strano. La prima offensiva contro Martone l'aveva sferrata proprio l'"Espresso" un anno prima, cioè molto in anticipo su questa. Dunque torniamo indietro di un anno.
30 settembre 1999. Si è appena inaugurato il Teatro India, Martone è in carica da gennaio, in primavera ha presentato il cartellone della nuova stagione che ora è appena agli inizi. Ed ecco che l'"Espresso" pubblica un "Processo al direttore del Teatro di Roma". Quattro pagine becere di insinuazioni, pettegolezzi e bugie. Il primo articolo è di Alberto Dentice intitolato "Molto Martone per nulla" in cui si fa finta di svelare i segreti del successo di Martone: i favori dei politici Bassolino e Borgna (cioè di quelli che ne hanno caldeggiato la nomina alla luce del sole), l'aiuto del "geniale" Lucio Amelio (cioè il gallerista che aveva promosso Falso Movimento), e la furbizia di essersi fuso con altre compagnie del teatro di ricerca per moltiplicare "sovvenzioni, visibilità e capacità produttiva" (cioè la creazione dei Teatri Uniti). Riporta poi, senza dirne la fonte, e soprattutto senza smentirli, i pettegolezzi sulla "logica da clan" che guiderebbe le scelte di Martone. Vado a controllare il cartellone 1999/2000: in mezzo a un cartellone di ampiezza europea come non se ne erano mai visti (Pina Bausch, Nekrosius, Dodin, Odin Teatret, Aerthur Penn, Ostermeier, Schlomer, Sellars, Carmelo Bene, la Societas Raffaello Sanzio...) c'è in effetti anche uno spettacolo di Toni Servillo, napoletano!
Il secondo articolo è di Rita Cirio, intitolato "C'era proprio bisogno dell'India?", che va direttamente alle "cifre", secondo lei eccessive, spese per la "cantina" dell'India - cioè di quel teatro che oggi molti (compreso Albertazzi) lodano come il "gioiello" della gestione Martone. Sapevano gli spettatori dell'India quanto "il loro sedere costa a chi paga le tasse"? 11 miliardi! "Una 'cantina' da 11 miliardi". "Centossessanta posti a fronte di 11 miliardi". Esatto, la cifra era quella, o poco meno. Ma Rita Cirio evitava di dire che 11 miliardi lordi per l'acquisto e la ristrutturazione di un nuovo teatro, considerato che uno spettacolo lirico o uno spettacolo di Ronconi può costa anche più di cinque miliardi, era non solo non eccessivo ma addirittura un affare per il Comune di Roma e per la collettività.
Ma la bugia più sconcertante che si legge in quelle pagine dell'"Espresso" è che si fa credere al lettore che Martone sia già "sotto accusa" ("Un anno fa innovatore oggi sotto accusa", si legge nell'occhiello), che il suo operato di direttore sia già al centro di una polemica, quando invece sono i due giornalisti che la stanno costruendo. Scrive ad esempio Dentice: "la prima stagione da direttore di Martone è appena cominciata e già fioccano le polemiche..."; "fa discutere persino la cittadella del teatro da lui fortissimamente voluta..."; "polemiche si addensano come un temporale di fine estate...". E poi, una volta attestata la premessa, ecco la domandina a cui ora lui potrà rispondere: "Ma perché su Mario Martone i giudizi sono così impietosi?". Sono andata a controllare altri giornali del periodo. Da quello che ho potuto leggere nessuna polemica era in corso, nessuna accusa a Martone, anzi sui principali giornali, anche su quelli di "destra" come "Il secolo" e "Il Giornale", persino su "L'osservatore romano", fioccavano anzi articoli di attenzione e di curiosità benevola per l'operato del nuovo direttore. Questo di inventare una polemica preeesistente nel momento stesso in cui le si dà inizio è del resto un meccanismo collaudato dei giornali, ma qui viene allo scoperto in tutta la sua nudità becera. La creatura dei due gironalisti dell' "Espresso" continuò a crescere coinvolgendo altre voci, come quella dell'attore Gigi Proietti che intervistato da Rita Cirio sullo stesso settimanale, incominciò la sua serie di sonetti "sulle sorti del teatro di Roma" e sullo spazio India. Uun esempio: "Voi sapete che vor dì? Che li quatrini/ ce li rimedierà l'istituzzione./ Cioè ce li daranno i cittadini./ E in cambio proverano l'emozione / de trovasse in un posto rimediato / dove potranno assiste in libertà/ ai capricci de quarche accurturato").
La "stranezza" di questa campagna dell'"Espresso" viene così registrata dalla "Voce repubblicana" del 13 novembre 1999:
Continua la grottesca polemica dell' 'Espresso' contro il Teatro Stabile di Roma, contro lo spazio India, contro Mario Martone. Ma cosa c'è sotto? Nell'ultimo numero, ben quattro pagine composte da un'intervista di Rita Cirio (avvelenatissima) ad un noto attore. Compresi sonetti dileggiatori. E' palese che la nomina di Martone non è andata giù a qualcuno o forse a molti. E l''Espresso' si è inventato una campagna denigratoria.
In effetti un attacco come questo dell' "Espresso" non era mai stato portato prima da nessun giornale contro nessun direttore di Teatro Stabile (eppure di direttori che abbiano provocato deficit disastrosi, o addirittura rubato, ce ne sono stati molti nei teatri italiani), tanto meno da un giornale "di sinistra" contro un direttore "di sinistra" che non aveva provocato alcun deficit. Quindi anche quest'offensiva insolita, incredibilmente "precoce" e visibilmente immotivata contro Martone sarà da mettere sul conto di altre ragioni indicibili, più antiche di quelle emerse l'anno successivo, e probabilmente di diversa natura, alle quali si sarebbero sommate.
Giornalisti
Leggendo il trafiletto sul bilancio in pareggio al Teatro di Roma e ripensando alle roventi polemiche di appena cinque mesi prima, mi immaginai che quella notizia avrebbe sollevato del clamore. Cercai nelle pagine nazionali per vedere se c'erano commenti. Non ce n'erano. Del resto nessun altro giornale la riportava. Nei giorni successivi la riportarono l'"Unità", il "manifesto" e "Diario", all'interno di articoli che parlavano della presentazione della nuova stagione al teatro di Roma. Non la riportò nessuno di quei giornali, come il "Corriere della sera" o "l'Espresso", che maggiormente avevano affondato sulla storia delle cifre in rosso. In conclusione, la notizia-bomba del bilancio in pareggio fu sganciata in sordina nella sola cronaca locale o teatrale di quattro giornali, ma mai in articoli destinati a "riaprire il caso".
Cinque mesi prima, quando si scatenarono le polemiche, i giornalisti avevano spesso presentato la crisi al Teatro di Roma come una storia pirandelliana di verità speculari e non verificabili, come una "guerra delle cifre" (quelle del direttore, quelle del presidente) in cui era difficilissimo districarsi. Ora che ci si potrebbero districare, ora che avrebbero la verifica, i giornali non ne parlavano. Ora che avrebbero a disposizione lo scioglimento della storia, con colpo di scena finale, nessuno giornalista aveva voglia di raccontarla.
Si dirà che la colpa è della logica perversa della stampa: quando un fatto esce dalla cronaca smette di far notizia. Ma quando è che un fatto smette di far notizia? Quando i giornalisti smettono di parlarne. Il meccanismo perverso della stampa non è poi così cieco come lo si immagina: a decidere dell'attualità di una notizia sono in definitiva coloro che hanno la scelta tra il parlarne e il non parlarne, è la somma delle loro scelte, ognuna delle quali è individuale, fatta da un singolo giornalista, da un singolo direttore. E poi, di un fatto come questo, uscito o no dalla cronaca, un bravo giornalista sarebbe riuscito ugualmente a farne una notizia: bastava richiamare l'antefatto, ricreare il contorno, ricostruire, raccontare, appassionare. Ristabilire una verità che era stata distorta non è del resto uno degli schemi più collaudati del far notizia? Perché in Italia la maggioranza dei giornalisti è così fiacca? Cos'è che blocca il dispiegarsi vitale della loro attività? E' la pigrizia? O sono i mille divieti introiettati, le cento microrelazioni di potere in cui sono imbrigliati?
Del resto, senza neanche aspettare quel bilancio consuntivo, a un giornalista non pigro, o non imbrigliato, sarebbe bastato poco per dirimere da subito la "guerra delle cifre". Gli sarebbe bastato andare a consultare la relazione ufficiale dell'Autorità per i Servizi Pubblici del Comune di Roma, citata da Martone nella lettera di dimissioni, per capire se erano vere le sue cifre o quelle di Pedullà. Gianfranco Capitta, per esempio, in un articolo uscito sul "manifesto" del 22 novembre 2000, sostenne senza esitazioni che quelle cifre erano il "falso più clamoroso". E quanto al calo vertiginoso degli abbonamenti ("da 7000 a 700", come precisava Rita Cirio sull'"Espresso"), che fu un refrain delle imputazioni a Martone, sarebbe bastato ancora meno per capire che era una mezza verità e quindi, nella sostanza, un falso: con una telefonata al botteghino del teatro Argentina chiunque avrebbe potuto apprendere che i tradizionali abbonamenti erano stati affiancati, e in gran parte sostituiti, dalla più agile Carta del Teatro di Roma (innovazione introdotta da Martone). Il teatro quindi aveva sì perso 6.000 abbonamenti, ma a vantaggio di ben 11.000 nuove carte vendute, cifra che i catastrofici detrattori di Martone non mettevano ad arte nel computo.
