La Maratona di Milano sta per arrivare al traguardo, con un vero e proprio rave teatrale che durerà (almeno) 12 ore, dalle 17 di venerdì 14 luglio all’alba di sabato 15, all’Officina Generale dell’ATM di via Teodosio 86.
La scommessa della Maratona (curata dal Piccolo Teatro e dall’Associazione Teatri 90, nell’ambito dei progetti del Comune per Milano d’Estate) era quella di far raccontare una città ai suoi cittadini in forma teatrale: abbiamo chiesto a 24 scrittori di scrivere una micropièce ambientata in un’ora e in un luogo della città. E abbiamo chiesto a 24 registi di allestire questi testi, in un gigantesco puzzle.
Nel 2000 abbiamo presentato le 12 pièce che raccontano la Notte, quest’anno (a partire dal 9 luglio) le 12 pièce che compongono il Giorno. Il 14 andranno finalmente in scena tutte le 24 pièce: la Maratona delle Maratone sarà un evento unico che coinvolgerà decine di attori e tecnici (e il pubblico) in un’autentica gara di resistenza teatrale (insomma, una Maratona!).
Per dare un’idea di un progetto che è nato a Milano ma ha un respiro più ampio, può bastare l’elenco degli autori - alcuni al loro debutto come drammaturghi - che hanno aderito al progetto:
PER LA NOTTE Paola Capriolo, Piero Colaprico, Vincenzo Consolo, Matteo Curtoni, Rocco D’Onghia, Franco Loi, Alda Merini, Raul Montanari, Aldo Nove, Renato Sarti, Tiziano Scarpa, Roberto Traverso.
PER IL GIORNO Remo Binosi, Luca Doninelli, Edoardo Erba, Renato Gabrielli, Vivian Lamarque, Antonio Moresco, Valerio Peretti Cucchi, Marco Philopat, Giovanni Raboni, Giampaolo Spinato, Emilio Tadini, Patrizia Valduga & Michelangelo Coviello.
Spero che la cosa ti possa incuriosire e interessare. Per ulteriori info, puoi visitare il sito ufficiale della Maratona di Milano (dove puoi leggere tutti i testi) oppure rivolgenti direttamente a teatri90@libero.it.
L'intreccio tra teatro e nuove tecnologie ha occupato buona parte degli ultimi numeri di "ateatro". Chi volesse fare qualche passo indietro (più o meno cinque secoli) e esaminare uno snodo centrale di questo rapporto, può trovare utili spunti di riflessione nella mostra Teatro e spettacolo nella Firenze dei Medici. Modelli dei luoghi teatrali a cura di Elvira Garbero Zorzi e Mario Sperenzi, allestita a Palazzo Medici Ricciardi di Firenze (è aperta fino al 9 settembre). Attraverso una serie di strepitose maquette (e altri materiali) ripercorre l'invenzione del teatro moderno, dagli "ingegni" brunelleschiani nelle chiese fiorentine (SS. Annunziata, S. Maria del Carmine, S. Felice in Piazza) alle prime sale per spettacoli (fino al progetto vasariano per il Salone dei Cinquecento), dalle prime scenografie urbane (Bastiano da Sangallo) alle naumachie per Boboli. La mostra fiorentina è un omaggio a Ludovico Zorzi (lo studioso prematuramente scomparso nel 1983) e riprende alcuni dei materiali della mostre da lui curate nel 1975 (Il luogo teatrale a Firenze) e nel 1980 (La scena del principe): i materiali dovrebbero costituire il primo nucleo di una collezione permanente, ospitata a Palazzo Medici Ricciardi.
Per i fan di John Gielgud, tre biografie: le prime due sono novità, la terza una riproposta: Jonathan Croall, Gielgud: A Theatrical Life 1904-2000, Methuen, 2000 (579 pp., £ 20); Sheridan Morley, John G.: Tha Authorised Biography of John Gielgud, Hodder, 2001 (510 pp., £ 20); Gyles Brandreth, John Gielgud: An Actor's Life, Sutton, 2001 (196 pp., £ 6,99).
|
Qualche settimana
fa Filippo Del Corno ha presentato la sua "opera a fumetti" ispirata a
Buzzati: un lavoro interessante - oltre che per i risultati artistici -
anche per le modalità produttive, per la riflessione sulla forma
di un moderno teatro musicale che ne è il presupposto, per la contaminazione
con il rock e per l'uso di nuove tecnologie (Watch Out, lo stesso
software usato per la Lolita di Ronconi).
Le
domande
1) quali sono le forme di teatro
musicale che non si possono-devono più fare e perché (in
breve); credo siano motivi sia di ordine estetico che economico produttivo;
2) quali si possono invece praticare,
che modelli ci sono (o ti piacciono); 2a. (ma a qs punto anche qualcosa
sul tuo principio costruttivo "architettonico" di assemblaggio, che di
fatto "sostituisce la regia);
3) che rapporto ci può essere
con le nuove tecnologie (diapositive, video); (e anche con i videoclip)
4) in un teatro musicale di questo
genere che ruolo ha l'attore-cantante-interprete?
Le
risposte
1) L'opera lirica è un genere
che ha una sua precisa connotazione derivante dai meccanismi produttivi
e dalle sollecitazioni culturali che tra il '700 e il '900 ne hanno fatto
il modello di espressione teatrale più popolare. Un aspetto rilevante
è costituito dal fatto che la grande diffusione popolare andava
di pari passo con un'elevatissima qualità artistica della creazione
musicale e teatrale. Questo modello correva insieme alle trasformazioni
sociali e culturali della propria epoca fino a che non si è verificato
un progressivo distacco: credo che la storia del teatro sia ricchissima
di generi teatrali che a un certo punto non riescono più a parlare
un linguaggio credibile per i contemporanei. Per quello che so (anche se
ne so poco e non so spiegare il perché) è successo alla tragedia
classica, alla sacra rappresentazione, al teatro elisabettiano, al teatro
verista, e così via. Oggi bisogna prendere atto che non si può
fare l'opera con soprani, tenori e baritoni che interpretano personaggi
su palcoscenici affollati di scenografie realistiche, con cori bande e
orchestre, replicando quindi esattamente la stessa cornice di Traviata.
E' come se Verdi avesse fatto in pieno Ottocento un'opera barocca, con
cantanti castrati, orchestre d'archi, recitativi accompagnati dal cembalo,
trame scombiccherate e prodigi scenici con fuochi d'artificio. E' per questo
che sono molto scettico sul fatto che oggi un compositore possa parlare
usando i vocaboli di una tradizione antica e ormai superata, anche se tenta
di inserire in questa cornice modalità espressive di dirompente
contemporaneità sperimentale. E' come incorniciare Pollock dentro
un altare barocco. Può essere stimolante, ma solo se lo fai per
primo (e in musica ci ha già pensato Cage).
2) Il teatro musicale è invece
sempre esistito: l'unione tra parola, musica e gesto scenico da Eschilo
a Monteverdi, da Haendel a Wagner ha assunto forme molto diverse tra loro
pur mantenendo un principio unificante. E' ancora possibile, e credo lo
sarà sempre, fare teatro musicale, purché mantenga sempre
un alto grado di quello che si può definire il tratto essenziale
dell'espressione artistica del nostro tempo, ossia quella cosa definita
con un termine semplicistico ma efficace "contaminazione". Oggi il teatro
musicale deve essere contaminato, deve tentare di intrecciare linguaggi
e pratiche artistiche lontanissime, proponendosi di essere una sorta di
laboratorio permanente tra le tantissime possibilità diverse di
espressione verbale, musicale e corporea. Per questo ho fatto un'opera
a fumetti e magari farò un'opera a cartoni animati, ma ho fatto
anche un'opera sui pensieri di un acrobata (personificato contemporaneamente
da un attore, un danzatore e un violoncellista, oltre che dalle sue proprie
fotografie) e mi piacerebbe fare un'istant opera, un'opera di inchiesta
giornalistica. E un po' alla rinfusa vorrei dire che il teatro musicale
che mi interessa fare utilizza pochi cantanti e comunque mai cantanti che
si debbano psicologicamente identificare con il loro personaggio così
come invece deve assolutamente fare (e guai se non lo facesse) il soprano
che interpreta Violetta Valery.
