IL
FUND RAISING: UNA SFIDA PER LA
IMPRESA
NON PROFIT
Ho avuto il piacere di
partecipare con una mia relazione al seminario NOFRET di S. Arcangelo di
Romagna, nel luglio scorso. In quel contesto mi fu chiesto di presentare la
disciplina del fund raising e di porre in evidenza le condizioni essenziali per
metterla in pratica con profitto.
Non penso quindi oggi di
illustrare nuovamente cosa sia il fund raising, anche nella consapevolezza che
nelle cartelline è presente la raccolta delle slides presentate a S. Arcangelo.
Vorrei solo ricordare che per fund raising intendiamo una attività strategica di reperimento di risorse finanziarie volte a
garantire la sostenibilità di una organizzazione nel tempo e a promuovere il
suo sviluppo costante, affermando la sua mission sociale verso una molteplicità
di interlocutori. Questa attività strategica si basa su un processo di progettazione
continua che va dalla sensibilizzazione e preparazione della associazione che fa
fund raising, alla analisi interna dell’associazione, dei suoi punti di forza
e di debolezza e dell'ambiente nel quale opera, alla individuazione delle fonti
di finanziamento potenziali, alla pianificazione dei mezzi e degli strumenti per
raccogliere i fondi, alla messa in opera del piano, alla sua valutazione e,
infine, alla riprogettazione, sulla base dei risultati, delle proprie strategie
di fund raising.
Pertanto, secondo questo
approccio, il fund raising ha una doppia valenza che dobbiamo tener sempre ben
presente:
·
da un lato è un insieme
di tecniche per rendere più efficace l’afflusso di risorse finanziarie
necessarie a raggiunger gli scopi di una organizzazione;
·
dall’altra è il cardine
di un modello organizzativo-professionale attraverso il quale una
organizzazione assume il carattere di
impresa mettendo sotto controllo, in modo sistematico, le aree di rischi e
problemi connessi con il suo sviluppo.
1 - FUND RAISING
COME SFIDA
La ricerca che ci è stata
presentata[2]
in effetti mette in evidenza una serie di fenomeni che fanno riferimento ad
entrambe le anime del fund raising e sottolinea come, di fronte ai problemi
strettamente finanziari una organizzazione non possa non tematizzare ed
affrontare la propria dimensione organizzativa e professionale.
Sotto questo aspetto
il fund raising per le organizzazioni non profit si configura,
soprattutto nel contesto italiano, come una grande
sfida che coinvolge le organizzazioni in un processo di imprenditorializzazione.
Per impresa non profit,
intendiamo un ente senza fini di lucro – di qualsiasi tipo - , dotato di una rilevante
mission sociale, la cui organizzazione è improntata al proprio sviluppo
costante, autosostenibile e
orientato alla qualità del lavoro.
L'essere impresa, quindi, mette inevitabilmente in evidenza il tema della scelta
per il cambiamento dei modelli organizzativi e l'assunzione del rischio
e della responsabilità sia nei
confronti dei destini personali e professionali dei dirigenti – in quanto
“imprenditori sociali” -, sia nei confronti della società - ossia dei
beneficiari, destinatari e dei partner delle attività di una organizzazione -,
in relazione alla efficacia e pertinenza dell’azione svolta.
Per entrare nello specifico,
guardando a questo itinerario di imprenditorializzazione, nella ricerca ho
riscontrato elementi di una “buona novella”, ossia di un successo in atto, anche sul piano economico-finanziario, delle
organizzazioni che tendono ad assumere aspetti imprenditoriali; sia elementi di
una “cattiva notizia”, ossia la presenza di ostacoli e inciampi ricorrenti in tale processo di
imprenditorializzazione.
Isolare e commentare questi
aspetti è il ruolo che mi sono proposto. E lo farò mettendo in evidenza alcune
delle buone e delle cattive notizie che emergono dalla ricerca.
2.
“PICCOLO È BRUTTO”
La
prima cattiva notizia è che gli enti di dimensione
più piccola appaiono manifestare difficoltà
maggiori nella raccolta dei fondi. Si tratta, purtroppo di una conferma e
non di una scoperta. Tuttavia emergono elementi nuovi che ci aiutano a
riflettere circa una possibile risposta convincente a tale problema.