24 novembre 2001. "Corriere della sera". Un anno dopo le dimissioni di Martone, Emilia Costantini intervista Giorgio Albertazzi, nuovo direttore del Teatro di Roma, nominato dal nuovo sindaco di Roma Walter Veltroni. Domanda: "Come trova in salute lo Stabile capitolino? L'ex direttore Mario Martone ha lavorato bene o male?". Risposta di Albertazzi:
Mi dicono che gli abbonati dello Stabile, arrivati negli anni precedenti a settemila, sono scesi ora a 700. Colpa di Martone? Non lo so. Di certo, se non c'è pubblico non c'è successo degli spettacoli."
Quindi il nuovo direttore non sa che il Teatro di Roma ha venduto 11.000 carte né che il pubblico è aumentato? Non sa che il teatro che si accinge a dirigere ha un bilancio in pareggio? Ma ammettiamo che non lo sappia, perché la giornalista che lo sta intervistando non lo corregge? Perché Emilia Costantini e il suo direttore lasciano passare ancora una volta, a un anno di distanza dall'intervista a Pedullà, delle cifre scorrette?
Politici
23 novembre 2000. Il sindaco Francesco Rutelli, rappresentante del Comune di Roma, cioè del maggiore "azionista" del Teatro, a cui Martone si era rivolto pubblicamente, doveva certamente conoscere i dati del bilancio. Tuttavia non volle agire di conseguenza. Gianfranco Capitta (nello stesso articolo del 22 novembre), lo definì "il silenzio dei colpevoli", e indirizzò l'accusa anche al presidente del consiglio Amato ("se è vero che fu lui a indicare Pedullà come suo successore alla presidenza dello stabile romano") e al ministro Melandri.
Ma Rutelli non ha solo accettato in silenzio le dimissioni del direttore. Ha anche parlato. Il 23 novembre, un giorno prima della riunione dell'Assemblea dei Soci del Teatro di Roma, il sindaco dichiarò ai giornali: "I cittadini ci chiedono conti in regola e la più alta qualità possibile!", lasciando così credere che al Teatro di Roma i conti non fossero in regola. E contribuì anche a diffondere l'idea di un teatro in stato di confusione non più dominabile (una "maionese impazzita", disse).
Si dirà che è arcinoto che per i politici la verità non è rilevante, anzi in certi casi è persino dannosa, perché richiederebbe una trasparenza che non conviene al loro modo di gestire il potere. Ma questo è un enunciato che si può accettare come descrizione statistica, non per calmare l'indignazione caso per caso. Disprezzino pure la verità - ma solo finché riescono a tenercela nascosta!
Pasolini diceva dei democristiani al potere: "è la loro lingua che è la pietra dello scandalo. Infatti ogni volta che aprono bocca, essi, per colpevolezza, per paura, per furberia, non fanno altro che mentire". Bisognerebbe "urlare, a ogni loro parola" e "rintuzzare punto per punto tutte le menzogne che attraverso la stampa e soprattutto la televisione inondano e soffocano quel corpo del resto inerte che è l'Italia". (Lettere luterane, 17 aprile 1975). I democristiani non ci sono più, però il meccanismo è identico.
Quali lotte di potere?
22 novembre 2000. "Repubblica" ospita la lettera aperta di Rosetta Loy al sindaco di Roma in difesa di Martone (ne parlerò tra poco). L'occhiello recita:
Teatro di Roma. Lotte di potere al posto dell'arte
Dunque, quali poteri si sono scontrati al Teatro di Roma? Quali forze, principi o interessi sono entrati in conflitto? Poiché in questa vicenda la cultura e l'arte si incrociano con la politica e con la gestione amministrativa, ci si presentano subito alcuni schemi oppositivi collaudati: la destra contro la sinistra, la maggioranza di governo contro l'opposizione, le ragioni della politica contro quelle della cultura, le ragioni del mercato contro quelle dell'arte, le resistenze della tradizione contro gli impulsi d'avanguardia. Ma nessuno di questi schemi oppositivi riesce a descrivere davvero il conflitto che ha avuto luogo al Teatro di Roma. A partire da ognuno di questi schemi, da solo o combinato con altri, si possono certo costruire delle storie plausibili (che infatti qualcuno ha raccontato), ma al prezzo di semplificazioni e di omissioni. Per esempio:
Storia n. 1. Martone, uomo di sinistra, è boicottato dalla destra. Questa storia, costruita sull'opposizione più ovvia, è palesemente falsa. Infatti quasi nessuno l'ha raccontata. Persino Pedullà nell'intervista al "Corriere" escludeva lo scontro politico ("Su sette consiglieri, cinque appartengono all'area di Martone" - diceva). L'unico che l'ha evocata, sia pure vagamente, è stato Rutelli, quando, in quella stessa dichiarazione alla stampa in cui chiedeva "conti in regola", invitò tutti, genericamente e senza distinzioni, ad abbandonare "le trincee, le barricate politiche e i particolarismi". L'ha poi ripresa la giornalista Rita Sala sul "Messaggero" del 6 dicembre, denunciando "il gioco dei veti incrociati fra le parti politiche, che sussistono ad onta dei reiterati interventi a bandire gli opportunismi di partito del sindaco Rutelli". Ma certamente né lui né la giornalista avrebbero poi saputo spiegare di quali barricate politiche stessero parlando, visto che l'opposizione a Martone non veniva solo dagli avversari del centro-destra, ma anche da Pedullà e altri consiglieri della sua stessa area, creando tra l'altro una spaccatura all'interno dei DS (nelle cui file ci furono molti che continuarono a sostenere Martone, tra i quali l'assessore Gianni Borgna, come risulta da sue dichiarazioni ai giornali).
Quindi lo schema destra/sinistra non spiega quasi niente. Di ciò non è difficile prendere atto, più difficile è procedere: se infatti non è con la destra con quali forze o interessi si è scontrato Martone?
Storia n. 2. Martone alza la qualità degli spettacoli ma fa calare gli incassi, quindi si scontra con le leggi del mercato e con chi le difende. Anche questa storia è decisamente falsa poiché, come si è visto, il bilancio del teatro non era affatto in rosso. Però, a differenza della precedente, questa storia l'hanno raccontata molti. I detrattori di Martone non hanno quasi mai puntato a mettere in discussione la qualità del suo operato artistico; affondavano invece il coltello sul lato dei conti. Calcavano così sull'opposizione arte/economia. Ma la cosa singolare è che questa stesso schema esplicativo è stato usato anche da qualche difensore di Martone, che ha finito così per raccontare una storia analoga, anche se, ovviamente, con segno e con intento opposto.
7 novembre 2000. Sulla prima pagina di "Repubblica" esce un lungo articolo di Michele Serra intitolato "L'arte ai tempi del marketing". Era uno dei primi interventi forti a favore di Martone che compariva in un luogo ben visibile, su di un quotidiano a larga diffusione (nei giorni successivi ne seguirono altri, di cui dirò dopo). Dentro di me ringraziai Serra per averlo scritto. Mi sembrò un articolo giusto, coraggioso, soprattutto per tutte quello che diceva contro lo snobismo cinico della sinistra che ha ormai sposato le ragioni del mercato, buttando a mare ogni interesse per il "rischio artistico". L'articolo cominciava così:
Qualcuno si è meravigliato che allo Stabile di Roma sia stato un consiglio d'amministrazione di sinistra a provocare le dimissioni d'un direttore di sinistra. Pur non conoscendo a fondo i retroscena, mi chiedo perché meravigliarsi. In mano a persone di sinistra è quasi tutto il management culturale italiano (compresi Rai e persino di più Mediaset, retta, come il resto del centro-destra, da un vero e proprio direttorio di ex comunisti). In prevalenza quarantenni di successo che in privato leggono Joyce e alle masse riservano Natalia Estrada e Amadeus. Serenamente orientati a far prevalere sulle ragioni della cultura (che è una cosa) quelle del marketing culturale (che non è la stessa cosa). [...] Persone che non muovono un dito se prima non hanno consultato i tabulati, dove tutto è già scritto, audience, gradimento, percentuali. Per i quali il rischio artistico deve suonare come la sgradevole memoria di aspirazioni giovanili sconfitte. [...] Nati e cresciuti nella sinistra (spesso quella ex estremista) sono anche i più brillanti teorizzatori della sterile noiosità dell'arte, e dell'eccitante appeal del botteghino.
Serra ha ragioni da vendere - mi dicevo - eppure qualcosa non torna. Sarà vero che Martone si è scontrato con i cinici ideologi del marketing culturale e con le loro "ragioni del botteghino"? Martone stesso, nella sua lettera di dimissioni, poneva le cose in tutt'altro modo: diceva chiaramente come il bilancio della sua prima stagione fosse risultato addirittura in attivo. Perché Serra trascurava questo dato? Perché non reagiva a questo nodo? Perché fare di Martone "l'artista che si aggrappa alle sue ragioni, alla sua sensibilità, alla sua ispirazione", quando invece, come direttore del Teatro di Roma egli aveva tentato qualcosa di assai diverso? Martone non aveva solo fatto spettacoli di qualità, aveva anche sperimentato forme di programmazione e di promozione più flessibili, cercato di attirare nuovo pubblico, più largo e più diversificato rispetto a quello tradizionale degli abbonati. Aveva in testa un nuovo modello di teatro pubblico, competitivo sia sul piano artistico-culturale sia su quello della gestione economica. In altre parole la sua scommessa era stata molto più ambiziosa e molto più radicale di come la descriveva Serra. E questa scommessa il direttore del Teatro di Roma alla fine l'avrebbe vinta, anzi l'aveva già vinta con il bilancio in pareggio - se non lo avessero fatto fuori altre forze (che non erano affatto gli ideologi cinici del marketing), se non si fossero scatenati altri conflitti (che non erano affatto le ragioni del botteghino). Insomma Serra diceva cose giuste, però sbagliava decisamente il bersaglio.