Il teatro musicale che mi interessa
fare non occupa il luogo scenico con la simulazione di ambienti dove si
dovrebbe svolgere l'azione, ma inventandosi sempre nuove forme di spazializzazione
dell'evento scenico. Il teatro musicale che mi interessa fare può
chiamarsi ancora opera, purché non sia qualcosa che abbia gli stessi
criteri di narrazione teatrale e modalità produttive che si utilizzerebbero
per allestire La Traviata. E' difficile indicare un modello proprio
perché l'opera di oggi non può trovare espressione in un
modello preciso e replicabile: forse il modello giusto è non avere
modelli. La conseguenza è una radicale trasformazione del ruolo
del compositore: non si tratta di scrivere solo della buona musica su un
testo fatto da qualcun altro perché venga messo in scena da qualcun
altro ancora e poi replicato chissà dove da chissà chi. Oggi
il compositore deve (dovrebbe) costruirsi ogni volta una squadra diversa
che possa progettare insieme a lui ogni volta il percorso creativo giusto
per quello che si vuole raccontare; un percorso che sarà inevitabilmente
sperimentale e accidentato, ad altissimo grado di contaminazione tra le
diverse esperienze che sono coinvolte.
Per Orfeo a fumetti, ma
anche in altre precedenti esperienze di teatro musicale, ho fatto lavorare
separatamente le persone coinvolte nel progetto, assemblando il risultato
del loro lavoro solo all'ultimo momento. Ho scelto insieme a Manuel Cicchetti
le tavole del libro di Buzzati e ci siamo scambiati molte idee su quale
doveva essere l'impatto visivo del risultato finale. Dopodiché ho
lasciato che fosse lui, insieme a Mario Flandoli e Donatella Di Prete,
a imbastire la regia delle immagini e il progetto di scenografia multimediale.
Intanto scrivevo la partitura dell'opera, e insieme a Carlo Boccadoro abbiamo
realizzato prove separate con cantanti e strumentisti. Inoltre mi incontravo
spesso con Omar Pedrini, gli facevo ascoltare quello che stavo scrivendo
e insieme abbiamo scelto i pezzi per i suoi interventi, continuando a scambiarci
idee e stimoli nuovi. Terminata la partitura ho potuto dare a Cicchetti
e Flandoli una scansione temporale precisa della musica per sincronizzare
le immagini. Infine ci sono state le prove con cantanti e musicisti insieme;
poche ore a ridosso della prima ci siamo incontrati finalmente tutti, e
abbiamo messo insieme musica, immagini, canzoni, scene e luci.
E' un sistema di lavoro che ritengo
molto efficace, anche se è piuttosto rischioso; ma mi interessa
mantenere molto alte le singole temperature creative di interpreti e collaboratori,
e questo avviene se ciascuno lavora alla propria parte sentendo una grande
libertà e contemporaneamente la responsabilità di fare qualcosa
che dovrà poi armonizzarsi con il resto del progetto. Mi sembra
che preparare con grande cura i singoli ingredienti e mescolarli soltanto
alla fine dia un gusto di imprevedibilità, ma quindi anche di sorpresa,
all'evento scenico.
La partecipazione di Omar Pedrini
a Orfeo a fumetti è stato uno degli ingredienti più
interessanti e stimolanti, ma anche rischiosi, da preparare. La contaminazione
come tratto distintivo di un nuovo teatro musicale impone il confronto
con gli altri linguaggi musicali che popolano la nostra contemporaneità.
Lavorare con stili, idee e pratiche diverse fa' nascere tantissimi nuovi
stimoli creativi, e spesso questi stimoli passano anche al pubblico che
ascolta, che conosce e sperimenta insieme agli autori stessi nuove possibilità
espressive. In Orfeo a fumetti avere in scena una rockstar è
stata una naturale conseguenza della genialissima intuizione di Buzzati:
il potere magico e incantatorio del cantore mitico oggi si incarna nel
carisma quasi sciamanico di una rock-star. E' così che ho deciso
di coinvolgere Omar Pedrini, leader dei Timoria, ossia del gruppo più
interessante e innovativo nella scena del rock italiano. Ma soprattutto
quando ho visto un concerto dei Timoria dal vivo, la straordinaria potenza
della presenza scenica di Omar mi ha convinto definitivamente: il mio Orfi
non poteva essere che lui. La grande considerazione che ho per il lavoro
di Pedrini mi ha spinto a invitarlo a far parte del progetto non come puro
esecutore, ma anche nella sua veste di autore, facendo incontrare la sua
e la mia esperienza compositiva nel suo terzo intervento, dove con la sua
canzone E' così facile la voce di Omar Pedrini veniva accompagnata
da una mia versione strumentale del pezzo.
Orfeo a fumetti è
un'esperienza di teatro musicale abbastanza strana, per il suo percorso
produttivo, per le singole personalità che hanno partecipato alla
realizzazione, e forse per il punto di partenza, ossia l'idea di fare un'opera
su un libro a fumetti di un grande scrittore-pittore che riguarda il mito
che ha dato vita a tantissime altre esperienze di opere liriche e balletti.
Ma Orfeo a fumetti è un lavoro che riprende la lezione di
tanto teatro musicale novecentesco, rispondendo a criteri di brevità
(secchezza narrativa), praticità (impianto scenico facilmente trasportabile
e adattabile), e soprattutto economicità. In quest'opera a fumetti
non c'è un'orchestra di ente lirico, ma un ensemble di sei strumenti;
non ci sono cinque cantanti divi più otto comprimari, ma tre cantanti
di musica antica, con un bagaglio di grande preparazione e professionalità;
non c'è coro; non ci sono comparse; non c'è quasi allestimento;
non c'è struttura produttiva (l'intera produzione è stata
realizzata dal lavoro di un'unica persona, Andrea Minetto). Inoltre questa
agile povertà mi ha permesso di scegliere uno per uno i collaboratori,
senza dover cedere a compromessi di nessun tipo, e realizzare completamente
quello che volevo.
3) Le nuove tecnologie sono ingredienti
di contaminazione proprio perché sanno abitare lo spazio scenico
in maniera molto diversa da quelle tradizionali. Purché non siano
un feticcio le nuove tecnologie sono a volte indispensabili per capire
quella che è la giusta direzione anche per il compositore stesso.
Se non fossi venuto a conoscenza delle possibilità del software
di WatchOut
non avrei potuto scrivere la musica di Orfeo a fumetti
così
come è.
Watch Out è un software
che permette di "animare" tavole disegnate, muovendole sullo schermo, miscelando
ingressi e uscite delle proiezioni, diminuendo e aumentando intensità
e gradazioni dei colori. Mi ha affascinato perché era proprio quello
che era necessario per simulare quel movimento che il lettore imprime alle
immagini di un libro a fumetti, sfogliando le pagine a diverse velocità,
concentrando la propria attenzione su un particolare e tornando poi a cogliere
l'immagine nel suo insieme. Watch Out permette inoltre di gestire
i testi del fumetto in scansioni cronologiche precise, facendo apparire
e sparire i balloons della medesima immagine seguendo il ritmo della parola
cantata. In questa maniera l'adesione della parola cantata alla parola
scritta e quindi narrativamente "detta" dai personaggi o dalle didascalie
può essere totale; nella mia prospettiva poter controllare questo
aspetto era fondamentale. Il farsi della parola cantata in parola scritta
e quindi parola agita dalla storia è uno degli strumenti drammaturgici
che secondo me rendono interessante l'esperimento di un'opera a fumetti.