Infatti
il tema della piccola dimensione, o meglio, dell’essere piccoli e quindi
deboli, rispetto ad altri soggetti più grandi e più forti che vivono nel
nostro medesimo ambiente, appare essere un
tema dominato dalla nostra sfera cognitiva, ossia la sfera delle
rappresentazioni che vengono prodotte da noi o da altri sulla realtà e della
nostra cultura, piuttosto che dalla sfera
operazionale, ossia dalla oggettività e materialità delle cose.
Mi
piace sottolineare che, nel mondo imprenditoriale da circa 10 anni, in tutto il
modo, l’essere piccioli, più che un freno o una “tara”, è sempre di più
ritenuto un valore positivo e un fattore
concorrenziale decisivo per le imprese. Il paradigma della “nuova
economia” mi sembra che sia tutto basato su valori quali esilità, flessibilità,
relatività dei patrimoni tecnici, economici, organizzativi e strutturali,
rispetto ai patrimoni di conoscenze, know-how e relazioni sociali.
Come
mai nel non profit questo modello stenta ad affermarsi come modello vincente?
E
qui entra in ballo quello che io ho chiamato la sfera cognitiva: mi pare che vi
sia da parte delle organizzazioni non profit,
una rappresentazione falsata
di se stessi. Sotto questo aspetto possiamo parlare di un fenomeno di
sottovalutazione delle proprie potenzialità o di cecità nei confronti dei
propri punti di forza.
Sul
piano della disciplina del fund raising, possiamo affermare che la ricerca mette
a nudo il fatto che uno dei concetti chiave, ossia quello che per
fare fund raising è necessario fare una analisi attenta della propria
organizzazione e avere una chiara
visione di dove si vuole arrivare, sia un concetto del tutto ignorato dagli
enti che fanno raccolta di fondi, con effetti paradossali circa la reale
efficacia delle attività realizzate. In altri termini mi sembra che il problema
della piccolezza sia legato ad una proiezione
sulla realtà operativa delle preoccupazioni e delle remore a fare fund raising
proprio dei dirigenti delle organizzazioni e non il frutto di una analisi
oggettiva dei punti di forza e dei punti di debolezza.
Un
altro concetto chiave, ossia quello di analisi
oggettiva del mercato al quale ci si intende rivolgere e quindi di cosa
vogliono i nostri interlocutori finanziari, appare ugualmente ignorato. Infatti,
spesso, la rappresentazione della propria piccolezza va a braccetto con una
rappresentazione circa gli interlocutori di una organizzazione, come
soggetti che non hanno interesse per enti piccoli o per le cause sociali. In
verità questa rappresentazione non trova riscontri convincenti nella realtà.
Tuttavia,
non me la sento di giustificare questa scarsa efficacia nel fund raising solo
con il fenomeno del gap tra la dimensione cognitiva delle organizzazioni e la
loro dimensione operazionale. Vi è una responsabilità
più ampia che colpisce, in primo luogo, proprio noi che siamo studiosi;
formatori e operatori del fund raising. Credo che dobbiamo prendere atto che,
mentre sono state messe a punto tecniche e metodiche di raccolta fondi, o “modelli
di fund raising”, che sono adatti per medie
e grandi organizzazioni, conosciute e radicate da tempo in un determinato
ambiente, non siamo stati in grado di produrre
modelli efficaci di fund raising per quelle organizzazioni piccole che operano
in contesti territoriali molto determinati e su cause sociali (come ad
esempio l’arte, lo spettacolo i beni ambientali e culturali) che sono meno conosciute rispetto a quelle ecologiste, della ricerca medica,
dell’aiuto umanitario.
Anzi,
è successo di peggio. Molti esperti di fund raising hanno offerto alle piccole organizzazioni modelli di fund raising per
grandi organizzazioni, fatti di direct mail (le famose lettere di raccolta
fondi), campagne di pubblicità, eventi spettacolari, campagne di tesseramento e
quanto altro, costringendole ad investire, se non proprio risorse economiche,
almeno risorse umane e tempo di lavoro per risultati tutt’altro che
soddisfacenti.
