IL FUND RAISING: UNA SFIDA PER LA

IMPRESA NON PROFIT

Intervento di Massimo Coen Cagli[1]

 

 

 

Ho avuto il piacere di partecipare con una mia relazione al seminario NOFRET di S. Arcangelo di Romagna, nel luglio scorso. In quel contesto mi fu chiesto di presentare la disciplina del fund raising e di porre in evidenza le condizioni essenziali per metterla in pratica con profitto.

 

Non penso quindi oggi di illustrare nuovamente cosa sia il fund raising, anche nella consapevolezza che nelle cartelline è presente la raccolta delle slides presentate a S. Arcangelo. Vorrei solo ricordare che per fund raising intendiamo una attività strategica di reperimento di risorse finanziarie volte a garantire la sostenibilità di una organizzazione nel tempo e a promuovere il suo sviluppo costante, affermando la sua mission sociale verso una molteplicità di interlocutori. Questa attività strategica si basa su un processo di progettazione continua che va dalla sensibilizzazione e preparazione della associazione che fa fund raising, alla analisi interna dell’associazione, dei suoi punti di forza e di debolezza e dell'ambiente nel quale opera, alla individuazione delle fonti di finanziamento potenziali, alla pianificazione dei mezzi e degli strumenti per raccogliere i fondi, alla messa in opera del piano, alla sua valutazione e, infine, alla riprogettazione, sulla base dei risultati, delle proprie strategie di fund raising.

 

Pertanto, secondo questo approccio, il fund raising ha una doppia valenza che dobbiamo tener sempre ben presente:

 

·       da un lato è un insieme di tecniche per rendere più efficace l’afflusso di risorse finanziarie necessarie a raggiunger gli scopi di una organizzazione;

·       dall’altra è il cardine di un modello organizzativo-professionale attraverso il quale una organizzazione assume il carattere di impresa mettendo sotto controllo, in modo sistematico, le aree di rischi e problemi connessi con il suo sviluppo.

 

 

1 - FUND RAISING COME SFIDA

 

La ricerca che ci è stata presentata[2] in effetti mette in evidenza una serie di fenomeni che fanno riferimento ad entrambe le anime del fund raising e sottolinea come, di fronte ai problemi strettamente finanziari una organizzazione non possa non tematizzare ed affrontare la propria dimensione organizzativa e professionale.

Sotto questo aspetto  il fund raising per le organizzazioni non profit si configura, soprattutto nel contesto italiano, come una grande sfida che coinvolge le organizzazioni in un processo di imprenditorializzazione.

 

Per impresa non profit, intendiamo un ente senza fini di lucro – di qualsiasi tipo - , dotato di una rilevante mission sociale, la cui organizzazione è improntata al proprio sviluppo costante, autosostenibile e orientato alla qualità del lavoro. L'essere impresa, quindi, mette inevitabilmente in evidenza il tema della scelta per il cambiamento dei modelli organizzativi e l'assunzione del rischio e della responsabilità sia nei confronti dei destini personali e professionali dei dirigenti – in quanto “imprenditori sociali” -, sia nei confronti della società - ossia dei beneficiari, destinatari e dei partner delle attività di una organizzazione -, in relazione alla efficacia e pertinenza dell’azione svolta.

 

Per entrare nello specifico, guardando a questo itinerario di imprenditorializzazione, nella ricerca ho riscontrato elementi di una “buona novella”, ossia di un successo in atto, anche sul piano economico-finanziario, delle organizzazioni che tendono ad assumere aspetti imprenditoriali; sia elementi di una “cattiva notizia”, ossia la presenza di ostacoli e inciampi ricorrenti in tale processo di imprenditorializzazione.

 

Isolare e commentare questi aspetti è il ruolo che mi sono proposto. E lo farò mettendo in evidenza alcune delle buone e delle cattive notizie che emergono dalla ricerca.

 

 

2. “PICCOLO È BRUTTO”

 

La prima cattiva notizia è che gli enti di dimensione più piccola appaiono manifestare difficoltà maggiori nella raccolta dei fondi. Si tratta, purtroppo di una conferma e non di una scoperta. Tuttavia emergono elementi nuovi che ci aiutano a riflettere circa una possibile risposta convincente a tale problema.