4) Il cantante d'opera tradizionale
è morto: basta vedere la triste fine di Pavarotti per capire che
quel ruolo si è definitivamente esaurito. Devo aggiungere che non
mi dispiace troppo: non ho mai amato quel tipo di cantante e i duelli Callas-Tebaldi
mi sono sempre sembrati ancora più stupidi di quelli sportivi. Almeno
nello sport chi arriva primo vince.
|
Il materiale che segue è la base dalla quale abbiamo tratto le solite
chiacchiere che si stampano nei programmi di sala. Tuttavia queste sono
le premesse dell'intero progetto sulla scienza, e sono state scritte molto
prima che il progetto, nel suo insieme, prendesse, concretamente forma,
e assumesse la sua peculiare fisionomia teatrale.
Quello
di rileggere le premesse di un progetto quando questo è ormai già
realizzato è un mio vezzo.
Mi
diverte confrontarle con i risultati ottenuti, e sono soddisfatto quando
questi non le smentiscono.
Un
buon giocatore di biliardo, prima di piazzare il colpo, dichiara l'obiettivo.
E' questione d'onestà.
Certo
a volte capita che il percorso che si inizia a partire dalle premesse ti
porta a scoperte e risultati che neppure si immaginavano, e che questi
risultati si discostino dalle premesse stesse... non importa: solo se le
premesse sono chiare è possibile capire come e quanto ci si è
allontanati, e valutare i risultati ottenuti. Insomma, eccoti le premesse,
i risultati li hai visti, dunque valuta tu.
IL
TEATRO DELLA SCIENZA
la
parabola atomica
IL TEATRO DELLA
SCIENZA - la parabola atomica è un "programma" teatrale che
si articola in tre distinti progetti, ognuno dei quali è frutto
di un autonomo percorso di ricerca che si manifesta nella realizzazione
di un evento spettacolare. La giustapposizione di tali eventi fornisce
un quadro d'insieme complesso e variegato che conserva, come nota dominante,
l'argomento scienza, in particolare la fisica atomica.
Rivivendo l'esemplare
tragitto esistenziale del fisico catanese Ettore Majorana; ripercorrendo
l'incalzare degli eventi che hanno portato all'ecatombe di Hiroshima; osservando
la dolorosa parabola di Julius Robert Oppenheimer, il padre della bomba
atomica, abbiamo acquisito la consapevolezza di qualcosa che noi - inguaribili
umanisti - non riuscivamo a comprendere, non potevamo ammettere: i fisici
atomici con le loro scoperte, le loro invenzioni, hanno influito, non solo
sul nostro secolo, ma sulla nostra stessa vita quotidiana, più di
quanto riusciamo a immaginare e, forse, molto di più di quanto abbiano
potuto influenzarci forme o correnti artistico-letterarie.
Ma sono così
diversi gli scienziati geniali e i grandi artisti?
O non sono piuttosto
uniti dal fatto di possedere la capacità di mostrarci la vera essenza
della natura e dell'uomo, mettendo, di volta in volta, in crisi prospettive
e verità che consideravamo acquisite?
Dunque, se arte e
scienza non sono così lontane come sembrano, il teatro può
rappresentare il ponte dove possono incontrarsi e dove si possa finalmente
imparare che il mondo della scienza non è qualcosa di astruso, astratto,
lontano ma qualcosa di essenziale, concreto, che ci appartiene.
D'altra parte Majorana
potrebbe benissimo essere un personaggio uscito dalla penna di Pirandello;
la storia della bomba atomica è degna di un'epopea brechtiana e
Oppenheimer potrebbe a giusto titolo entrare nella schiera degli eroi che
funestano la Tragedia Greca, e questo è per noi teatranti uno stimolo
già sufficiente per affrontare quegli argomenti scientifici che,
di norma, salvo rare eccezioni, sono lontani dalle tavole del palcoscenico.
Con VARIAZIONI
MAJORANA si racconta la storia di chi, oppresso dal proprio "genio",
avverte un senso di distruzione al quale tenta disperatamente di sottrarsi,
finendo col sottrarre se stesso al mondo.
Nel breve volgere
di una giornata si consuma il mistero della scomparsa di Ettore Majorana.
Nonostante la lettera del 26 marzo: " (...) Il mare mi ha rifiutato e ritornerò
domani a Napoli. (...) Sono a tua disposizione per ulteriori dettagli.
Aff.mo E. Majorana.", che smentisce i propositi di suicidio manifestati
in una lettera del giorno precedente, il fisico catanese non farà
più ritorno, né il suo corpo verrà mai ritrovato.
Basta questo per far avanzare ipotesi che vanno ben al di là di
un "normale" suicidio. C'è chi sostiene che Majorana abbia organizzato
fin nei minimi dettagli la sua scomparsa dal mondo. Perché? Per
sottrarsi a cosa? un fatto è certo: Ettore Majorana era un genio
assoluto della fisica moderna, come non esitava a definirlo lo stesso Enrico
Fermi, col quale ebbe una conflittuale collaborazione all'interno del gruppo
di via Panisperna. Ma era un genio atipico, si poneva ai margini. Odiava
congressi e conferenze, non diffondeva e non pubblicava le sue teorie spesso
illuminanti e anticipatrici. In che misura questa genialità ha influito
sulla sua scomparsa, autentico suicidio o finzione che sia? Difficile stabilirlo.
Nella cassaforte dei ricordi si alternano, con dinamiche di atemporalità
onirica, diverse vicende. Soprattutto il soggiorno in Germania, le frequentazioni
avute con il gotha della fisica mondiale, l'ultimo periodo a Napoli. Rifiuto
e scomparsa. Incapacità di adattarsi. Impossibilità di una
redenzione. Coscienza del singolo e occulti meccanismi del potere. Responsabilità
individuale e decorso della Storia. Non un resoconto biografico. Piuttosto
un tragitto esistenziale complesso, sorretto da una ironia spesso crudele
e tragicomica, che conduce Majorana sulla soglia del non ritorno. Uno spettacolo
dove realtà storica e fantasia si mescolano fino a confondersi,
nella speranza di tessere un racconto il più possibile originale
e autentico.
Con GLI APPRENDISTI
STREGONI di come un pugno di pacifisti diede il via alla costruzione
della bomba atomica si racconta, invece, attraverso un teatro di narrazione,
la storia delle più grandi menti del nostro secolo. Il tempo delle
grandi scoperte scientifiche e dei padri del nucleare, da Curie a Fermi,
da Bohr ad Heisenberg, da Rutherford a Szilard, da Oppenheimer a Teller.
Mezzo secolo di ricerche nel mondo dell'infinitamente piccolo che hanno
messo davanti agli occhi dell'umanità le sconvolgenti possibilità
di applicazione del nuovo simbolo della scienza: l'atomo. I nostri protagonisti,
infatti con i loro studi e i loro esperimenti hanno sì svelato i
segreti più intimi della materia, ma legandosi a doppio filo alla
politica e alle sue esigenze non ne hanno saputo controllare le enormi
valenze distruttive, emergendo così come i principali responsabili
di una delle pagine più tristi della nostra storia: il lancio della
bomba atomica su Hiroshima. Ma l'aspetto paradossale sta nel fatto che
si costruì la bomba esclusivamente per "scopi di pace" e che a lanciarla
fu proprio la più grande democrazia libertaria, gli Stati Uniti
d'America, provocando così un disastro di dimensioni colossali che
superò di gran lunga il folle disegno criminoso di Hitler.