Insomma
credo che quella dello studio e della messa a punto di modelli differenziati di
fund raising rivolti alle piccole organizzazioni sia una grande sfida che oggi
dobbiamo affrontare soprattutto nel contesto italiano, dove le piccole
organizzazioni rappresentano non meno dell’80-85% del settore non profit. Nel
caso del mondo dello spettacolo, la ricerca mette in evidenza che la maggioranza
delle organizzazioni non sono cooperative o fondazioni ma associazioni non
riconosciute, spesso fatte da pochissimi addetti. A costoro non sappiamo quali
modelli di fund raising offrire.
Così
come è vero che queste organizzazioni oltre ad essere destinatarie di
consulenze e di formazione tecniche dovrebbero anche essere coinvolte come soggetti protagonisti di una ricerca volta a capire quale sia il modello
migliore di fund raising per loro. Questo punto di vista apre nuove
prospettive per la formazione e per la consulenza professionale al non profit,
consulenze e formazione che dovrebbero configurarsi sempre più come una
ricerca-azione circa la sostenibilità delle organizzazioni e non come semplice
trasmissione di tecnologie.
3. LE FALSE RAPPRESENTAZIONI: UN MODELLO ORGANIZZATIVO AMBIVALENTE
Abbiamo parlato quindi di un
difetto di rappresentazione della realtà, di se stessi e della problematica del
fund raising da parte delle organizzazioni. A conferma di questo fenomeno, che
per altro trova giustificazione anche in una scarsa diffusione della disciplina
del fund raising e di formazione di base per i leader delle organizzazioni non
profit, troviamo riscontri importanti in altri risultati della ricerca.
Intendo parlare della rappresentazione
circa i punti di forza e i punti di debolezza fornite dagli intervistati.
Noto che relativamente alle risposte date dagli italiani, la comunicazione
e la capacità progettuale vengono
rappresentati come punti di forza, ma in modo sostanzialmente minore, rispetto a
quanto viene fatto dalle organizzazioni francesi e tedesche.
Comunicazione e capacità
professionale sono due tra gli elementi più importanti della dimensione
imprenditoriale e questo conferma che le
associazioni hanno minore capacità di proporre una loro convincente dimensione
imprenditoriale agli interlocutori finanziari.
D’altro canto, i punti di
forza ritenuti più importanti, rispetto all’esperienza estera, sono quelli
della soddisfazione del pubblico e
quello della qualità degli spettacoli.
Si pone quindi un accento importante sull’aspetto della produzione e quindi
della qualità - sia quella percepita (dal pubblico), sia quella oggettiva - che
sono invece uno dei cardini della dimensione imprenditoriale.
Emerge quindi una certa
ambivalenza nel modello organizzativo che,
da un lato, appare restio ad incrementare la professionalità nella gestione
degli elementi imprenditoriali e, dall’altro, sembra orientato invece a
caratterizzare il rapporto con il fund raising più sulla capacità di produrre
qualità che sulle capacità di relazione con gli interlocutori finanziari.
E veniamo ai punti di
debolezza e alle difficoltà riscontrate nella ricerca dei fondi. Mi pare che si
possano evidenziare questi aspetti:
·
mancanza di risorse per investimenti
·
mancanza di personale professionalizzato
·
scarse informazioni
·
scarsa sensibilità da parte degli interlocutori
Anche queste sono conferme. Già
altre ricerche, tra le quali una condotta dal Gruppo CERFE circa i bisogni
formativi dei dirigenti delle organizzazioni non profit in merito al fund
raising, hanno messo in evidenza che, a
fronte di un forte contenuto innovativo e imprenditoriale delle mission e delle
iniziative delle organizzazioni, vi è la quasi totale assenza di competenze
specifiche sul piano del management e del fund raising. In secondo luogo,
oltre al bisogno di conoscenze specifiche, vi è anche un bisogno di motivazioni
professionali, di identità della dirigenza non profit, di attitudini e,
soprattutto di attività pratica, mancanza che traspare dai pareri e dai
racconti circa il fund raising, fatti dai dirigenti non profit.
Dietro questo bisogno di
conoscenze, vi è un bisogno di scegliere, ad esempio, di fare o meno dell’attività svolta
nella organizzazione, il proprio impegno
professionale e occupazionale duraturo. Dietro il bisogno di strumenti
tecnici adeguati, vi è un bisogno di adottare una identità di imprenditore non profit che rischia “in proprio”
per il raggiungimento di una causa sociale.