 

Infatti il tema della piccola dimensione, o meglio, dell’essere piccoli e quindi deboli, rispetto ad altri soggetti più grandi e più forti che vivono nel nostro medesimo ambiente, appare essere un tema dominato dalla nostra sfera cognitiva, ossia la sfera delle rappresentazioni che vengono prodotte da noi o da altri sulla realtà e della nostra cultura, piuttosto che dalla sfera operazionale, ossia dalla oggettività e materialità delle cose.

 

Mi piace sottolineare che, nel mondo imprenditoriale da circa 10 anni, in tutto il modo, l’essere piccioli, più che un freno o una “tara”, è sempre di più ritenuto un valore positivo e un fattore concorrenziale decisivo per le imprese. Il paradigma della “nuova economia” mi sembra che sia tutto basato su valori quali esilità, flessibilità, relatività dei patrimoni tecnici, economici, organizzativi e strutturali, rispetto ai patrimoni di conoscenze, know-how e relazioni sociali.

Come mai nel non profit questo modello stenta ad affermarsi come modello vincente?

E qui entra in ballo quello che io ho chiamato la sfera cognitiva: mi pare che vi sia da parte delle organizzazioni non profit,  una  rappresentazione falsata di se stessi. Sotto questo aspetto possiamo parlare di un fenomeno di sottovalutazione delle proprie potenzialità o di cecità nei confronti dei propri punti di forza.

Sul piano della disciplina del fund raising, possiamo affermare che la ricerca mette a nudo il fatto che uno dei concetti chiave, ossia quello che per fare fund raising è necessario fare una analisi attenta della propria organizzazione e avere una chiara visione di dove si vuole arrivare, sia un concetto del tutto ignorato dagli enti che fanno raccolta di fondi, con effetti paradossali circa la reale efficacia delle attività realizzate. In altri termini mi sembra che il problema della piccolezza sia legato ad una proiezione sulla realtà operativa delle preoccupazioni e delle remore a fare fund raising proprio dei dirigenti delle organizzazioni e non il frutto di una analisi oggettiva dei punti di forza e dei punti di debolezza.

 

Un altro concetto chiave, ossia quello di analisi oggettiva del mercato al quale ci si intende rivolgere e quindi di cosa vogliono i nostri interlocutori finanziari, appare ugualmente ignorato. Infatti, spesso, la rappresentazione della propria piccolezza va a braccetto con una rappresentazione circa gli interlocutori di una organizzazione, come soggetti che non hanno interesse per enti piccoli o per le cause sociali. In verità questa rappresentazione non trova riscontri convincenti nella realtà.

 

Tuttavia, non me la sento di giustificare questa scarsa efficacia nel fund raising solo con il fenomeno del gap tra la dimensione cognitiva delle organizzazioni e la loro dimensione operazionale. Vi è una responsabilità più ampia che colpisce, in primo luogo, proprio noi che siamo studiosi; formatori e operatori del fund raising. Credo che dobbiamo prendere atto che, mentre sono state messe a punto tecniche e metodiche di raccolta fondi, o “modelli di fund raising”, che sono adatti per medie e grandi organizzazioni, conosciute e radicate da tempo in un determinato ambiente, non siamo stati in grado di produrre modelli efficaci di fund raising per quelle organizzazioni piccole che operano in contesti territoriali molto determinati e su cause sociali (come ad esempio l’arte, lo spettacolo i beni ambientali e culturali) che sono meno conosciute rispetto a quelle ecologiste, della ricerca medica, dell’aiuto umanitario.

 

Anzi, è successo di peggio. Molti esperti di fund raising hanno offerto alle piccole organizzazioni modelli di fund raising per grandi organizzazioni, fatti di direct mail (le famose lettere di raccolta fondi), campagne di pubblicità, eventi spettacolari, campagne di tesseramento e quanto altro, costringendole ad investire, se non proprio risorse economiche, almeno risorse umane e tempo di lavoro per risultati tutt’altro che soddisfacenti.