L'AMERICA contro
JULIUS ROBERT OPPENHEIMER: Julius Robert Oppenheimer fu salutato nel
1945 come il "padre della bomba atomica", titolo semplificativo ma quanto
mai meritato se, unanimemente, tutti coloro che parteciparono, a vario
titolo, alla costruzione della bomba, furono concordi nel sostenere che
senza il "sacro zelo" di Oppie, la bomba non sarebbe mai stata realizzata.
Bambino prodigio,
ancora dodicenne, confessò al suo maestro di scuola di sentirsi
"...l'uomo più solo della terra..."; ventotto anni dopo tradì
il suo migliore amico nell'ansia di dimostrare la sua totale dedizione
al piano di costruzione della bomba atomica: il "Progetto Manhattan". Dopo
l'esplosione sperimentale di Alamogordo, che attestava che la bomba era
riuscita, "camminava come Gary Cooper in Mezzogiorno di fuoco" e
dopo l'ecatombe di Hiroshima non esitò, in pubblico, ad alzare le
mani intrecciate nel classico gesto di autocongratulazione di chi ha vinto
un premio. Era amatissimo. Il simbolo della vittoria americana. Ottenne
riconoscimenti d'ogni sorta e acquisì la carica di presidente del
comitato consultivo per l'energia atomica.
Ma quando ottenne
questa carica era già profondamente mutato. Dilaniato da sensi di
colpa e crisi di coscienza si sentiva direttamente responsabile della terrificante
spirale di morte innestata dal lancio della bomba atomica. La sua angoscia
era tale che lo spinse a mostrare il palmo delle mani al presidente Truman
dicendogli: "...Signor presidente, c'è sangue sulle mie mani". Profondamente
depresso, perse per sempre il suo "sacro zelo" e quando capì che
il comitato che presiedeva aveva il "solo compito di fornire armi atomiche"
al governo americano, cominciò a vagheggiare di adoperarsi per un
controllo internazionale sulla produzione di armamenti, per ostacolare
quel crescendo che presto avrebbe trascinato il mondo nell'angoscia della
guerra fredda. Rifiutò, perciò, di aderire al progetto della
"super bomba" - la bomba all'idrogeno, molto più potente dell'atomica
- e divenne ben presto inviso agli ambienti scientifici, politici e militari
che sostenevano tale progetto.
Quando gli Stati
Uniti subirono lo shock dei progressi sovietici in campo atomico Oppenheimer
fu impietosamente accusato del ritardo americano. La commissione per l'energia
atomica decise di ritirargli la fiducia, ma quello che doveva essere un
comune procedimento amministrativo contro un pubblico funzionario, si trasformò
immediatamente, in pieno "maccartismo", in un accanito processo contro
quello che era ormai considerato un traditore della patria. Le accuse formali
ai danni di Oppenheimer riguardavano la sua passata appartenenza a movimenti
comunisti e nascondevano la convinzione che avesse sottilmente frenato
e sabotato il programma per la "super bomba", consentendo così il
sorpasso sovietico in campo atomico. L'isteria "maccartista" aveva trovato
in Oppenheimer il suo "capro espiatorio", distruggendo la vita pubblica
e privata dell'uomo che, appena sette anni prima, era stato acclamato come
un eroe.
Basato su verbali
d'inchiesta e materiali giornalistici L'AMERICA contro JULIUS ROBERT
OPPENHEIMER - è un excursus teatrale di quel "processo". Fra
azione e narrazione l'incredibile parabola di un eroe nazionale ridotto
dall'isteria maccartista a traditore della patria.
Ogni
esperienza porta con sé la speranza (o l'illusione) di aver imparato
qualcosa, ma cosa si sia effettivamente imparato è difficile valutare.
In
questi anni in cui abbiamo avuto a che fare con grandi temi, grandi scienziati
e con l'obiettivo di tradurre tutto ciò in "teatro", abbiamo sempre
lottato contro una tremenda sensazione di inadeguatezza: troppo sfuggente
Majorana per poterlo raccontare; troppo complessa la storia della bomba
atomica per poterla degnamente restituire; troppo giovani per poter rappresentare
Oppenheimer... insomma un casino.
Ci
siamo disperatamente aggrappati all'idea di partenza, abbiamo ostinatamente
creduto che le storie che volevamo raccontare dovevano essere raccontate,
non importa come...Forse
abbiamo imparato che quando ci si affeziona a delle storie (non importa
quanto grandi, difficili o complicate) bisogna raccontarle, anche se, inizialmente,
non ci si sente all'altezza; i limiti strutturali, espressivi, economici
contribuiscono a creare il canone, la forma attraverso la quale queste
vengono raccontate.
Perché
poi ci si affezioni a delle storie piuttosto che ad altre, quello poi è
un mistero.
Quando
abbiamo deciso di fare Oppenheimer i nostri limiti di budget erano
molto severi: potevamo permetterci soltanto quattro attori, a fronte di
almeno otto personaggi; altrettanto severi erano i nostri limiti espressivi:
avevamo, mediamente, trentun anni e tutti i personaggi erano fra i cinquanta
e i sessant'anni. La scelta dell'excursus a metà fra azione e narrazione
è stata la (sofferta ) soluzione formale capace di contenere i nostri
limiti, altrimenti paralizzanti.
La
forma non è particolarmente originale, per carità!, nulla
di nuovo sotto il cielo... ma nella nostra trilogia questo è stato
il criterio di lavoro.
Criterio
che, per ora, ci ha tenuto lontano da compiaciuti esercizi di formalismo
e astruse scelte "misticheggianti", pur esponendoci al rischio di fare
spettacoli magari troppo didascalici.
L'esperienza
del Teatro della Scienza si è conclusa, non sappiamo ancora se i
progetti futuri possano contenere degli elementi di continuità rispetto
a questa trilogia, è ancora troppo presto per poterlo valutare.
|
Dal 24 maggio al 10 giugno Montréal
ha ospitato la Nona edizione del Festival de Théâtre des Amériques.
Nato come manifestazione biennale sotto il sotto il segno della creazione
teatrale contemporanea e diretto sin dalla sua prima edizione, nel 1985,
da Marie-Hélène Falcon, il Festival ha puntato su nomi eccellenti
della sperimentazione e della ricerca, drammaturgica e scenica, internazionale,
ospitando, tra gli altri, Peter Brook, Bob Wilson, Peter Sellars, Richard
Foreman, Tadeusz Kantor, la Raffaello Sanzio, Eimuntas Nekrosius, François
Tanguy. Il Festival ha da sempre offerto anche un palcoscenico privilegiato
per gruppi teatrali canadesi (da Gilles Maheu e il suo teatro Carbone 14,
legato al drammaturgo dell’Ontario Hernan Vader e al suo “espressionismo
sinfonico” a Denis Marleau e il suo Théâtre Ubu - presente
quest’anno con Catoblepas - a Marie Brassard).
Quest’anno per le tre sezioni “The
world at our doorstep”, “New works from Québec” e “Nouvelle scène”,
sono state selezionate opere teatrali del Nord e del Sud America (Canada,
Stati Uniti, Argentina), produzioni internazionali in lingua francese (Francia,
Belgio) e nuovi autori giovani (tra cui segnaliamo Claudie Gagnon con i
suoi dodici folli “tableaux vivants“ che compongono il tabarin Petits
miracles misérables et merveilleux e Stephane Hogue con Ceci
n’est pas une pipe, surreale attacco alla tv verità e
agli effetti della televiolenza sulla realtà). Menzione speciale
per Young@heart chorus del musicista americano Bob Cilman che dirige
una compagnia di scatenati ultrasettantenni che cantano Gloria Gaynor o
ballano sulle musiche di Led Zeppelin in Road to heaven.
Per quest’edizione 2001 spicca
tra tutti la presenza di Ariane Mnouchkine, di Robert Lepage e del coreografo
belga Alain Platel.