Mi pare che egli sia stato vittima di una semplificazione comune, che ritrovo talvolta anche nei critici letterari, nei critici della cultura, nei critici dell' "industria culturale". Essa immagina la cultura e l'arte come una cittadella assediata dalle ferree leggi del mercato e del profitto. Dentro la cittadella ci sarebbero i valori da difendere, fuori un nemico che li assedia, sempre più invasivo, sempre più forte e vittorioso nella sua opera di mercificazione di ogni cosa. I valori infatti tentano di resistere, ma già stanno cedendo ... tanto che anche chi li difende li immagina già destinati alla sconfitta (anche Serra iniziava dicendo che non c'è da meravigliarsi se Martone ha perso, visto che persino la sinistra è passata dalla parte del nemico). Insomma quel nemico sarebbe talmente invincibile che non c'è nemmeno più niente di cui meravigliarsi, non c'è proprio più nulla da fare. Ma sarà davvero il mercato o l'economia a minacciare ogni esperienza radicale della cultura e dell'arte?
Naturalmente quei problemi esistono. Ma sarebbe sbagliato descrivere i rapporti di potere solo in termini di economia e di mercato. Le leggi del mercato talvolta influiscono meno di quanto si pensi. Per esempio, si è parlato spesso con preoccupazione delle grandi concentrazioni editoriali. Due anni fa, un libro di Schiffrin, Editoria senza editori, dava una descrizione abbastanza disperante della situazione. Eppure proprio quel libro finiva per incrinare molte delle credenze diffuse circa le supposte leggi inderogabili del profitto. Con l'aiuto di una casistica concreta, ricca di dati, Schiffrin mostrava ad esempio come il mercato librario spesso "punisca", con profitti inferiori ai costi, una politica editoriale che punti tutto sul best-seller, cioè sul prodotto omologato per il vasto pubblico, e come invece possa talvolta premiare, proprio in termini di profitto, i prodotti culturali differenziati, e la cosiddetta "editoria di nicchia". La scommessa più radicale non è allora resistere fuori del mercato (cosa che del resto viene data per impossibile anche da coloro che la auspicano) ma come stare nel mercato, sia quello librario, sia quello dello spettacolo.
Sul "manifesto" del 29 novembre 2000 comparve un articolo di Carlo Fuortes, economista dello spettacolo, e ex consigliere del CdA del Teatro di Roma: l'unico consigliere a votare contro la nuova pianta organica e che si dimise assieme a Martone. Questo articolo, intitolato "Il teatro che il denaro (non) può comprare", potrebbe essere molto istruttivo per chi voglia discutere di arte e mercato senza pararsi gli occhi con schemi oppositivi semplificanti, cioè per chi abbia voglia di fare la fatica dell'analisi. Ne riporto perciò un lungo brano, che impegnerà chi legge assai di più dei precedenti ritagli.
Ripensando l'esperienza del "Piccolo" di Paolo Grassi e di Strehler alla luce delle condizioni odierne dello spettacolo, Fuortes spiegava, in cinque punti, quali fossero, dal suo punto di vista, cioè dal punto di vista di un economista, gli obiettivi di "politica economica" di uno Stabile Pubblico, tenuto conto di ciò che ne differenzia l'offerta rispetto ai teatri privati:
1) Il teatro stabile non può e non deve ragionare come un'azienda privata che massimizza il profitto vendendo il 'servizio teatro'. Non perché questo sia un'azione deprecabile, tutt'altro, ma perché questa funzione è già svolta dai teatri privati, largamente finanziati dallo Stato per mantenere il mercato e l'occupazione del settore teatrale.
2) Questo non vuol dire che il teatro pubblico non debba prestare la massima attenzione all'efficienza ed all'efficacia economica della gestione e al pareggio in bilancio. Il rapporto costi/benefici non deve essere inteso come massimizzazione dei ricavi, ma dei benefici economici e sociali non monetizzati, ma di grande valore economico - relativi alla sperimentazione teatrale, alla messa in scena di nuovi testi contemporanei, alla visibilità internazionale, alla diffusione presso tutte le fasce sociali e di età di un teatro di qualità. Obiettivi che non sono concessi al teatro privato stante l'obiettivo del profitto.
3) E' indispensabile che un teatro stabile abbia un progetto culturale chiaro sul quale poter catalizzare l'interesse della domanda ed essere competitivo con le altre forme di uso del tempo libero (Tv, Internet, multimedia, ecc.), molto più comunicative e invasive. Un progetto non vincolato da scelte obbligate per soddisfare l'ipotetico "gusto" dell'abbonato.
4) Il rinnovamento e l'allargamento del pubblico sono probabilmente due tra gli obiettivi principali, indispensabili per trovare una vera legittimazione economica del teatro pubblico. Attualmente i 9/10 di un teatro pubblico sono sostenuti dalla gran parte dei cittadini che a teatro non vanno mai.
5) Dall'altra parte ci sono gli abbonati, feticcio di ogni teatro stabile, sempre rappresentati come i veri sostenitori del teatro: essi sono, al contrario, i grandi beneficiati perché acquistano un servizio molto costoso a circa 1/10 del valore effettivo. Un teatro stabile pubblico deve, quindi, trovare le forme e i modi per aprire il teatro a tutti i cittadini, oltre il club dei privilegiati rappresentato dai tradizionali abbonati.
Secondo Fuortes, durante la gestione del teatro di Roma Martone aveva perseguito questi obbiettivi di politica economica. La conclusione dell'articolo era questa: "Non è sempre vero, dunque, che le ragioni dell'economia siano contrarie o contrapposte a quelle dell'arte"
Quindi, se non era neppure quello tra arte e mercato, quale altro conflitto ha avuto luogo al teatro di Roma? Persino Michele Serra, nell'articolo di "Repubblica", mostra a un certo punto un'esitazione. Non se la sente di spiegare l'intera vicenda alla luce di quell'unico schema né di attribuire pienamente ai due protagonisti i ruoli contrapposti dell'artista puro e del contabile. Scrive perciò, circa a metà del pezzo:
Non faremo di Martone l'eroico assertore di un'arte libera e nobile. Né del consiglio d'amministrazione romano il gretto esattore di uno spirito contabile [....] Ci sarà dell'altro, sicuramente. Il clima, però, è quello stesso clima insofferente, e indirettamente censorio, che spinge a tagliare come un ramo secco qualunque prodotto culturale economicamente improduttivo.
Serra ammette dunque l'esistenza di qualcosa d'altro, di qualche retroscena che non conosce. In altre parole è come se riconoscesse di stare ragionando sulla base di ciò che appare, facendo astrazione da quel che ci può essere dietro. Il suo è dunque una sorta di ragionamento per assurdo: ammettiamo che quel che dice il Consiglio d'amministrazione sia la verità, noto che in essa regna l'ideologia bruta, quasi censoria, del marketing culturale. Quindi, per quanto non possa escludere che nella vicenda di Martone abbiano agito altri fattori, quello di cui però sono sicuro è che la sinistra ha sposato l'ideologia del mercato, ed è stata questa la sua rovina, avendo ciò allontanato la sua politica culturale dalle vere ragioni della cultura, dal rischio, dal coraggio e dalla radicalità dell'arte. Ma come si fa a dire che cosa ha liquidato la cultura di sinistra se non si tiene conto di tutto ciò che agito in una vicenda come questa che riguarda appunto la politica culturale della sinistra? In parole brutali, Pedullà è un intellettuale di sinistra che ha boicottato un progetto culturale di sinistra. Non l'ha fatto per l'ideologia del marketing; anzi egli passa nell'ambiente come un paladino della cultura, della sperimentazione e dell'avanguardia. E allora, perché lo ha fatto? Serra dice quindi cose giuste ma parziali, poco esplicative. Quello che obietto a lui e a tutti i critici "tralascianti" è che non si possono fare analisi critiche (comprese le diagnosi sulla sinistra) a partire da astrazioni. Non può esserci critica finché non ci si decide a prendere dentro davvero tutto. Tutto insieme. Tutto contemporaneamente, nella sua complessità. O anche, a volte, nella sua semplicità.
Storia n. 3. Rutelli ha "dovuto" sacrificare Martone per far fronte alle richieste della nuova maggioranza dell'Assemblea dei Soci. Dopo le elezioni amministrative dell' aprile 2000, nell'Assemblea dei Soci del Teatro di Roma (Comune, Provincia e Regione) si era infatti formata una nuova maggioranza di centro-destra, la quale, probabilmente, reclamava più potere dentro al teatro, e quindi una carica, o il Direttore o il Presidente. E poiché sia il Direttore sia il Presidente erano in quel momento "in quota" alla sinistra, uno dei due avrebbe dovuto cadere.