 

Insomma credo che quella dello studio e della messa a punto di modelli differenziati di fund raising rivolti alle piccole organizzazioni sia una grande sfida che oggi dobbiamo affrontare soprattutto nel contesto italiano, dove le piccole organizzazioni rappresentano non meno dell’80-85% del settore non profit. Nel caso del mondo dello spettacolo, la ricerca mette in evidenza che la maggioranza delle organizzazioni non sono cooperative o fondazioni ma associazioni non riconosciute, spesso fatte da pochissimi addetti. A costoro non sappiamo quali modelli di fund raising offrire.

 

Così come è vero che queste organizzazioni oltre ad essere destinatarie di consulenze e di formazione tecniche dovrebbero anche essere coinvolte come soggetti protagonisti di una ricerca volta a capire quale sia il modello migliore di fund raising per loro. Questo punto di vista apre nuove prospettive per la formazione e per la consulenza professionale al non profit, consulenze e formazione che dovrebbero configurarsi sempre più come una ricerca-azione circa la sostenibilità delle organizzazioni e non come semplice trasmissione di tecnologie.

 

3. LE FALSE RAPPRESENTAZIONI: UN MODELLO ORGANIZZATIVO AMBIVALENTE

Abbiamo parlato quindi di un difetto di rappresentazione della realtà, di se stessi e della problematica del fund raising da parte delle organizzazioni. A conferma di questo fenomeno, che per altro trova giustificazione anche in una scarsa diffusione della disciplina del fund raising e di formazione di base per i leader delle organizzazioni non profit, troviamo riscontri importanti in altri risultati della ricerca.

 

Intendo parlare della rappresentazione circa i punti di forza e i punti di debolezza fornite dagli intervistati. Noto che relativamente alle risposte date dagli italiani, la comunicazione e la capacità progettuale vengono rappresentati come punti di forza, ma in modo sostanzialmente minore, rispetto a quanto viene fatto dalle organizzazioni francesi e tedesche.

 

Comunicazione e capacità professionale sono due tra gli elementi più importanti della dimensione imprenditoriale e questo conferma che le associazioni hanno minore capacità di proporre una loro convincente dimensione imprenditoriale agli interlocutori finanziari.

 

D’altro canto, i punti di forza ritenuti più importanti, rispetto all’esperienza estera, sono quelli della soddisfazione del pubblico e quello della qualità degli spettacoli. Si pone quindi un accento importante sull’aspetto della produzione e quindi della qualità - sia quella percepita (dal pubblico), sia quella oggettiva - che sono invece uno dei cardini della dimensione imprenditoriale.

 

Emerge quindi una certa ambivalenza nel modello organizzativo che, da un lato, appare restio ad incrementare la professionalità nella gestione degli elementi imprenditoriali e, dall’altro, sembra orientato invece a caratterizzare il rapporto con il fund raising più sulla capacità di produrre qualità che sulle capacità di relazione con gli interlocutori finanziari.

 

E veniamo ai punti di debolezza e alle difficoltà riscontrate nella ricerca dei fondi. Mi pare che si possano evidenziare questi aspetti:

 

·       mancanza di risorse per investimenti

·       mancanza di personale professionalizzato

·       scarse informazioni

·       scarsa sensibilità da parte degli interlocutori

 

Anche queste sono conferme. Già altre ricerche, tra le quali una condotta dal Gruppo CERFE circa i bisogni formativi dei dirigenti delle organizzazioni non profit in merito al fund raising, hanno messo in evidenza che, a fronte di un forte contenuto innovativo e imprenditoriale delle mission e delle iniziative delle organizzazioni, vi è la quasi totale assenza di competenze specifiche sul piano del management e del fund raising. In secondo luogo, oltre al bisogno di conoscenze specifiche, vi è anche un bisogno di motivazioni professionali, di identità della dirigenza non profit, di attitudini e, soprattutto di attività pratica, mancanza che traspare dai pareri e dai racconti circa il fund raising, fatti dai dirigenti non profit.

 

Dietro questo bisogno di conoscenze, vi è un bisogno di scegliere, ad esempio, di fare o meno dell’attività svolta nella organizzazione, il proprio impegno professionale e occupazionale duraturo. Dietro il bisogno di strumenti tecnici adeguati, vi è un bisogno di adottare una identità di imprenditore non profit che rischia “in proprio” per il raggiungimento di una causa sociale.