Il regista teatrale e cinematografico
Robert Lepage è atterrato al FTA con La face cachée de
la lune, ultima sua creazione “solo”, in cui le invenzioni “moderniste”
dell’artista canadese fanno i conti con una macchina scenografica “antica”,
che evoca insieme materialità, semplicità e attrezzeria,
mentre l’intervento sul palco di una tecnologia discreta, fatta di luci
e di video (indubbiamente il “marchio di fabbrica” della sua scena), finalmente
affrancata dall’obbligo di stupire, accompagna (e sostiene) visivamente
l’intero spettacolo.
Significativa la scelta di inserire
in cartellone la produzione belga Rwanda 94 (in scena attori belgi
e rwandesi), dell’ensemble Groupov sul genocidio in Africa del 1994, scritto
sulla base dell’esperienza della tragedia vissuta e narrata da una testimone
scampata al massacro, Yolanda Mukagasana autrice di due autobiografie relative
all’argomento. La persecuzione continua: alcuni attori della compagnia
non sono riusciti ad ottenere il visto di ingresso in Canada e sono stati
fermati per alcuni giorni alla frontiera dalla autorità per paura
– si legge in “Le Soleil”, giornale di Québec - “che potessero chiedere
asilo politico”, creando un vero incidente diplomatico al margine della
lunga maratona del festival.
Tamburi
sulla diga
Ariane Mnouchkine regista francese
che mette in scena la Storia, la Rivoluzione e la lotta dei popoli per
la libertà (1789, 1793, L’Age d’Or) da quando
è arrivata in Canada nel 1992 con il ciclo degli Atridi ha
creato intorno a sé una vera e propria mitologia; i critici hanno
iniziato ad occuparsene e lo stesso Ministero della cultura del Québec
(insieme con molte altre realtà economico-culturali canadesi) ha
prodotto interamente il suo ultimo spettacolo Tambours sur la digue,
che ha aperto quest’anno il FTA a Lachine, nella periferia di Montréal,
nell’Arena che in inverno ospita una pista di pattinaggio su ghiaccio.
Il testo di Hélene Cixous
- dal sottotitolo “sotto forma di pièce antica per marionette interpretati
da attori” - è ispirato alle inondazioni del 1998 in Cina e trasposte
in un non specificato antico regno dell’impero d’Oriente. Lo spettacolo
è costruito sulla reinvenzione di una antica tradizione teatrale:
come nel teatro giapponese bunraku, i “servi di scena” con abito
nero e cappuccio muovono gli attori-marionette sul palco per questa favola
epico-politica dal finale tragico. Interpretato da un totale di 28 attori,
Tambours sur la digue ha indubbiamente il suo punto di forza nelle
scene corali (il battere dei tamburi di coloro che organizzano la resistenza
e che dovrebbe avvisare la popolazione dell’imminenza del pericolo dell’inondazione)
e sconvolge per la bravura e l’estrema abilità tecnica degli attori
che muovono altri attori sollevandoli, facendoli danzare, duellare, nuotare
in scena, trasformandoli in marionette viventi. In un vero incontro tra
Oriente e Occidente. La profezia di Gordon Craig della Supermarionetta
- che nella sua visione di un “Teatro dell’avvenire” sostituirà
l’attore - sembra avverarsi.
Nel teatrino delle vicende umane
(e delle divisioni sociali) sono messe in scena tutte le sue possibili
variazioni: tradimento e fedeltà, amore e odio, desiderio di ricchezza
e intollerabile povertà. Come nelle favole di cui ci parla Propp,
viene da pensare. Tra tutte queste passioni il fiume passa oltre, sciacquando
omicidi, inondando uomini e terre, facendo sopravvivere, unico cantore,
il manovratore di marionette, il racconta storie di tutte le tradizioni
e di tutti i tempi.
La musica è suonata dal
vivo dal geniale Lemetre, nella compagnia da oltre 15 anni il quale utilizza
nello spettacolo oltre 100 strumenti diversi dalle sonorità indiane
e giapponesi.
Interiors
In una città come Montréal
che conta 3 milioni di abitanti, moltissimi sono i centri artistici, gli
spazi culturali e i teatri: il famoso Cirque du Soleil, famoso per le acrobazie
degli artisti e per aver rinunciato agli animali "teatralizzando" lo spettacolo
circense, ha sede proprio a Montréal. In occasione del Festival
gli spettacoli sono disseminati in vari spazi che vanno dal Monument national
(in una via animata di locali porno, peep show e sexy shop) alla piccolissima
sala dell’Union Française, all’Usine C (ex struttura industriale
ora adibita a sala polifunzionale dalla compagnia fondatrice, Carbone 14),
al teatro La Chappelle, situato in una traversa del vivace Boulevard Saint-Laurent
che mescola nel classicissimo melting pot americano, cinesi, giapponesi,
indiani, greci e messicani.
Il teatro La Chappelle (dove entro
chiedendo il permesso a un “living in a box” che aveva scelto di dormire
sulla soglia del teatro), luogo “underground” alternativo e molto “londinese”,
ospita uno dei migliori spettacoli del Festival. Migliore drammaturgicamente.
Migliore interpretativamente. Il titolo è House, regista
e drammaturgo è Richard Maxwell, rivelazione dell’avanguardia newyorchese,
già attore della compagnia di Foreman e fondatore del New York City
Players. Creato nel 1998, House ha vinto l’Obie Award, uno
dei più prestigiosi riconoscimenti per il teatro americano. Protagonisti
un uomo, una donna, un bambino e un altro uomo che sta cercando chi ha
ucciso il fratello. L’interno della casa ricostruita in scena è,
in realtà, solo una parete bianca davanti al quale gli attori
recitano quasi letteralmente “messi al muro”. Il regista alla conferenza
stampa ha tenuto a precisare che è stato ricostruito con esattezza
di dettagli il muro di Manhattan dove la pièce è stata rappresentata
all’aperto per la prima volta. Per riportare la realtà dentro il
teatro. Dialoghi serrati. La madre ha sempre in mano un piatto con pane
toastato. Lo sfondo e il contesto è quello di una quotidianità
grigia che incute timore. Poche parole infilate tipo domanda e risposta
in sequenza rapida intercalate da un contrappunto di silenzi fotografano
una realtà deformata all’origine. Vestiti “da casa” con tute a buon
mercato dei grandi magazzini e immobili come statue o manichini i protagonisti
ricordano i grandi ritratti iperrealisti in bianco e nero dell’americano
Chuck Close:
Father: Ask
me a question, son.
Son: What
does city like?
Father: Every
city have the same things. Cars, streets, men, governments. There’s no
green but it’s ok. People goes, comes, cries.
Pausa
Father: We
are slaves. Slavery is a work.
Maxwell riesce a colpire nel segno
con dialoghi ridotti all’osso che raccontano il precipizio, la catastrofe
latente. E’ la rappresentazione del quotidiano, eliminato il superfluo;
oltre ogni naturalismo, la scena è piuttosto di un “iperrealismo
postmoderno”, come ha ricordato “Le Devoir”. Che azzera tutto e lascia
spazio unicamente a quella realtà che non possiamo ignorare, alla
povertà, possibile destino di ognuno di noi se la società
per cui lavoriamo non ha abbastanza profitti alla fine dell’anno o al vuoto
di una classe media priva di ideali che non siano incentivi alla produzione.
Anche Allemaal Indiaan (Tutti
indiani, dal folle ragazzo che nello spettacolo indossa il copricapo
di piume da capo indiano) della compagnia belga Victoria et les ballets
C de la B diretta dal regista-coreografo belga Alain Platel insieme con
Arne Sierens guarda a quello che accade nel quotidiano. La situazione è
apparentemente più colorata e mossa rispetto ad House ma
dietro l’allegra e caotica brigata di figli metallari e figlie che vestono
alla moda delle Spice Girls si nasconde il dramma di famiglie che hanno
storie comuni: in una casa manca la madre, in un altro manca il padre.