Questa storia combina lo schema oppositivo destra/sinistra con quello governo/opposizione, o meglio con la regola sotterranea, ma collaudata, della spartizione delle cariche tra governo e opposizione. Per questo non è mai stata raccontata apertamente: tuttavia circola, ed è forse quella che ha acquietato molti interrogativi, essendo la più "dietrologica" delle tre. Questa storia in effetti parrebbe spiegare un po' di più delle altre. In realtà lascia anch'essa delle lacune, altrettanto grosse. Essa spiega solo perché, a un certo punto, si sia determinata la "necessità" (ammesso, ovviamente, che si accetti come ferrea la regola irregolare della spartizione delle cariche) per cui uno dei due, o il direttore Martone o il presidente Pedullà, doveva cadere. Ma non spiega affatto perché sia caduto Martone. Non spiega perché Rutelli e la sua coalizione abbiano scelto di far cadere proprio il direttore artistico, nonostante l'ottimo bilancio, nonostante il favore del pubblico, nonostante la fiducia di molti intellettuali e uomini di cultura, nonostante la rinomanza internazionale dell'artista, nonostante l'interesse che era riuscito a creare attorno al nuovo andamento del Teatro Stabile romano, nonostante il progetto innovativo che stava conducendo anche sul piano della gestione economica, nonostante il grande progetto di decentramento avviato, nonostante avesse favorito la crescita di giovani artisti, diversificato il tradizionale pubblico del teatro, attirato un pubblico giovane - insomma, nonostante questa direzione avesse tutte le carte in regola per diventare il fiore all'occhiello della politica culturale della sinistra. Poiché è difficile pensare che la coalizione politica di Rutelli sia talmente miope da fare, senza altre ragioni, una scelta che appare perdente anche dal punto di vista elettorale, bisogna infine concludere che nemmeno la storia pseduo-dietrologica della spartizione delle cariche riesce a spiegare del tutto quel che è successo al Teatro Stabile romano.
Dunque cosa manca in ognuna di queste storie? La lettera di dimissioni di Martone, come ho già detto, rendeva pubblico un operato non motivabile pubblicamente, cioè non motivato da ragioni dicibili, e che molti avrebbero preferito far restare interno. Ma dicendo "ragioni indicibili" non intendo dire ragioni nascoste, retroscena insondabili, difficilmente penetrabili. Anzi, se si considera tutta la vicenda, ci si rende conto che quelle ragioni non erano poi così difficili da immaginare.
Innanzitutto (prima domanda), perché un intellettuale di sinistra ha boicottato un progetto culturale di sinistra? La risposta è così facile che anche un bambino la saprebbe dare. Visto che una delle due cariche (o il Direttore o il Presidente) doveva cadere, si può immaginare che il Presidente stesse cercando di salvare se stesso facendo cadere il Direttore, logorandolo nella sfibrante guerra del bilancio. Ovviamente anche il Direttore, con quella lettera di dimissioni, cercò di salvare se stesso. Anche questo è palese. Le sue però non erano ragioni indicibili. Mentre il Presidente stava conducendo una guerra sotterranea, con argomenti pretestuosi e cifre scorrette e, soprattutto, senza nessun progetto che non fosse quello del mantenimento della propria carica, l'altro ne fece una battaglia pubblica, cercando di creare consenso attorno a un progetto di gestione culturale e amministrativa che ognuno avrebbe potuto giudicare, approvandolo o bocciandolo per ragioni di merito.
Seconda domanda: perché un consiglio d'amministrazione a maggioranza di sinistra ha sacrificato Martone quando la sua direzione aveva riscontrato successo e favore di pubblico? Qui la risposta può essere un po' più difficile da dare nel dettaglio, ma certamente la si può intuire all'ingrosso. Martone denunciava il "male oscuro" del Teatro di Roma, e la sua posizione era stata, a partire da un certo momento, apertamente contraria alla gestione verticistica che concentrava tutto il potere operativo nell'apparato amministrativo. E non c'è bisogno di fare troppa dietrologia per immaginare quali reazioni ostili, diramate e interconnesse, abbia potuto scatenare un direttore che reclamava una maggiore collegialità tra il settore artistico e quello amministrativo nel gestire per esempio l'autofinanziamento, le sponsorizzazioni, gli affitti di sale e altre risorse, mettendo fine alle sacche di potere che quel tipo di gestione avrà negli anni inevitabilmente creato dentro al Teatro stabile.
Terza domanda: perché un giornale "di sinistra" come l'"Espresso" aveva cominciato, già un anno prima del problema "politico" delle cariche, un'offensiva contro Martone? Poiché, come ho già detto, un attacco del genere non era mai stato portato prima da nessun giornale contro nessun direttore di Teatro Stabile (neppure contro direttori davvero responsabili di deficit disastrosi), bisognerà qui interrogare le relazioni di potere che attraversano l'intero sistema teatrale. All'epoca di quell'attacco precoce dell'"Espresso", Martone era in carica da meno di un anno, quindi ancora troppo poco per misurarne i risultati sul piano del bilancio, ma già abbastanza per avere un'idea della sua non "consona" politica teatrale. In primavera era stata infatti presentata la stagione: un cartellone a dir poco insolito per uno Stabile, in cui brillavano le assenze di tutte quelle compagnie che di solito circolano in tutti i teatri pubblici d'Italia durante una stagione (basta confrontare i programmi dei diversi teatri per rendersi conto di quanto siano spesso l'uno la fotocopia dell'altro). In altre parole un cartellone non imbrigliato nelle consuete logiche dei Teatri pubblici, tra cui quella che in gergo si chiama lo "scambio" (spettacoli messi in programma per puro do ut des con altri teatri). Insomma, nel settembre del 1999, quando uscirono i due articoli di Dentice e di Rita Cirio, ce n'era già abbastanza perché l'intero sistema teatrale si fosse già messo in allarme.
Del resto Franco Cordelli, critico teatrale del "Corriere della sera", che stroncò uno dietro l'altro la quasi totalità degli spettacoli di quel programma (un numero statisticamente improbabile), lo dice chiaramente sul "Corriere" del 24 marzo 2001, sia pure in mezzo a contorcimenti argomentativi, in un articolo quasi maldestro per ciò che indirettamente rivela:
Quante lamentele non ho raccolto durante gli anni di Martone all'Argentina? In più, le esclusioni dettate da una poetica fortissima, e dunque giustamente tendenziosa [...] Come poteva questo tipo di scelta, non generare sbilanciamento tra i fatti artistici e quelli economici e organizzativi? [...] Dunque, tendo a credere che le dimissioni di Martone, quali che siano i suoi obiettivi reali, fossero scritte nelle cose: un fenomeno fisiologico
Nell'"intero sistema teatrale" non bisogna poi dimenticare di comprendere anche la casta dei critici, recensori degli spettacoli che la rete dei teatri mette in cartellone, e che le loro recensioni contribuiscono a far mettere in cartellone. L'importanza delle loro recensioni ci rivela così tutta l'autoreferenzialità di questa macchina astratta (che vale anche per le recensioni letterarie): quando promuovono o stroncano uno spettacolo questi critici mediatori non parlano tanto al pubblico del teatro ma alla sua stessa macchina organizzativa (così come i recensori di libri prima ancora che ai lettori parlano agli editor, agli uffici stampa, ai traduttori, alle giurie dei premi, e ai mille organizzatori di eventi culturali), e le loro parole decidono non tanto del successo di pubblico di uno spettacolo quanto delle sue "date" nella rete dei teatri pubblici d'Italia. A ciò si aggiunge poi anche il fatto (secondario, ma non trascurabile) che molti dei recensori teatrali sono anche traduttori dei testi in cartellone, e quindi fruitori dei diritti SIAE di quegli stessi spettacoli che le loro recensioni, o quelle di altri membri della casta, contribuiscono a far mettere in cartellone.
L'"anomalia" di Martone avrà perciò dato fastidio anche a qualcuno di loro. E poiché a farla rientrare sarebbe servito a poco il classico strumento indiretto della stroncatura degli spettacoli (che pure fu usato), si ricorse a quell'altro genere d'offensiva: il processo a un immaginario bilancio del Teatro. Un'offensiva insolitamente diretta, decisamente fuori galateo, furiosa e sgangherata: un'arma d'emergenza, spia d'un sistema di potere in allarme.
A queste ragioni indicibili, più antiche, si sommarono poi quelle provenienti da quell'altra macchina autoreferenziale della gestione politico-amministrativa del Teatro di Roma,. E poi ci saranno forse anche ragioni più spicciole, quasi banali, che molti "intellettuali" si vergognerebbero a mettere sul piatto di un'analisi "seria". Per esempio nella lettera che Martone ha inviato ai soci del Teatro di Roma dopo le sue dimissioni (pubblicata nel n. 24 del "Patalogo", 2001) leggo (ma tra parentesi, quasi anche lui si peritasse a usare argomenti così ordinari, accanto a quelli ben più rilevanti su cui sta relazionando, come ad esempio la pianta organica) che tra le ragioni dell'opposizione al suo lavoro c'era probabilmente anche la sua "scarsa propensione ad accogliere raccomandazioni". Provo a immaginare. Forse avrà rifiutato di far recitare qualche attore raccomandato da alti personaggi. Anche questo ordine di ragioni, altrettanto indicibili, avranno certamente contribuito a far crescere l'ostilità del sistema consolidato di potere dentro al Teatro Stabile contro l'elemento anomalo, non controllabile della sua direzione, e non si capisce perché non dovrebbero entrare a far parte di un'analisi seria delle strutture di potere.