 

In altri termini, la mancanza di risorse economiche ed umane da investire nelle attività di fund raising, o la mancanza di forme efficaci di comunicazione verso l’esterno, non sono solo aspetti di debolezza strutturale delle organizzazioni e neanche solo lacune nel campo delle conoscenze, ma mettono in evidenza bisogni essenziali per la imprenditorialità sociale o non profit che riguardano:

 

·       La identità professionale  (quale è il mio ruolo professionale, in quale figura mi riconosco)

·       Le motivazioni a fare fund raising e quindi ad esporsi ad una serie di rischi per raggiungere un obiettivo che in  qualche modo è anche personale

·       L’attitudine a essere imprenditore e dirigente/manager

·       Il confronto con la realtà, con l’ambiente del fund raising (conoscere come funziona il mercato, chi sono e cosa vogliono i finanziatori, come fanno gli altri gruppi che hanno avuto successo nel fund raising)

·       La responsabilità nei confronti delle sorti dell’impresa

 

 

In conclusione, questi dati della ricerca ci dicono che il settore delle piccole organizzazioni non profit presentano un proprio modello di sostegno che è ambivalente, ossia che contrappone ad una forte spinta di tipo imprenditoriale verso la promozione di nuove cause sociali e iniziative, una controspinta non-imprenditoriale verso la scarsa professionalizzazione delle azioni pratiche che è necessario svolgere per raggiungere i fini.

 

Se andiamo a vedere gli unici indicatori oggettivi che dalla ricerca emergono circa la presenza o meno di un contenuto imprenditoriale delle organizzazioni, scopriamo che mancano del tutto gli investimenti strategici. Tanto è vero che:

 

·       si spende poco o nulla per controllo di gestione e qualità anche perché il sistema è largamente assente

·       si spende poco o nulla per la raccolta di fondi

·       non si fa accesso al credito quasi per nulla, peraltro senza neanche provar ad accedere ai fondi etici

·       in molti casi (anche se meno del 50%) non si fa neanche la rassegna stampa

·       non si raccolgono informazioni sulla opportunità di finanziamento o di partnership o sulla legislazione nazionale e quindi tanto più locale.

 

Tuttavia la ricerca non fornisce ancora informazioni circa i perché di tale ambivalenza del modello imprenditoriale delle piccole organizzazioni.

 

 

4.  TANTI E VIVI, NONOSTANTE TUTTO

Ma non dobbiamo nascondere che la ricerca mette in evidenza anche dei dati estremamente positivi, tanto più se teniamo conto degli elementi di crisi del sistema di cui abbiamo parlato prima.

 

Innanzitutto va detto che senza investimenti, senza professionalizzazione, senza aver acquisito una dimensione imprenditoriale, siamo comunque di fronte ad almeno 30.000 organizzazioni che esistono non solo sulla carta. Anzi, organizzazioni che sulla carta forse non esistono proprio (statuti provvisori o assenza di statuti, ecc.) ma che invece esistono nella sostanza. E se esistono, vuol dire che attorno a loro si muove un insieme di risorse non indifferenti. Se ipotizziamo che ognuna di queste organizzazioni abbia in un circa 10.000.000 di bilancio, possiamo sicuramente affermare che si tratta di un settore che ha un peso economico annuo di 300 miliardi di lire. Ma qui intendo parlare di risorse non solo finanziarie, ma anche umane, organizzative o in termini di servizi prestati e regalati, che hanno però un valore economico non indifferente.

 

Questa realtà (che per me è una sorpresa) ci dice che sotto le spoglie di soggetti sfiduciati circa le possibilità di fare fund raising con successo, ci sono modelli attivi di mobilitazione delle risorse che nessuno conosce bene. E non li conosciamo noi stessi operatori di fund raising. Forse conoscendo meglio questa realtà sommersa potremmo lavorare meglio alla messa a punto di modelli e strumenti per consolidare e sviluppare questo sistema di raccolta di risorse.