In altri termini, la mancanza
di risorse economiche ed umane da investire nelle attività di fund raising, o
la mancanza di forme efficaci di comunicazione verso l’esterno, non
sono solo aspetti di debolezza strutturale delle organizzazioni e neanche solo
lacune nel campo delle conoscenze, ma mettono in evidenza bisogni essenziali per
la imprenditorialità sociale o non profit che riguardano:
·
La
identità professionale (quale
è il mio ruolo professionale, in quale figura mi riconosco)
·
Le motivazioni
a fare fund raising e quindi ad esporsi ad una serie di rischi per
raggiungere un obiettivo che in qualche
modo è anche personale
·
L’attitudine
a essere imprenditore e dirigente/manager
·
Il confronto
con la realtà, con l’ambiente del fund raising (conoscere come funziona
il mercato, chi sono e cosa vogliono i finanziatori, come fanno gli altri gruppi
che hanno avuto successo nel fund raising)
·
La responsabilità
nei confronti delle sorti dell’impresa
In conclusione, questi dati
della ricerca ci dicono che il settore delle piccole organizzazioni non profit
presentano un proprio modello di sostegno che è ambivalente, ossia che
contrappone ad una forte spinta di tipo imprenditoriale verso la promozione di
nuove cause sociali e iniziative, una
controspinta non-imprenditoriale verso la scarsa professionalizzazione delle
azioni pratiche che è necessario svolgere per raggiungere i fini.
Se
andiamo a vedere gli unici indicatori oggettivi che dalla ricerca emergono circa
la presenza o meno di un contenuto imprenditoriale delle organizzazioni,
scopriamo che mancano del tutto gli
investimenti strategici. Tanto è vero che:
·
si
spende poco o nulla per controllo di gestione e qualità anche perché il
sistema è largamente assente
·
si
spende poco o nulla per la raccolta di fondi
·
non
si fa accesso al credito quasi per nulla, peraltro senza neanche provar ad
accedere ai fondi etici
·
in
molti casi (anche se meno del 50%) non si fa neanche la rassegna stampa
·
non
si raccolgono informazioni sulla opportunità di finanziamento o di partnership
o sulla legislazione nazionale e quindi tanto più locale.
Tuttavia
la ricerca non fornisce ancora informazioni circa i perché di tale ambivalenza
del modello imprenditoriale delle piccole organizzazioni.
Ma
non dobbiamo nascondere che la ricerca mette in evidenza anche dei dati
estremamente positivi, tanto più se
teniamo conto degli elementi di crisi del sistema di cui abbiamo parlato prima.
Innanzitutto
va detto che senza investimenti, senza
professionalizzazione, senza aver acquisito una dimensione imprenditoriale,
siamo comunque di fronte ad almeno 30.000 organizzazioni che esistono non
solo sulla carta. Anzi, organizzazioni che sulla carta forse non esistono
proprio (statuti provvisori o assenza di statuti, ecc.) ma che invece esistono
nella sostanza. E se esistono, vuol dire che attorno a loro si muove un
insieme di risorse non indifferenti. Se ipotizziamo che ognuna di queste
organizzazioni abbia in un circa 10.000.000 di bilancio, possiamo sicuramente
affermare che si tratta di un settore che ha un peso economico annuo di 300
miliardi di lire. Ma qui intendo parlare di risorse non solo finanziarie, ma
anche umane, organizzative o in termini di servizi prestati e regalati, che
hanno però un valore economico non indifferente.
Questa
realtà (che per me è una sorpresa) ci dice che sotto le spoglie di soggetti
sfiduciati circa le possibilità di fare fund raising con successo, ci sono modelli attivi di mobilitazione delle risorse che nessuno
conosce bene. E non li conosciamo noi stessi operatori di fund raising. Forse
conoscendo meglio questa realtà sommersa potremmo lavorare meglio alla messa a
punto di modelli e strumenti per consolidare e sviluppare questo sistema di
raccolta di risorse.