Dunque, se ci si chiede cosa manca a ognuna delle storie plausibili che sono state raccontate sulla vicenda Martone, la risposta è questa: manca una grossa fetta della struttura del potere in Italia, e precisamente quella che agisce in maniera trasversale rispetto a tutte le opposizioni evocate. Mancano tutte quelle relazioni di tipo personalistico, quasi si potrebbe dire feudale, che nel nostro paese si possono chiamare con vari nomi, Massoneria, Mafia - e che attraversano la destra e la sinistra, le forze di governo e quelle dell'opposizione, l'arte e il mercato, la sperimentazione e il conservatorismo, le forze dell'avanguardia e quelle della tradizione. Mancano tutte quelle relazioni di tipo clientelare che attraversano anch'esse la destra e la sinistra, le forze di governo e quelle dell'opposizione, l'arte e il mercato ecc. Manca il meccanismo autoreferenziale del potere. Cose note, replicherà qualcuno. Infatti, come ho detto, questa è una storia che ognuno conosce. Ogni intellettuale o uomo di cultura o "pensatore critico" conosce o sospetta l'esistenza di queste relazioni. Però poi, quasi sempre, quando fa analisi critiche, o quando prende posizione, finisce col tralasciarle: per non complicare troppo l'analisi, o per non complicarsi troppo la vita. Se invece sarò riuscita a mostrare quanto sia vitale per la critica mettere a fuoco proprio queste relazioni di potere, portarle finalmente nel computo dell'analisi, invece di lasciarle sullo sfondo come epifenomeno irrilevante, potrò dire di aver raccontato la storia che volevo raccontare. E cioè:
Storia n. 4. In cui vengono finalmente in primo piano tutte quelle microrelazioni di potere che imbrigliano molti individui indipendentemente dalle loro posizioni politiche, dalle loro convinzioni in fatto di arte, cultura e mercato, e soprattutto indipendentemente dalla loro categoria. Esse infatti imbrigliano non solo i politici (cosa nota), ma anche i giornalisti, i direttori di giornale, i critici teatrali e persino - come vedremo ora, nel quinto e ultimo paragrafo di questa storia- molti dei cosiddetti intellettuali, scrittori, artisti, uomini di cultura o come altro li si voglia chiamare, i quali, contrariamente a quanto a volte si fa mostra di credere, non ne sono affatto immuni per statuto.
Intellettuali
6 dicembre 2000. Il "Messaggero" pubblica un appello di "centocinque illustri rappresentanti della cultura nazionale" in favore di Pedullà. Così lo definisce la giornalista Rita Sala che lo introduce con un suo articolo. Ecco il testo dell'appello:
Con stupore e sconcerto assistiamo al tentativo scorretto di trasformare il confronto fra due intellettuali che - sia pure con una differente visione dei compiti di un'istituzione- operano dentro lo stesso teatro e con analoga idea di arte come ricerca e innovazione, in uno scontro personale che vedrebbe da una parte un artista dall'altra un invadente amministratore. In questo disegno deformato il ruolo del manager burocrate è stato, da alcuni sostenitori di Martone, assegnato a Walter Pedullà. Ciò però è ben lontano da corrispondere all'identità di un 'intellettuale che si è distinto per la tenace coerenza con cui si è sempre battuto a favore di una cultura e di una letteratura che si rinnovano per rendere sempre più moderna la società. Per noi Walter Pedullà è un professore universitario che in oltre quarant'anni ha formato generazioni di studenti e di studiosi; il critico militante che da decenni conduce battaglie coraggiose, non di rado isolato, per scoprire o riabilitare autori dimenticati o sottovalutati; il presidente della Rai che ha assiduamente sollecitato il rinnovamento della cultura televisiva; il saggista che ha scritto opere preziose sui maggiori narratori del Novecento, sull'avanguardia storica e sul neosperimentalismo; lo storico della letteratura, il promotore di riviste d'attualità artistica e politica, il creatore di una grande impresa editoriale come la collana di classici "Cento libri per mille anni". Infine, per sottolineare la sua azione a favore di un teatro aperto al dialogo con le altre arti, ricordiamo che Walter Pedullà è colui che ha avviato e realizzato un progetto ('La settimana da leggere') per il quale all''Argentina' ogni anno, letteratura, teatro, cinema, pittura, danza lirica e Tv si danno convegno per interrogarsi sul loro presente e sul loro futuro.
Firmato: Fernanda Pivano, Andrea Zanzotto, Luigi Malerba, Mario Luzi, Gian Luigi Beccaria, Maria Corti, Elio Pagliarani, Franco Mannino, Alfredo Giuliani, Ottiero Ottieri, Francesca Sanvitale, Lorenzo Mondo, Rosario Villari, Aurelio Roncaglia, Renato Barilli, Edoardo Bruno, Lidia Ravera, Maurizio Dardano, Luca Serianni, Paolo Portoghesi, Silvano Nigro, Maurizio Calvesi, Arnaldo Pomodoro, Predrag Matvejevic, Jaqueline Risset, Nico Orengo, Vincenzo Consolo, Gianni Celati.
Cari Fernanda Pivano, Andrea Zanzotto, Luigi Malerba, Mario Luzi, Gian Luigi Beccaria, Maria Corti, Elio Pagliarani, Franco Mannino, Alfredo Giuliani, Ottiero Ottieri, Francesca Sanvitale, Lorenzo Mondo, Rosario Villari, Aurelio Roncaglia, Renato Barilli, Edoardo Bruno, Lidia Ravera, Maurizio Dardano, Luca Serianni, Paolo Portoghesi, Silvano Nigro, Maurizio Calvesi, Arnaldo Pomodoro, Predrag Matvejevic, Jaqueline Risset, Nico Orengo, Vincenzo Consolo, Gianni Celati e il resto dei 105,
mi rivolgo a voi che siete gli illustri intellettuali firmatari dell'appello in difesa di Walter Pedullà. Tra voi ci sono molti scrittori che stimo e persino qualcuno a cui sono legata da amicizia. Come avete potuto firmare un appello così incongruo? Sapevate o no le ragioni per cui Pedullà vi ha chiesto di sottoscrivere questa bizzarra lettera di referenze in cui si attestava il suo curriculum di professore, storico della letteratura, critico militante, saggista, fondatore di riviste e curatore di grandi opere? Non era mica come scrivere una lettera di presentazione per un giovane amico che va all'estero, o per un allievo che chiede una borsa di studio! Sapevate o no che nella circostanza in cui vi siete trovati a firmare c'era in atto uno scontro di potere al Teatro di Roma? E che quindi, firmando quella che voi credevate un'innocua attestazione al valore (improntata a "volontà di riconciliazione", "né troppo contro né troppo a favore", come dichiarò più tardi uno di voi, Andrea Zanzotto) vi siete invece trovati a prender parte in questo scontro? Sospettavate o no che in quello scontro l'illustre intellettuale, l'illustre professore, il presidente della Rai, l'illustre saggista e critico militante, stava conducendo una battaglia probabilmente personalistica per salvare la propria poltrona? Sapevate o no che egli aveva dichiarato ai giornali delle cifre scorrette sul bilancio del Teatro di Roma?
Non metto in dubbio che Walter Pedullà sia l'intellettuale, critico e saggista che voi dichiarate, e che abbia fatto le cose illustri e preziose che voi ricordate. Ma questo cosa può provare? Anche gli intellettuali possono, in certe circostanze, sbagliare, agire in modo scorretto, possono persino dichiarare il falso, e fare molte altre cose intollerabili - come la storia vi avrà certamente insegnato. Anche gli illustri professori, critici e fondatori di riviste possono talvolta prendere posizioni con cui è legittimo, e in certi casi doveroso, non concordare. Oppure posizioni con cui è legittimo concordare, se le si ritiene giuste: ma in un caso come nell'altro quel che non si può proprio evitare è di entrare nel merito. Perché invece in voi tanto disinteresse per il merito della questione, in cui pure vi siete trovati a prendere posizione firmando quella sorta di dichiarazione d'identità? Sempre così in Italia! Quel che conta è l'identità, l'appartenenza a una categoria, a una cerchia, a una casta, a una confraternita: ciò che si è invece di ciò che si fa. Ancora lei, gentile Andrea Zanzotto, poeta che ammiro, dichiarò di non sapere bene l'accusa che veniva imputata a Pedullà, e tuttavia di ritenere "impossibile che ci potesse essere conflitto tra chi vuol far vivere un teatro e Pedullà". Non dubito della Sua buona fede, ma come vede non era affatto impossibile.
Perché dunque avete messo la vostra firma sotto questo appello volto a ricordarci chi è Pedullà? Probabilmente perché, in un vostro momento di disattenzione, senza lasciarvi il tempo per riflettere, ve l'avrà chiesto lo stesso beneficiario dell'appello, in cambio di vecchi benefici che vi avrà fatto - non certo benefici meschini di cui ci sia da vergognarsi: magari una recensione positiva, la presentazione di un vostro libro, un invito a collaborare a qualche iniziativa editoriale. Ed è giusto essere riconoscenti. Ma si può, in nome della riconoscenza, non entrare nel merito di cosa sta facendo Pedullà in questa circostanza, chiudere gli occhi sullo scontro di potere in atto, quasi far finta che non ci sia?