 

E va detto di più. Queste organizzazioni esprimono una forte propensione al servizio che crea un plus valore nel mondo dello spettacolo. E’ straordinario vedere come in tutti i campi di interesse (musica, arte, teatro) e qualunque sia l’attività prevalente (spettacoli, produzione, distribuzione) la grande maggioranza delle organizzazioni fa formazione. Siamo di fronte ad un servizio alla persona di tipo post moderno e innovativo che risponde ad un bisogno diffuso che difficilmente trova risposte in altri enti pubblici o privati.

 

Questa  è una carta vincente. Questo è un valore competitivo e strategico per il mercato. Questo è un carattere distintivo che altri potenziali concorrenti non hanno. Questi due dati, a mio avviso, forniscono una risposta categorica e lapidaria alla domanda: “ma c’è un futuro possibile per queste organizzazioni da un punto di vista del fund raising?” E la risposta è si, indubitabilmente.

 

 

 

 

5.  I FATTORI ESOGENI DI DEBOLEZZA.

Se fino ad adesso abbiamo parlato soprattutto dei fattori endogeni di forza e debolezza (ossia legati alla dimensione interna delle organizzazioni e del settore), ora dobbiamo seppure molto sinteticamente dare uno sguardo agli ostacoli legati a fattori esterni alle organizzazioni.

 

Si fa riferimento due aree di problemi:

 

·       La prima è il peso della burocrazia e l’assenza di un sistema di agevolazioni e facilitazioni circa i finanziamenti. Su questo non posso che confermare che il nostro paese si deve adeguare quanto prima a standard di tipo europeo, alleggerendo il carico burocratico per il settore e agevolando i rapporti di tipo economico-finanziario con potenziali finanziatori.

·       La seconda è più interessante e riguarda la insensibilità degli interlocutori.

 

Su questo vorrei esprimere una interpretazione differente anche se non contrastante con quella fornita dai ricercatori, circa i dati relativi alla composizione delle entrate. Dalla ricerca  a me pare che esca sconfessata una interpretazione corrente data alla esiguità del fund raising italiano. Si è sempre detto che le organizzazioni non profit hanno uno scarso fund raising per ché puntano troppo sui fondi pubblici. Ma dalla ricerca mi sembra che emerga che anche in Germania e Francia la composizione dei fondi tende a privilegiare le fonti pubbliche. Pertanto non mi sembra che si possa giustificare una scarsa sensibilità dei privati. Si tratta di prendere atto che questo genere di organizzazioni si colloca in un settore di mercato che riguarda in parte rilevante i fondi pubblici.

 

Da questo punto di vista, sarebbe stato più interessante indagare la composizione interna dei fondi pubblici dati alle organizzazioni. Mi interesserebbe rispondere alla domanda: “quanti soldi europei vengono presi dalle organizzazioni di questo settore?” Io ho l’impressione che se ne prendano molti di meno di quelli che vengono offerti. E pertanto il problema non è di sensibilità o disponibilità degli interlocutori, ma di capacità di accedere a tali fondi.

 

Per quanto riguarda il privato, dovremmo prendere in considerazione il fatto che manca una politica delle organizzazioni non profit piccole e medie sulle imprese private e sugli enti di origine bancaria.

 

Noi sappiamo che le imprese, tradizionalmente, finanziano soggetti che sono visibili e che quindi possono garantire un impatto comunicativo e/o pubblicitario delle attività di sponsorizzazione. Ma sappiamo anche che le imprese cercano al livello locale legami con la comunità e che quindi vi è una offerta di risorse verso questo obiettivo.

 

Ora, la ricerca, seppure indirettamente, mette in evidenza che vi è un ulteriore modello che è in crisi ed è il modello di finanziamento al non profit che i privati (aziende, imprese, sponsor, ecc.) adottano. Intendo parlare di un modello in cui il finanziamento al non profit equivale a forme di pubblicità e di rafforzamento del marketing. Anche per questo modello ai può affermare che funziona quasi esclusivamente per le grandi organizzazioni sia profit che non profit. Organizzazioni per le quali un manifesto dove mettere il logo, od uno spettacolo con ripresa televisiva possono garantire visibilità e pubblicità agli sponsor. Non va bene per le piccole organizzazioni e neanche per i piccoli finanziatori privati.