E
va detto di più. Queste organizzazioni esprimono una
forte propensione al servizio che crea un plus valore nel mondo dello
spettacolo. E’ straordinario vedere come in tutti i campi di interesse
(musica, arte, teatro) e qualunque sia l’attività prevalente (spettacoli,
produzione, distribuzione) la grande maggioranza delle organizzazioni fa
formazione. Siamo di fronte ad un servizio alla persona di tipo post moderno e
innovativo che risponde ad un bisogno diffuso che difficilmente trova risposte
in altri enti pubblici o privati.
Questa è una carta vincente. Questo è un valore competitivo e strategico per il mercato. Questo è un carattere distintivo che altri potenziali concorrenti non hanno. Questi due dati, a mio avviso, forniscono una risposta categorica e lapidaria alla domanda: “ma c’è un futuro possibile per queste organizzazioni da un punto di vista del fund raising?” E la risposta è si, indubitabilmente.
5. I FATTORI ESOGENI DI DEBOLEZZA.
Se
fino ad adesso abbiamo parlato soprattutto dei fattori endogeni di forza e
debolezza (ossia legati alla dimensione interna delle organizzazioni e del
settore), ora dobbiamo seppure molto sinteticamente dare uno sguardo agli
ostacoli legati a fattori esterni alle organizzazioni.
Si
fa riferimento due aree di problemi:
·
La
prima è il peso della burocrazia e
l’assenza di un sistema di agevolazioni e facilitazioni circa i
finanziamenti. Su questo non posso che confermare che il nostro paese si deve
adeguare quanto prima a standard di tipo europeo, alleggerendo il carico
burocratico per il settore e agevolando i rapporti di tipo economico-finanziario
con potenziali finanziatori.
·
La
seconda è più interessante e riguarda la insensibilità
degli interlocutori.
Su
questo vorrei esprimere una interpretazione differente anche se non contrastante
con quella fornita dai ricercatori, circa i dati relativi alla composizione
delle entrate. Dalla ricerca
a me pare che esca sconfessata una interpretazione corrente data alla
esiguità del fund raising italiano. Si è sempre detto che le
organizzazioni non profit hanno uno scarso fund raising per ché
puntano troppo sui fondi pubblici. Ma dalla ricerca mi sembra che emerga che
anche in Germania e Francia la
composizione dei fondi tende a privilegiare le fonti pubbliche. Pertanto non
mi sembra che si possa giustificare una scarsa sensibilità dei privati. Si
tratta di prendere atto che questo genere di organizzazioni si colloca in un
settore di mercato che riguarda in parte rilevante i fondi pubblici.
Da
questo punto di vista, sarebbe stato più interessante indagare la composizione
interna dei fondi pubblici dati alle organizzazioni. Mi interesserebbe
rispondere alla domanda: “quanti soldi
europei vengono presi dalle organizzazioni di questo settore?” Io ho
l’impressione che se ne prendano molti di meno di quelli che vengono offerti.
E pertanto il problema non è di sensibilità o disponibilità degli
interlocutori, ma di capacità di
accedere a tali fondi.
Per
quanto riguarda il privato, dovremmo prendere in considerazione il fatto che
manca una politica delle organizzazioni non profit piccole e medie sulle imprese
private e sugli enti di origine bancaria.
Noi
sappiamo che le imprese, tradizionalmente, finanziano soggetti che sono visibili
e che quindi possono garantire un impatto comunicativo e/o pubblicitario delle
attività di sponsorizzazione. Ma sappiamo anche che le imprese cercano al livello locale legami con la comunità e che
quindi vi è una offerta di risorse verso questo obiettivo.
Ora,
la ricerca, seppure indirettamente, mette in evidenza che vi è un
ulteriore modello che è in crisi ed è il modello di finanziamento al non
profit che i privati (aziende, imprese, sponsor, ecc.) adottano. Intendo
parlare di un modello in cui il finanziamento al non profit equivale a forme di
pubblicità e di rafforzamento del marketing. Anche per questo modello ai può
affermare che funziona quasi esclusivamente per le grandi organizzazioni sia
profit che non profit. Organizzazioni per le quali un manifesto dove mettere il
logo, od uno spettacolo con ripresa televisiva possono garantire visibilità e
pubblicità agli sponsor. Non va bene per le piccole organizzazioni e neanche
per i piccoli finanziatori privati.
L’errore sta quindi nel coniugare il fund raising
solo con il fenomeno “pubblicità e marketing delle imprese”.