C'è però un punto della vostra lettera su cui mi trovo del tutto d'accordo. Avevate ragione a dire che Pedullà non è un manager burocrate come qualcuno, nella polemica, cercò di farlo passare. Quella definizione era troppo imprecisa, anzi, era decisamente falsa (falsata da tutte quelle storie semplificanti che si raccontavano in quei giorni, da una parte e dall'altra). Però neanche voi avete avuto voglia di dare la definizione giusta. Pedullà in quella circostanza non era il manager burocrate ma l' uomo di potere che agisce per conservare il proprio potere. Un potere che evidentemente, per quanto facciate fatica a metterlo a fuoco, esercita anche su di voi. Forse quel potere vi apparirà meno brutto e volgare di quello di molti politicanti, tuttavia anch'esso vi mette una piccola briglia, segna un piccolo limite alla vostra possibilità di esprimervi liberamente nel merito di una questione. Direte forse che questa del Teatro di Roma non era poi una grande questione, anzi era una vicenda minima se paragonata ai grandi corsi della storia, alle crisi, alle guerre e a tutte le questioni della massima importanza su cui spesso siete chiamati a pronunciarvi. Io dico però che la libertà di un intellettuale o è totale o non esiste.
L'appello in favore di Pedullà fu in un certo senso una risposta alle moltissime voci che nei giorni precedenti si erano alzate dal mondo del teatro e della cultura in favore di Martone. Subito dopo le sue dimissioni Martone ricevette infatti numerose lettere di solidarietà da colleghi, uomini di cultura, intellettuali. Alcune uscirono sui giornali, moltissime circolarono in rete. Una mi colpì più delle altre. L'aveva scritta Rosetta Loy e fu firmata da 23 intellettuali romani. Uscì contemporaneamente su "la Repubblica" e sul "manifesto". Mi colpì perché non era generica, si indirizzava alla persona giusta, cioè al Sindaco Rutelli per cercarne di spezzare il silenzio, e, per quanto un po' agnostica sulle cifre, nominava chiaramente il paradosso di tutta la vicenda: e cioè una direzione che viene affossata nonostante il successo, anche di pubblico. Ecco il testo della lettera:
22 novembre 2000.
Signor Sindaco,
è davvero molto triste che la stagione viva e ricca che il Teatro di Roma ha vissuto sotto la direzione di Mario Martone debba concludersi in modo così misero e concitato.
Per chi non conosce la situazione interna allo Stabile e dunque per il pubblico è difficilissimo districarsi nella guerra delle cifre: quelle fornite dal presidente del Consiglio d'Amministrazione Walter Pedullà per bocciare la direzione Martone; e quelle con cui il direttore dimissionario gli risponde contestandole.
A chi ama il teatro appare però evidente che a Roma, sotto la direzione di Martone, qualcosa è cambiato: il numero delle rappresentazioni è raddoppiato, il prezzo del biglietto medio è diminuito e gli spettatori sono aumentati, l'attività è stata decentrata, il teatro si è messo in cammino per la città e lungo "Le antiche vie", il programma si è arricchito di stimoli e proposte di richiamo internazionale e in sintonia con la realtà di una Capitale che è diventata multiculturale e multietnica. Perché buttare via tutte queste coraggiose innovazioni e tornare al pessimo spettacolo dell'ennesima guerra di potere? È doloroso dover ammettere che l'epilogo gestionale e amministrativo del centrosinistra sia una lotta intestina il cui solo possibile esito è l'azzeramento di tutti i vertici del Teatro di Roma.
Perciò, signor Sindaco, le chiediamo di restituire a Martone ciò che è di Martone, riconoscendo l'importanza di un segno culturale artistico e di qualità e, cosa non indifferente, apprezzato dal pubblico.
Rosetta Loy, Laura Lilli, Nadia Fusini, Valerio Magrelli, Irene Bignardi, Giovanni Russo, Nello Ajello, Luigi Melega, Enzo e Flaminia Siciliano, Elena Belotti, Lucio Villari, Giosetta Fioroni, Giuseppe Fiori, Ruggero Savinio, Angelica Savinio, Patrizia Cavalli, Annalisa Alleva, Carla Vasio, Marisa Di Iorio, Franco Marcoaldi, Melania Mazzucco, Elena Stancanelli.
Pochi giorni dopo, undici dei firmatari si ricredettero. Ne dà notizia lo stesso Pedullà il 25 novembre sulla pagina romana del "Corriere della sera", dentro alle virgolette di un'articolo di Emilia Costantini intitolato "Martone, gli intellettuali e le firme 'estorte'". Secondo Pedullà molti dei firmatari dell'appello a favore di Martone sono stati "raggirati" dalla Loy. Giosetta Fioroni protesta: "non sono stata raggirati". Ma altri invece confermano. Lucio Villari dice: "Mi erano stati letti solo alcuni brani". E Valerio Magrelli: "Forse ho inteso male il testo della Loy, che era molto ambiguo". E il 2 dicembre, in una lettera a "Repubblica" Pedullà ribadisce: dodici si sono ricreduti, e ne fa i nomi (includendovi anche Giosetta Fioroni):
Sono il "Presidente del CdA del Teatro di Roma" cui pudicamente accenna Rosetta Loy ("Repubblica" 28.11). La gentile signora respinge l'accusa di aver promosso l'azzeramento dei vertici del Teatro come "solo esito possibile della lotta intestina". Forse potrebbe bastare il fatto che, dopo aver letto l'appello che recava la loro firma, dodici intellettuali su ventidue (Ajello, Alleva, Di Jorio, Fiori, Fioroni, Magrelli, Mazzucco, Russo, Angelica e Ruggero Savinio, Vasio e Lucio Villari), pur confermando la stima a Martone, si sono dissociati dall'iniziativa della Loy, che a una rilettura è risultata chiaramente finalizzata ad azzerare il Presidente.
Stento a credere. Mi chiedo come faranno ora questi dodici intellettuali a giustificare pubblicamente le ragioni del loro repentino "pentimento"? E si saranno ricreduti spontaneamente, o sarà stato loro chiesto di farlo?
7 dicembre. Giovanni Russo su "Repubblica", cronaca romana:
Ho firmato la lettera ma in realtà non l'avevo letta fino in fondo. Non volevo che questo appello implicasse un giudizio su tutta la vicenda del teatro di Roma.
Il corsivo è mio. Cosa vorrà dire non su tutta la vicenda? Certamente vuol dire a favore di Martone ma non contro Pedullà. Anche qui, come dalla parte dei firmatari dell'appello per Pedullà, si vuole essere pro qualcuno ma mai contro nessuno. Si può dunque parlare a favore del direttore del teatro di Roma senza che ciò comporti anche una presa di posizione contro la sua controparte? Eppure questa è stata la pretesa di molti. Anche Valerio Magrelli, sulla stessa pagina della "Repubblica", dichiara di non aver letto il passo dell'appello che "mette sotto accusa i vertici del teatro". Evidentemente gli intellettuali italiani non amano scontentare nessuno, e persino quando c'è in atto un conflitto pretenderebbero di schierarsi senza le conseguenze dello schierarsi.
6 dicembre. Angelica Savinio su "Repubblica"
Confermo la mia adesione alla lettera di rammarico per le dimissioni del regista Mario Martone dal Teatro di Roma. Ignoro, né mi interessano, le ragioni che le hanno provocate. Questo è quanto ho risposto al professor Walter Pedullà, alla sua telefonata recente. Ho ripetuto al professore che la mia firma era, ed è, "pro" e non contro nessuno.... Pregavo anzi il gentile amico Pedullà di fare il possibile, con la sua capacità e il suo garbo, per far rientrare queste dimissioni che tanto ci dispiacciono.
Anche in questo caso i corsivi sono miei. In ognuno c'è qualcosa che mi sbalordisce. L'appello al sindaco, che è un atto istituzionalmente molto forte, viene attenuato in "lettera di rammarico". Anche qui, come dalla parte dei firmatari dell'appello per Pedullà, le ragioni delle dimissioni, cioè il merito della questione, devono restare rigorosamente ignorate. Infine anche qui, come probabilmente accadde dall'altra parte, arriva una telefonata di Pedullà - questo contatto diretto, amicale, in cui ogni conflitto si va a sciogliere - a cui addirittura si reindirizza l'appello per far rientrare le dimissioni di Martone, originariamente rivolto al sindaco.
In quegli stessi giorni, su "Sette" del "Corriere della sera" Nello Ajello dichiarava:
Me ne pento. Quel testo è stato frainteso, sembrava che si volesse chiedere l'azzeramento del consiglio d'amministrazione del teatro, mentre io volevo solo esprimere una generica solidarietà a Martone. Avrei fatto meglio a esprimergliela con una telefonata".
Quindi il firmatario d'una lettera aperta al sindaco Rutelli avrebbe, col senno di poi, preferito che la cosa si risolvesse al telefono, in via personale, tutta in interno! Questo era del resto anche il desiderio di Pedullà, quando, nella lettera a "Repubblica" del 2 dicembre, si lamentava di tutta quella eccessiva pubblicità: "Che bisogno c'era di appellarsi al mondo quando bastava - a tempo dovuto - chiedere a Martone di ritirare le dimissioni?"
L'articolo di "Sette" che ha accolto la dichiarazione del pentimento di Ajello e altre suoi giudizi sull'inutilità degli appelli, merita di essere guardato per intero. E' firmato da Michele Brambilla, si intitola "Aiuto, torna l'appellomania" e inizia così: "Sembrava una moda passata, un reperto degli anni Sessanta... invece è tornata". E da lì comincia la polvere coprente, cioè le inutili biforcazioni: Giorgio Bocca che spiega "perché è giusto firmare", Enzo Biagi che gli risponde "perché non firmo mai". (Come se il problema concernesse la natura del mezzo, cioè l'appello: superato o attuale, efficace o inefficace? quando invece riguarda la viltà di alcuni firmatari pentiti). Lo segue e lo amplifica un pezzo di Fabrizio Rondolino, ex consigliere di D'Alema, una sorta di vademecum spiritoso-cinico su come si scrive un appello:
Il primo requisito per un appello non è, come a tutta prima potrebbe sembrare, avere una buona ragione. Le buone ragioni sono tante e spesso intercambiabili. No, il primo requisito è il desiderio di apparire...