 

L’errore sta quindi nel coniugare il fund raising solo con il fenomeno “pubblicità e marketing delle imprese”. Dovremmo provare a coniugare invece il fund raising con il fenomeno “responsabilità sociale delle imprese” o corportate citizenship”, ossia delle attività strategiche che una azienda realizza per rafforzare sia il ruolo sia la visibilità nei contesti dove opera.

 

Questo fenomeno vede in questi ultimi anni molte imprese impegnate a investire risorse per svolgere un proprio ruolo sociale esprimendo una responsabilità per le sorti dello sviluppo della propria comunità o del pianeta e per la soluzione di problemi grandi e piccoli che coinvolgono la comunità nella quale operano. Come si vede, siamo lontani dal fenomeno della pubblicità e delle sponsorizzazioni.

 

Certo è che l’ambiente delle imprese, così come quello delle fondazioni bancarie è molto poco attento a questo tema che invece, negli altri paesi vede gli imprenditori coinvolti in una piccola rivoluzione culturale.

 

L’idea quindi è che prima di andar a chiedere i soldi a loro, noi si faccia una azione di confronto e di ricerca comune con le aziende medie e piccole sui bisogni di responsabilità sociale che possono condividere con il non profit; ossia il “nostro” bisogno di risorse per sostenere delle politiche sociali di utilità pubblica e il “loro” bisogno di essere protagonisti di queste politiche sociali per ricoprire un ruolo che non sia solo quello di produttori di profitto ma anche di soggetti attività per lo sviluppo e il progresso della società.

 

 

 

 

 

6. CONCLUSIONI

Sulla base di queste brevi riflessioni, in conclusione, vorrei affermare che ci sono tre conseguenze che dovrebbero coinvolgere i diversi interlocutori pubblici e privati nel rinnovamento delle loro politiche per la crescita del non profit.

 

1 – Incentivare la ricerca per capire i modelli di fund raising in atto, i loro elementi di successo e di insuccesso e la ricerca sui bisogni formativi delle organizzazioni non profit: una ricerca volta a mettere a punto modelli di sviluppo imprenditoriale delle piccole e medie organizzazioni non profit in cui il fund raising gioca un ruolo essenziale.

 

2 – Investire, al livello delle politiche pubbliche, sulla diffusione di una cultura di impresa sociale e quindi una politica di capacity building delle organizzazioni senza la quale difficilmente possono produrre nuovi posti di lavoro. Questo vuol dire anche una diversa modalità di formazione al non profit e vuol dire anche una azione di sostegno delle organizzazioni nell’accesso ai fondi europei e nella produzione di servizi reali per il fund raising (informazione, statistiche, documentazione, banche dati, ecc.).

 

3 – Una azione di sensibilizzazione degli interlocutori delle organizzazioni non profit circa l’importanza e il significato della loro offerta di attività, servizi, iniziative sociali. Per il privato, guardando verso una partnership con il settore non profit che sostituisca l’approccio di marketing con l’approccio degli investimenti sociali di una impresa. Per il pubblico, guardando al proprio ruolo di controllo e d indirizzo non come funzione di valutazione della efficienza economica delle imprese, ma anche e soprattutto come funzione di valutazione della efficacia sociale della mission sostenute dalle organizzazioni, premiandone la qualità rispetto al rigore formale o alla compatibilità giuridico-amministrativa.

 



[1] Massimo Coen Cagli è ricercatore del Gruppo CERFE, un ente di ricerca e formazione che opera al livello nazionale ed internazionale. E’ esperto di fund raising e di formazione per le organizzazioni non profit. Per il Gruppo CERFE ha collaborato alla realizzazione di numerose attività per il non profit, quali il Corso di fund raising per dirigenti delle organizzazioni non profit, commissionato dalla Società per la Imprenditorialità Giovanile (1997) e la ricerca-azione “ Modello formativo sul fund raising per le organizzazioni non profit”, commissionata dalla C.E., nell’ambito della quale è stato redatto un manuale per la formazione al fund raising . E’ anche co-autore del Manuale di fund raising, edito da Carocci editore nel 1998.

[2] Si fa riferimento alla indagine empirica sulle organizzazioni non profit che operano nel campo dello spettacolo , realizzata dalaDipartaimento di Economia Pubblica della Università di Modena, nel quadro del progetto europeo NOFRET, presentato durante il Convegno.