Dovremmo provare a coniugare invece il fund raising con il fenomeno “responsabilità sociale delle imprese” o corportate
citizenship”, ossia delle attività strategiche che una azienda realizza
per rafforzare sia il ruolo sia la visibilità nei contesti dove opera.
Questo
fenomeno vede in questi ultimi anni molte imprese impegnate a investire risorse
per svolgere un proprio ruolo sociale
esprimendo una responsabilità per le sorti dello sviluppo della propria comunità
o del pianeta e per la soluzione di problemi grandi e piccoli che coinvolgono la
comunità nella quale operano. Come si vede, siamo lontani dal fenomeno della
pubblicità e delle sponsorizzazioni.
Certo
è che l’ambiente delle imprese, così come quello delle fondazioni bancarie
è molto poco attento a questo tema che invece, negli altri paesi vede gli
imprenditori coinvolti in una piccola rivoluzione culturale.
L’idea
quindi è che prima di andar a chiedere i
soldi a loro, noi si faccia una azione di confronto e di ricerca comune con le
aziende medie e piccole sui bisogni di responsabilità sociale che possono
condividere con il non profit; ossia il “nostro” bisogno di risorse per
sostenere delle politiche sociali di utilità pubblica e il “loro” bisogno
di essere protagonisti di queste politiche sociali per ricoprire un ruolo che
non sia solo quello di produttori di profitto ma anche di soggetti attività per
lo sviluppo e il progresso della società.
6.
CONCLUSIONI
Sulla
base di queste brevi riflessioni, in conclusione, vorrei affermare che ci sono tre
conseguenze che dovrebbero coinvolgere i diversi interlocutori pubblici e
privati nel rinnovamento delle loro politiche per la crescita del non profit.
1
– Incentivare la ricerca per capire i
modelli di fund raising in atto, i loro elementi di successo e di insuccesso
e la ricerca sui bisogni formativi delle organizzazioni non profit: una ricerca
volta a mettere a punto modelli di sviluppo imprenditoriale delle piccole e
medie organizzazioni non profit in cui il fund raising gioca un ruolo
essenziale.
2
– Investire, al livello delle politiche pubbliche, sulla
diffusione di una cultura di impresa sociale e quindi una politica di capacity
building delle organizzazioni senza la quale difficilmente possono produrre
nuovi posti di lavoro. Questo vuol dire anche una diversa modalità di
formazione al non profit e vuol dire anche una azione di sostegno delle
organizzazioni nell’accesso ai fondi europei e nella produzione di servizi
reali per il fund raising (informazione, statistiche, documentazione, banche
dati, ecc.).
3
– Una azione di sensibilizzazione degli
interlocutori delle organizzazioni non profit circa l’importanza e il
significato della loro offerta di attività, servizi, iniziative sociali.
Per il privato, guardando verso una
partnership con il settore non profit che sostituisca l’approccio di marketing
con l’approccio degli investimenti sociali di una impresa. Per il pubblico,
guardando al proprio ruolo di controllo e d indirizzo non come funzione di
valutazione della efficienza economica delle imprese, ma anche e soprattutto
come funzione di valutazione della efficacia sociale della mission sostenute
dalle organizzazioni, premiandone la qualità rispetto al rigore formale o alla
compatibilità giuridico-amministrativa.
[1] Massimo Coen Cagli è ricercatore del Gruppo CERFE, un ente di ricerca e formazione che opera al livello nazionale ed internazionale. E’ esperto di fund raising e di formazione per le organizzazioni non profit. Per il Gruppo CERFE ha collaborato alla realizzazione di numerose attività per il non profit, quali il Corso di fund raising per dirigenti delle organizzazioni non profit, commissionato dalla Società per la Imprenditorialità Giovanile (1997) e la ricerca-azione “ Modello formativo sul fund raising per le organizzazioni non profit”, commissionata dalla C.E., nell’ambito della quale è stato redatto un manuale per la formazione al fund raising . E’ anche co-autore del Manuale di fund raising, edito da Carocci editore nel 1998.
[2] Si fa riferimento alla indagine empirica sulle organizzazioni non profit che operano nel campo dello spettacolo , realizzata dalaDipartaimento di Economia Pubblica della Università di Modena, nel quadro del progetto europeo NOFRET, presentato durante il Convegno.