L'appello va scritto con tono sdegnato. Più banale l'oggetto, più sdegnato il tono ....
Dunque, poiché uno della casta dei giornalisti culturali rischia il discredito dissociandosi da un appello di cui evidentemente non aveva ben calcolato le conseguenze, allora si sostiene che TUTTI GLI APPELLI SONO UNA BUFFONATA. Su questi due articoli accoppiati ci sarebbero da scrivere pagine e pagine di analisi retorica, tartufologica e socio-antropologica. E poi, quante contraddizioni date da ingoiare a chi legge! Se la maggioranza degli appelli fossero davvero, come scrive Ajello, "un'arma spuntata" che lascia il tempo che trova, perché pentirsi di averne firmato uno? Per aver contribuito all'inflazione degli appelli? O forse perché egli si è accorto tardi dell' inaspettata efficacia che un appello può avere, cioè dell'esatto contrario di quel che ora sostiene? Non è vero quindi che gli appelli sono senza peso, che i loro testi sono sempre "generici, scritti in fretta" (ancora Ajello). A volte sono così precisi, e colpiscono talmente bene il bersaglio, che si può essere addirittura costretti a ritrattarli. Costretti da che cosa? Appunto da quelle relazioni di potere che ognuno conosce e nessuno racconta.
Ancora gli intellettuali
Febbraio 2002. Il 2 febbraio, in una manifestazione in Piazza Navona a Roma, alla presenza dei leader dell'opposizione, Nanni Moretti ha dichiarato che "con questi leader non vinceremo le elezioni. Il commento a caldo di Francesco Rutelli è stato: "Sempre utile che un intellettuale parli e dica come la pensi. Naturalmente non è detto poi che un intellettuale sia anche un bravo politico". Il 9 febbraio Alberto Asor Rosa scrive a "Repubblica" una lettera intitolata "L'urlo degli intellettuali e i bravi politici" in cui accusa i "dirigenti della sconfitta" (sono nominati D'Alema, Bertinotti e Rutelli) di aver provocato la "rottura di uno storico rapporto fra ceto politico di sinistra e ceto intellettuale di sinistra". Per rimediare a questa frattura Fassino, leader dei DS, invita un consistente numero di intellettuali, tra cui Abbado, Balestrini, Benigni, Biagi, Camilleri, Baricco, Fazio, Feltrinelli, Foa, Maraini, Proietti, Ravera, Rosi, Scalfari, Pontecorvo, Villaggio a una discussione aperta. Intanto gli scrittori Andrea Camilleri, Vincenzo Consolo e Antonio Tabucchi, per protesta contro l'operato del governo Berlusconi, annunciano la loro defezione dalla delegazione ufficiale italiana al Salone del libro di Parigi. A Firenze c'èstata una grossa mobilitazione di professori. La rivista "Micromega" al Palavobis di Milano indice una giornata in memoria di Tangentopoli a cui accorrono 40.000 persone.
Questi e altri fatti spingono molti a parlare del nuovo ruolo che gli intellettuali sembrerebbero ora finalmente riprendersi nella vita pubblica dopo che per anni la loro funzione (organica o disorganica, universalistica o specifica) era stata data per spacciata, a causa dei paradossi del cosiddetto impegno, o della debolezza dei loro mezzi d'espressione, giudicati inefficaci in rapporto allo strapotere livellante della comunicazione mediatica.
Su "La Repubblica" del 14 febbraio leggo un articolo di Simonetta Fiori intitolato "Ma guarda chi ritorna in piazza". Occhiello: "firmano appelli e promuovono manifestazioni. Sono studiosi di varia ispirazione, autonomi dai partiti, diversi dall'intellettuale engagé di sinistra: tutti preoccupati dall'Italia di oggi". La giornalista chiede poi pareri a intellettuali, tra i quali lo "stimato filologo non sospettabile di faziosità" Cesare Segre. E Segre risponde:
Gli intellettuali avvertono il progressivo restringersi degli spazi di libera espressione, e a questa chiusura oppongono manifestazioni ed appelli. Una inquietudine da me totalmente condivisa: mai come oggi sento di dover apporre la mia firma in calce a documenti che denuncino questa contingenza politica.
Anch'io credo che sia necessario difendere "gli spazi di libera espressione", ma perché non sentire questa stessa urgenza anche nel proprio campo? Perché sul terreno di quella che si chiama pomposamente la "critica militante" quei seri studiosi ci danno talvolta esempi desolanti di rinuncia volontaria alla libertà della critica mettendo il poprio nome e le proparie competenze al servizio di piccole operazioni d cordata, o scrivendo recensioni di routine? Fino a quando dovremo continuare a fare ragionamenti all'ingrosso, miseramente astraenti dalla totalità dei rapporti di potere? Quelli per cui alcuni intellettuali firmano appelli e poi li ritrattano! Quelli per cui singoli intellettuali-tartufi sollevano polemiche polverose volte a coprire i veri nodi delle questioni! Quelli in cui si vede quanta poca rilevanza abbia per loro la verità, e di quanta invece ne abbia l'identità, l'appartenenza a una cerchia, a una casta, a una lobby, a una loggia! Quanta sudditanza e quanti divieti introiettati circolino anche tra gli intellettuali che più si vorrebbero "critici"! Quanta sudditanza e quanti divieti introiettati circolino anche tra gli intellettuali che più si vorrebbero "critici"! Quanta paura vi sia a esprimersi, a prendere posizione nel merito, a schierarsi in conflitti, quando questi intaccano l'unità della cerchia a cui si appartiene! Fino a quando anche coloro che ora criticano i "dirigenti della sconfitta" continueranno a non mettere mai sul piatto dei loro ragionamenti critici quelle relazioni di potere che ognuno conosce e nessuno racconta?
Quella del Teatro di Roma potrebbe sembrare una vicenda minima rispetto alle grandi questioni su cui oggi si dice che gli intellettuali siano di nuovo chiamati a pronunciarsi, eppure è tanto emblematica: semplice da ricostruire e terribilmente desolante! La verità è che in Italia gli intellettuali, intesi come categoria autonoma dai poteri, non esiste, non è mai esistita, e quindi neppure può essere ora richiamata in carica. Gli intellettuali non sono oggi né morti né risuscitati. Sono piuttosto, come sempre, o liberi o imbrigliati. Quanti di coloro che ora si mobilitano contro le devastazioni del governo di centro-destra e la debolezza colpevole dell'opposizione di centro-sinistra saranno davvero liberi da quelle microrelazioni di potere, di tipo personalistico e clientelare, massonico o mafioso, che proprio in piccole vicende come quella del Teatro di Roma emergono nella loro nudità priva di addobbi ideologici? Certamente ce ne saranno molti. Ma saranno degli individui. Nei confronti del potere gli intellettuali sono innanzitutto degli individui. La loro capacità di incidere nel mondo, di esercitare una critica, di produrre pensiero, di dire la verità non dipende né dalla categoria (scrittori registi, professori, filologi, cantautori, filosofi...) né dal mezzo (appelli, manifestazioni, dichiarazioni, performance in piazza o in televisione, dibattiti alla radio, articoli di giornale, film, saggi, video, romanzi, poesie...): dipende innanzitutto dal rapporto che scelgono di avere con la verità che si ha da dire, e quindi dal rischio che si prendono dicendola. Su questo rifiuto del rischio si è sempre giocata prima di ogni altra cosa la scarsa radicalità e quindi la scarsa efficacia critica dell'azione degli "intellettuali" in Italia.
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Debutta tra qualche giorno il nuovo spettacolo delle Albe-Ravenna Teatro.
1. Eravamo partiti per fare l'Orlando innamorato e siamo sprofondati nel Sogno degli innamorati. E' raccontabile? No. Non bisogna provare per credere, al contrario, bisogna credere per provare.
2. Ogni uomo è due uomini e il più vero è l'altro. E forse ogni testo è due testi e il più vero è l'altro. Lo diceva Borges, lo dice Ermia alla fine della "dark night", quando confessa di avere avuto una visione "con occhi strabici, quando ogni cosa sembra doppia". Anche il paladino Orlando è strabico. La vena tragica del Sogno ce lo fa accostare anche alle Baccanti, con un Teseo che per ora non sarà sbranato, che a differenza del Penteo di Euripide se la cava e predica fino alla fine contro il "vedere doppio".
3. Qui siamo precipitati, qui ci siamo persi. Non avevamo deciso di fare Shakespeare. Non l'abbiamo mai neanche sognato. E' arrivato, alla fine del viaggio nei poemi. Ma ora noi non faremo Shakespeare, bens" sprofonderemo nel bosco in prossimità di Atene. Contro Atene.
4. Fioretto all'inizio delle prove: faccio voto di fare il vuoto.
5. Citazioni parallele, all'insegna di una cedevole sragione.
"Ma dove è amor, ragion non trova loco", Orlando Innamorato, I, III, 48.
"A dire il vero, amore e ragione di questi tempi non vanno molto d'accordo." Sogno di una notte di mezza estate, III, I, 134-135 .
6. Ippolita è un capolavoro di inesistenza. Un mostro civilizzato con la spada, non ha parole. Una barbara sirena disseccata, tirata fuori dalla sua acqua da quel violentatore che è Teseo. La sirena, il mostro della tradizione greco romana, faceva naufragare i naviganti. Teseo l'ha ridotta a un soprammobile.