In una casa qualcuno se ne va, in un’altra si spera che qualcuno ritorni.
Dentro le due case a due piani perfettamente ricostruite una a fianco all’altra,
accade di tutto: i personaggi si spogliano, fanno colazione, cantano, stendono
i panni, litigano, si picchiano, si lasciano, si rincorrono, tentano il
suicidio buttandosi dal tetto. Con un sottofondo musicale da rock opera
tutti insieme ballano sulle note di Nathalie Imbruglia continuando a lavare
i panni nel lavatoio. That’s life! Alain Platel è conosciuto e apprezzato
in Italia soprattutto per il suo precedente lavoro, più vicino al
teatro-danza Bernadetje (1997).
Evidentemente quella di guardare
cosa accade dentro le case è una vera e propria tendenza nell’arte
di questi ultimi anni: i Motus in Italia hanno recentemente presentato
all’interno della rassegna Contemporanea al Museo Pecci di Prato il progetto
teatrale Rooms che avrà la sua prémiere al Festival
di Sant’Arcangelo il prossimo 6 luglio: dentro una camera d’albergo ricreata
nei minimi dettagli gli attori danno vita ad una tipica situazione da film
anni ‘50 con sottofondo di dialoghi tratti dai film di Bigas Luna; Bill
Viola guarda invece ad un’interiorità di tipo spirituale nella video-opera
Catherine’s room: un’unica stanza contiene cinque diverse scene
di vita colte in altrettanti momenti della giornata (le varie fasi del
giorno ma anche le varie fasi della stagione umana). I riquadri video rispondono
ad un’unica legge: quella dello spazio prospettico brunelleschiano.
“Nel mondo
brunelleschiano il meccanismo è la percezione, l’immagine retinica.
Quando l’enfasi è posta sull’atto del vedere un luogo fisico, allora
anche il tempo entra a far parte della pittura. Le immagini diventano “momenti
congelati”, manufatti del passato. Assicurandosi un posto sulla terra,
esse hanno accettato la propria mortalità” (Bill Viola, Nero
video. La mortalità dell’immagine, in Vedere con la mente
e con il cuore, a cura di V. Valentini).
|
Questo testo è
stato scritto per Ravenna Festival, dove Nekrosius porterà il suo
Otello.
Per spiegarvelo però devo
prenderla alla lontana, e raccontare un po’ di storia del teatro del Novecento
(non preoccupatevi, sarà un riassunto molto schematico, di quelli
che i professori si mettono le mani nei capelli a causa delle semplificazioni
e delle scorciatoie da bigino).
Perché ci sono molti modi
per portare sulle scene un qualunque testo teatrale (altrimenti come potrei
decidere che un modo – uno spettacolo – mi piace più di un altro?).
E dunque esiste una storia dei diversi modi di farlo, che val la pena di
schematizzare.
Nell’Ottocento (e in tutta la prima
metà del Novecento), il teatro di tradizione, il glorioso teatro
all’italiana, ruotava intorno a una serie di ruoli codificati all’interno
della compagnia: primattore, primattrice, giovane amoroso, giovane amorosa,
eccetera. Portare in scena un testo significava in primo luogo assegnare
le parti del copione ai differenti ruoli. Era una scelta in qualche modo
«funzionale». Presupponeva testi adatti a quella distribuzione
di ruoli.
Nell’equilibrio della compagnia
il primattore-capocomico poteva avere un peso più o meno grande.
In ogni caso il «mattatore» poteva adattare in maniera radicale
il testo, in base alle esigenze e alle potenzialità della sua performance:
spesso il copione veniva usato come trampolino di lancio per i pezzi di
bravura, quelli che il pubblico apprezzava di più. La messinscena
dello spettacolo diventava così un corpo a corpo tra il primattore
e il suo personaggio (da scavare all’interno del testo, lasciando tutto
il resto in secondo piano), e poi un corpo a corpo tra il grande attore
e il suo pubblico: si innescava così un processo di proiezione e
identificazione tra lo spettatore e l’eroe-attore. Nel caso di Shakespeare,
tra parentesi, questo meccanismo poneva notevoli problemi. Perché
agli spettatori borghesi e benpensanti dell’epoca i protagonisti delle
sue tragedie apparivano personalità abnormi, le loro motivazioni,
e quelle azioni sanguinarie, risultavano «esagerate», addirittura
patologiche. Dunque alcuni attori facevano ricorso a una psicologia di
stampo positivista per interpretare e riprodurre le emozioni e la gestualità
«criminali» di un Otello o di un Macbeth.
Ai primi del Novecento l’atteggiamento
nei confronti dei testi – a cominciare da quelli di Shakespeare – e dello
spettacolo teatrale ha iniziato a cambiare. Da un lato si è affermata
la necessità «filologica» di una maggiore aderenza al
testo, contrapposta alla libertà d’approccio degli attori e alle
concessioni al gusto dell’epoca. Per secoli, prima che Shakespeare diventasse
indiscutibile, il Lear veniva rappresentato con un lieto fine, perché
la doppia morte del re e di Cordelia risultava insopportabile alla sensibilità
di interpreti e pubblico. Parallelamente, a contrastare l’egemonia dell’attore,
si è via via imposta la figura del regista (in Italia nel secondo
dopoguerra grazie soprattutto a Giorgio Strehler e Luchino Visconti), con
l’obiettivo di mantenere la fedeltà al testo e di armonizzare le
diverse componenti dello spettacolo (recitazione, costumi, scenografia,
musiche...), privilegiando rispetto alle convenzioni e ai codici ereditati
dalla tradizione la costruzione di un insieme armonico di elementi, in
un’ottica industriale di divisione del lavoro.
Questo atteggiamento ha un presupposto
implicito: un testo teatrale (qualunque testo, per la verità) è
dotato di un significato che una lettura attenta è in grado di cogliere
– utilizzando il buon senso e gli strumenti della filologia.
In base a questo «principio
d’autorità» (o di trascendenza), diventa possibile trasmettere
il significato del testo (l’unico) dall’autore al regista (il perno centrale,
fulcro e garante dell’autore e delle sue intenzioni). E poi, attraverso
lo spettacolo (e gli attori), trasmetterlo al pubblico. Insomma, colto
il senso complessivo dell’opera e la sua articolazione nei suoi diversi
snodi, il regista – che diventa insieme un «lettore ideale»
– deve farsi interprete e garante delle intenzioni dell’autore e di accordare
a esse tutti i diversi elementi che concorrono all’evento teatrale. In
quest’ottica, il regista elimina ogni rumore di fondo e ogni distrazione:
tutti gli elementi di cui è composto lo spettacolo (parole, suoni,
musica, gesti e colori) devono concorrere a trasmettere il significato
stabilito dal regista.
In altri termini, il compito di
quest’ultimo consiste nel trasformare l’interpretazione in visione (e in
ideologia). Nel tradurre il testo in un mondo coerente di segni. La scoperta
della possibilità di costruire un universo parallelo è inebriante:
perché può fare esplodere la gioia della scoperta delle potenzialità
del gioco teatrale e della macchina barocca dell’illusione: ecco esplodere
il piacere e il fasto del teatro nel teatro e l’insistenza sul teatro come
metafora del mondo.