7. Bottom, fondo, sfondo. Lo sfondamento come chiave di entrata, si sfonda, si va al di là, sotto. In giù. Tra i morti, gli spiriti. Sprofondare era lombardismo che Gadda diceva di non amare, ma che poi usava spesso. Tra i vari significati di Bottom, oltre a "fondo", c'è anche "anima", nel senso dell'anima (rocchetto) intorno alla quale è avvolto il filo del tessitore. Eraclito per primo mise in reciproca relazione psyche, logos e bathun ("profondo"): "I confini dell'anima vai e non li trovi, anche a percorrere tutte le strade: cos" profondo è il logos che essa comporta." Eraclito suggerisce che "vero" è uguale a "profondo", è come se conoscesse la parola inglese understand, dove "capire" va preso alla lettera come "stare sotto". L'anima è sfonda! Come il sogno di Bottom, "non ha fondo".
8. "Shakespeare? disse. Mi par d'averlo sentito nominare." Joyce, Ulisse.
9. Suono e Sogno. Per il Sogno abbiamo fin dall'inizio pensato insieme a Ceccarelli a una partitura che intrecciasse i suoi soffi di flauti come venti e terremoti e balenare di spiriti a musiche-simbolo dell'Atene-dei-divertimenti, dal romantico Mendelssohn alla romantica Pausini.
10. Aveva ragione Ben Jonson, a dire che i personaggi di Shakespeare "traboccano di vita", ma aveva ancor più ragione Wittgenstein ad irritarsi, affermando che "la vita non assomiglia a Shakespeare".
11. Anche la Tradizione è un sogno: come tale va sognata, va suonata (nel senso anche di prenderla a sberle), mai presa alla lettera.
12. Il clima del primo atto è soffocante. Come quando nella notte non si ha voglia di nulla e si ha voglia di tutto, quando il silenzio è un urlo. Siamo nella testa-palazzo di Teseo, incombe il temporale, nubi scure minacciose, ululati di cani, clima febbrile. Ma non si devono celebrare le nozze? Qualcuno vuole fuggire, o morire, è lo stesso. Il male di esserci, qui, divisi. Deserto, aridità, secco atroce, afa, i nervi saltati, scolorimento, crepe. Nonostante il savoir faire della canaglia Teseo, anche il ridere è una crepa nel volto. Tutto il primo atto va verso il monologo di Titania, che come la Fata dai capelli turchini annuncia il male del mondo: "J è tot murt! J è tot murt! Sono tutti morti! Sono tutti morti!".
13. "Acentric", cos" sono gli intrecci narrativi di Boiardo, il suo "artificio maraviglioso", cos" è il Sogno. Non si da un centro, ma solo estremi schizzati di una drammaturgia con cui fare i conti. Non c'è uno stile unitario! Shakespeare allinea e intreccia linguaggi e generi e storie, butta dentro lo stesso calderone retorica amorosa e battutacce farsesche, demoni celtici e miti greci, e tutto questo infischiandosene di qualsiasi pedante coerenza e verosimiglianza, puntando a un "artificio maraviglioso". Niente in quei boschi, in quei vuoti spazi erratici, dove il perdersi è sotto il segno di Eros e Thanatos (si muore d'amore, si muore di spada), niente in quei boschi è comprensibile: dare la colpa al fiore di Puck o alle fontane stregate delle Ardenne non spiega nulla.
14. "E proprio sembra che li porti il vento/ tanta è la forza dell'incantamento."Orlando Innamorato, XXXI, 36
15. Atene-dei-divertimenti, ecco il regno di Teseo. Dei distoglimenti, degli allontanamenti, perché cos" suona l'etimo. Una BARA-CCHETTA in cui perdersi, altro che polis! Popolata da Veneri di plastica bianca, da skate che sfrecciano, da giovinastri finto-ribelli, da Padri che non ci sono, latitano: e il Duca è uno slogan che cammina. E tanti spiritelli pronti ad assalirti la notte. La contrapposizione, presente nell'Orlando e nel Sogno, tra la corte di Parigi e la foresta delle Ardenne, tra Atene e il bosco, tra il luogo in cui abitare e il luogo in cui perdersi, nel nostro spettacolo scolora: da noi la polis è un incubo che già si sgretola.
16. Foscolo, 1810: "Sappiamo e vediamo che alla traduzione cadaverica non pu˜ soggettarsi se non un grammatico, e che alla versione animata vuolsi un poeta: or il poeta sarà sempre più fedele."
17. Il palco è una calamita. Una calamità. Lo stesso è il parco, bosco o foresta che tradur si voglia: un magnete che attira chi fugge per amore e chi ha uno spettacolo da provare. Niente scuse: il palco fa paura, guai a chi non fa paura, come il bosco è luogo di incantamenti e falsi sembianti, va percorso fino in fondo.
18. Ma certo, ci interessano dei tradimenti fedeli! Verso Shakespeare, lontano da Shakespeare!
19. "Ma l'arte drammatica come stagione folle ha da venire (e non abbiamo un passato-tradizione da tradire quanto, se mai, un futuro indimenticabile)". Bene, Opere.
20. Sul corpo del Duca crescono gli alberelli. Ma è un sogno!
21. "Niente scuse; perché quando gli attori sono tutti morti, non c'è più nessuno da biasimare." Sogno di una notte di mezza estate, V, 348-349
22. Non ci sono scuse. Si deve essere meno o più che attore. Sottomesso come un cane, anarchico come un bandito, devoto come un mistico. Ce l'hanno insegnato Tot˜ e la Duse, Carmelo e gli adolescenti. In quel sotto e in quel sopra, c'è l'unico teatro che conta, che canta per davvero. Il resto è inutile ciancia.
23. "Ma Shakespeare era autore attore regista e capocomico. Nella sua vita fu egli stesso uno spettacolo. Adesso è un testo. E' da sporcaccioni negargli l'infedeltà che gli è dovuta (tanto resiste, resiste a me, figuriamoci a voi), per tentarlo con sentimento: sarebbe come immergere un bastone nell'acqua azzurra del mare illudendosi che ne riesca azzurro anche il bastone. E quand'anche ci fosse un mare capace di questo (abbiamo le tintorie) state certi che il bagno non ce lo fareste."
Bene, Opere.
24. E il grande Fechner? "L'unica cosa sensata detta su questo argomento è stata detta dal vecchio Fechner: la scena dei sogni sia diversa da quella della vita rappresentativa vigile." (Freud, lettera a Fliess, 1898).
25. Nella tradizione delle Albe lo spazio è una non-scenografia, corpi e psiche allo stesso tempo. E' tutto quell'accidente che non puoi fare a meno di vedere. Come nei Polacchi non avevamo ricostruito una stanza da museo, ma erano la nebbia e l'assedio allo spettatore a determinare l'architettura infera del Museum Historiae Ubuniversalis, cos" nel Sogno la nostra Atene-dei-divertimenti non sarà un parco giochi ma una camera di perline nere, funerea e luccicante-Longuemare, in cui i giochi siano a vista, microfoni, casse di amplificazione, riflettori. Il bosco sarà la stessa distesa di perline nere, ma sfondata, attraversabile dagli attori e dalla luce in ogni punto.
26. Già, il bosco. I corpi non addomesticati di una banda di bambini e adolescenti africani saranno gli spiritelli neri del nevrotico, febbrile Oberon e della svitata Titania, doppi e tripli di Puck, demone terragno, cane, servo indisciplinato, buffone strisciante. Saranno loro a cavalcare amanti e meccanici per tutta la notte. Saranno loro a spingere la ruota della carriola che scarica il corpo del Duca all'alba accanto alla sua Afrodite di plastica, una ruota fasciata di stoppa e cenci: destinazione letale, epidemia occulta.
27. E le orecchie di Bottom-Sfondo? Cosetta le sogna spropositate.
28. Titania è strabicamente sensuale e impaziente da un lato, asinina e delirante dall'altro. E' lunare e mortuaria, Ecate e Diana, la signora morta della notte e la signora del giorno che "balugina", è iniziale e conclusiva. Vede il deserto nella foresta, la neve d'estate, le rose sulla zucca spelacchiata del vecchio inverno. E quando apparirà nel bosco all'inizio della notte, la sua voce potente vendicherà la muta Ippolita. Cos" l'una è l'eco rovesciato dell'altra.
29. La voce di Titania è lontana e vicinissima. O esce dal pozzo, o ti salta in faccia.
30. Ma come si pu˜ pretendere di fare la regia dei sogni? I sogni rifiutano ogni regia, se no non sarebbero sogni. I sogni "seguono le tenebre" (Atto V, "following darkness like a dream"), e "non hanno padre, e nemmeno una vocazione verso l'alto. Provengono dalla Notte soltanto, e non hanno altra dimora che quella del regno della tenebra", Hillman, Il sogno e il mondo infero. I fili restano aggrovigliati, il sogno resta sogno, inspiegabile, intraducibile, mostruoso. Sfondato. Non ha padre, ovvero né regista né drammaturgo che possa far tornare i conti.
31. C'è una grazia nascosta nella farsa dei meccanici, un prodigio, "hot ice", ghiaccio bollente. Con i loro gesti strampalati, "smisurati", i dilettanti mostrano agli innamorati la morte tragica alla quale questi ultimi sono appena scampati nella furia della notte.
32. Ma ci sono davvero scampati?
Ravenna, marzo 2002
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