Questo ottimismo è stato
però successivamente incrinato da altre e più complesse modalità
di lettura della realtà, della ricostruzione delle mentalità
e dell’interpretazione dei testi che la critica letteraria impara ben presto
a conoscere. Le radici di questa incrinatura e di questi approcci più
«sospettosi» si trovano in Marx (nel concetto di «falsa
coscienza» e nell’analisi dell’ideologia), in Nietzsche (e nella
sua critica del concetto di verità), in Freud (con la scoperta dell’inconscio),
nello strutturalismo (con la rivelazione che nel linguaggio e nei rapporti
sociali veniamo «agiti» da logiche e meccanismi di cui siamo
«soggettivamente» inconsapevoli). Nella superficie apparentemente
marmorea del testo (e del suo senso) iniziano a crearsi crepe e linee di
faglia, emergono discrepanze e incongruenze (lapsus) che aprono diverse
linee di interpretazione. Accanto al testo, a ciò che l’autore ha
effettivamente scritto, e anche quello che voleva e credeva di dire, emerge
un «sottotesto», tutto quello che il testo dice a insaputa
del suo autore. La lettura e l’interpretazione devono dunque portare alla
luce il sottotesto con gli strumenti offerti, appunto, dalle analisi marxista,
freudiana, strutturalista (in Italia, si possono ascrivere a questo clima
culturale le prime regie di Luca Ronconi e Massimo Castri), ma anche femminista
o terzomondista.
In quest’ottica il testo, e dunque
lo spettacolo che genera, non è più un insieme coerente di
segni, un mondo perfettamente autosufficiente e chiuso in se stesso, ma
si rivela sempre più spesso autocontraddittorio, incoerente, sottoposto
a spinte centrifughe. Allora non esiste più un’unica chiave di lettura,
ma si aprono diverse opzioni e possibilità, i conflitti vengono
alla luce. Per il regista-interprete si aprono enormi margini di libertà.
Anzi, la lettura e la messinscena possono diventare un percorso di consapevolezza
dei conflitii e delle contraddizioni, una possibilità di liberazione
dai condizionamenti che la società e la cultura ci hanno inculcato
e che inconsapevolmente subiamo. Tra queste regole implicite, vi sono anche
i codici della rappresentazione: non è dunque un caso che in questa
fase salga alla ribalta il metateatro, ovvero l’interrogazione sul teatro
e sulla sua natura all’interno del contesto dello spettacolo. Trasporre
un testo scritto in uno spettacolo, tra l’altro, allarga ed evidenzia ulteriori
fratture e discrepanze, e suscita altri interrogativi e giochi linguistici.
Tuttavia – scardinato il principio
di autorità che ammetteva un unico significato – emerge un problema
angosciante: fino a che punto l’interpretazione può essere libera?
La decostruzione di un testo ha dei limiti, oppure qualsiasi reazione-interpretazione
da parte del lettore è giustificata? In altre parole, questo tipo
di lettura – che procede per differenze e associazioni, per scivolamenti
metaforici e metonimici, e che per certi aspetti ha segnato il passaggio
dal moderno al postmoderno – finisce rapidamente per portare a una disgregazione
del testo e a una dissoluzione del senso.
Potrebbe anche essere interessante,
ma tutto questo che cosa c’entra con Eimuntas Nekrosius? Beh, è
una cornice che può aiutarci a comprendere e apprezzare il senso
del lavoro del regista lituano, e ci fa capire perché i suoi spettacoli
risultino così affascinanti: estremamente liberi – perché
molto di quello che si vede in scena nei testi di Shakespeare proprio non
c’è scritto, si tratta di vere e proprie invenzioni; e perché
molto di quello che Shakespeare ha scritto Nekrosius lo taglia, in edizioni
radicalmente sfrondate e ridotte all’essenziale – e al tempo stesso molto
fedeli all’ispirazione del testo, al suo senso profondo, alle sue emozioni
autentiche.
Ma, tanto per cominciare, quello
tra Nekrosius e Shakespeare non è un rapporto semplice. Le motivazioni
del suo interesse sono per certi aspetti contradittorie:
"Non lo so,
forse perché lo conoscono tutti, e tutti conoscono le sue opere.
Esistono persino degli alberghi che si chiamano "Shakespeare"! Ma mi interessa
anche il fatto che una sola testa abbia avuto la capacità di mettere
così tante cose dentro le sue opere, dal punto di vista psicologico
ma anche geografico, della quantità di informazioni. Mi stupisce
quante cose abbiano potuto trovare posto in un unico cervello. È
sovrumano, supera ogni immaginazione. È il segreto di Shakespeare.
Nessuno conosce il suo viso, e non sappiamo neppure se sia stato lui a
scrivere tutte le pièce che vanno sotto il suo nome. È come
se ci fosse solo una tenda, dalla quale esce una mano che sta scrivendo.
Si vede solo quella mano, del resto non sappiamo praticamente nulla".
Detto questo, l’atteggiamento nei
confronti del testo non può essere sacralmente filologico o museale
(«Sono le parole del massimo poeta, vanno rispettate anche le virgole»,
«Vi si legge la nascita dell’uomo moderno così come lo conosciamo,
è la fonte del moderno umanesimo, di quello che siamo noi»),
e neppure aprioristicamente irriverente e trasgressivo («Dissacriamo
i classici! Abbattiamo i monumenti della tradizione!»). Almeno così
come l’ha raccontato (con il senno di poi, qualche anno dopo) lo stesso
Nekrosius, il suo atteggiamento nei confronti di Shakespeare è sempre
stato aperto all’interrogazione, segnato da una certa perplessità.
Dopo un Romeo e Giulietta in versione di musical rock (sull’onda
di Jesus Christ Superstar e Hair), tocca a un Re Lear
che arriva solo al primo atto. Poi tocca a Amleto,
«conosciuto
fin dai tempi della Scuola di Regia di Mosca, (...) un testo obbligatorio
per chiunque voglia fare teatro. Ma non riuscivo a capirlo: lo trovavo
impegnativo, difficile. Non capivo bene neppure le regie che venivano fatte
di questo testo, i cui personaggi mi sembravano lontani, fiabeschi. Mi
chiedevo perché piacesse così tanto al pubblico mentre io
non riuscivo ad afferrare tutto. Ancora oggi, per me, l’Amleto è
un testo complesso, che mescola tanti temi come una polifonia. ‘Devo capirlo’,
mi sono detto. Così l’ho riletto e ho creduto di potere provare,
senza pretese, iniziando con degli schizzi, a realizzarlo. E’ stato quello
il momento in cui ho sentito qualcosa che mi spingeva a fare in modo che
tutto fosse chiaro, non solo per lo spettatore, ma anche per me. Lo dico
sempre ai giovani: Shakespeare bisogna leggerlo con attenzione, tutte le
risposte sono lì, nel testo. Bisogna evitare la prima impressione
emotiva e capire le parole».
A questo punto andrebbe inserita
una piccola avvertenza, magari copiando quello che spiega molto bene scrittore
spagnolo Xavier Marías, uno che per trovare i titoli ai suoi romanzi
va a caccia di versi shakespeariani:
«Una
delle ragioni principali della grandezza e della durata di Shakespeare
è che quasi mai si sa esattamente quello che dice o, se si preferisce,
si sa quello che dice, ma non ciò che significa. E’ così:
lo si coglie ma non sempre lo si comprende».
Questa opacità del testo
ha varie origini, al di là di quelle dovute alla traduzione: da
un lato c’è – è chiaro – la distanza che ci separa dall’originale,
dal contesto in cui venne scritto e rappresentato; ma soprattutto c’è
la difficoltà, spiega Marías, a «dire con altre parole»
quello che dice Shakespeare. Questo vale anche per i monologhi più
noti e frequentati. Che cosa vuol dire davvero Amleto quando si chiede
«Essere o non essere»? E a quale
domani si riferisce Macbeth quando attacca «Tomorrow,
tomorrow and tomorrow?». E ancora, quando Otello si prepara
a uccidere Desdemona e dice «It is the cause,
it is the cause, my soul, / Let me not name it to you, you chaste
stars», a quale causa si riferisce? Certo, gli strumenti della
filologia e la storia della critica possono precisare il senso e arricchirlo
di ulteriori stratificazioni – ma al tempo stesso, aumentando la densità
di implicazioni di ogni frase e parola, rischiano di renderlo ancora più
elusivo, inafferrabile.
Come altri registi che operano
nella stessa direzione, Nekrosius utilizza il testo come molla per inventare
(nel duplice senso di creare e di trovare) un gesto, un’azione.
«Siamo
abituati a un’idea letteraria del teatro: dove il teatro è una cosa
che si ascolta e non si mostra. Ma la natura del teatro è di essere
visto».
Sulla scena, le battute non devono
rimanere una sequenza di parole, ma generano nell’attore un gesto – non
foss’altro che quello di ripetere quelle frasi – dando loro la propria
voce, il proprio corpo, il proprio respiro.
(Due annotazioni marginali: primo,
malgrado la fortissima personalità del regista, e l’impronta del
suo mondo interiore che segna ogni frammento dello spettacolo, quello di
Nekrosius è essenzialmente un teatro d’attore, nel senso etimologico
del termine: «colui che agisce», e non «colui che dice»,
o che «racconta»; secondo, questa tecnica si può applicare
non solo ai testi drammatici: può ovviamente rivitalizzare anche
testi narrativi o lirici.)
Non si tratta però di azioni
di carattere introspettivo (la «riviviscenza» stanislavskiana,
che attraverso l’aggancio autobiografico permette di provare le emozioni
del personaggio e dunque ricrearne la gestualità). Sono sempre azioni
espressive, rivolte all’esterno. L’orizzonte di riferimento non è
il cinema, piuttosto la danza. Non a caso in ruoli chiave Nekrosius sceglie
dei «non-attori»: il suo Amleto – Andrius Mamontovas – è
una rock star dalla presenza carismatica, e la sua Desdemona – Egle Spokaite
– è una ballerina. Perché l’obiettivo non è mai una
verosimiglianza psicologica, i trasalimenti dell’interiorità, quanto
la cristallizzazione di situazioni espressive, che parlino in primo luogo
allo spettatore. Non si tratta di rendere credibile l’interiorità
dei personaggi, ma di oggettivare e comunicare i loro stati d’animo. La
credibilità può arrivare dall’azione precisa, dal movimento
rischioso, dalla fatica della ripetizione: se il gesto è quello
giusto, se porta in una «zona di pericolo», allora può
trasmettere una verità.
«Mi
piace un teatro rischioso, voglio dire anche fisicamente rischioso dove
il minimo sbaglio può costare caro all’attore. Questo costringe
alla precisione e colpisce lo spettatore. I testi non rischiano nulla,
sono quello che sono, restano lì, per sempre. Noi rischiamo, i testi
sono sempre al sicuro».
Questo metodo porta a condensare
e portare sulla scena oggetti di forte suggestione: non sono metafore poetiche
di suggestiva eloquenza, come accade in Shakespeare, ma metafore che si
materializzano in oggetti che nel testo non compaiono affatto. Ecco per
esempio nell’Hamletas quelle grandi bocce di vetro che campeggiano
nello spettacolo, prefigurazione della coppa avvelenata da cui berrà
Gertrude. Nel Makbetas ecco l’alberello che porta nello zaino il
protagonista alla prima apparizione, e che anticipa il bosco di Birnan
che si muoverà nel finale adempiendo la profezie delle streghe (che
tra l’altro, contrariamente alla tradizione, sono giovani, assai belle
e dispettose). Anche nella prima scena dell’Otellas Desdemona si
porta sulla schiena un oggetto rivelatore: la porta della casa paterna
che sta per abbandonare. Sono oggetti che a prima vista possono apparire
incongrui, e che tuttavia da un lato riecheggiano la verità del
testo, e che dall’altro, man mano che ci s’inoltra nella tragedia, si caricano
di senso e danno una tonalità emotiva all’interno spettacolo.
Il loro uso presuppone un atteggiamento
di grande libertà nei confronti del testo: al limite, potrebbe ancora
una volta sfociare in una deriva infinita del significato del testo, in
un gioco interminabile e in fondo gratuito di associazioni. Tuttavia la
materialità del teatro e la paradossale verità della scena
– la verità dei corpi e della materia nel mondo fittizio della scena
– costituiscono un limite a questa deriva, e rappresentano un’occasione
di verifica. Perché è in quel determinato gesto, in quella
precisa azione che è possibile trovare la verità e la necessità
di quelle parole, e avvertire quasi fisicamente la loro necessità
e autenticità.
Altri elementi concorrono a regolare
il processo di lavoro e a delineare la retorica della teatralizzazione
operata da Nekrosius. In primo luogo vige un principio di economia e di
coerenza, una delle leggi fondamentali di qualunque spazio teatrale (e
in genere di finzione): ogni elemento – ogni segno – dev’essere in qualche
modo necessario e coerente con tutti gli altri elementi dell’insieme.
«La
scena è una cornice è tutto quello che si trova lì
ha la sua importanza. Niente è fatto a caso. Se portiamo in scena
un oggetto, deve portare una certa informazione, avere un certo senso.
Dunque tra tutti gli oggetti che usiamo non c’è mai il caos».
Con questo, il principio compositivo
parrebbe assumere, per Nekrosius, una valenza quasi etica, filosofica:
la scena è il luogo dove è possibile arginare il caos dell’esistente.
Una conseguenza di questo «principio di economia» è
probabilmente anche la scelta di materiali elementari, primordiali, che
punteggiano come leitmotiv quasi musicale gli spettacoli.
Nell’Hamletas è il
fuoco che scioglie il ghiaccio «in tempo reale», con quel lampadario
incrostato di bianco che sgocciola al centro dello spettacolo, e lo Spettro
del Padre che mette il piede nudo del Figlio sul blocco gelido.
«La
scelta delle materie primarie che ho usato in questo spettacolo – il ghiaccio
e poi l’acqua e il fuoco – è molto semplice e logica. Da dove arriva
lo spettro del padre di Amleto che noi abbiamo considerato un vero e proprio
deus ex machina? Dal profondo, dal freddo. Questo ci ha suggerito il ghiaccio,
che poi si scioglierà a poco a poco al fuoco della vendetta e tornerà
ad essere acqua... Tutto molto semplice. L’arte non è una cosa complicata:
quando tu metti in fila le cose, come una catena, nascono le circostanze.
Le circostanze, a loro volta, creano l’ambiente, il clima. Quando sono
andato a Elsinore il clima era pessimo, l’atmosfera era quella: La mia
Danimarca dunque è diventata foschia, ghiaccio».
In Makbetas è una
cascata di pietre a rendere irreversibile lo sbocco tragico, scatenando
fragore e polvere sulle tavole del palcoscenico; ma è il legno a
punteggiare l’intero spettacolo, con quegli alberelli fragili e commoventi
nello zaino (ma che ritorneranno inquietanti nel rendiconto finale), ma
anche i tronchi pesanti che oscillano costantemente sullo sfondo, appesi
a lunghe funi.
«Macbeth
si rappresenta in un ambiente contadino (da lì l’uso delle pietre
come elemento scenico fondante): proprio per questo pensando a Banquo e
a Macbeth che tornano dalla guerra e che portano con sé qualcosa,
ho scelto un albero, un albero raro – non un regalo banale – che i due
portano legato sulle spalle. Questo tema percorre tutto lo spettacolo e
alla fine, quando si avvera la profezia della foresta che si mette in cammino,
ritorna. Sarebbe bello che si alzasse anche tutto il pubblico per creare
l’immagine di un bosco in movimento. Qualche volta, ma potrei contarle
sulle dita di una mano, è successo ed è stato stupendo».
Otellas (elaborato nel corso
di tre anni, con presentazioni pubbliche di «studi sullo spettacolo»
alla Biennale di Venezia, Schizzi da Otello nel 1999 e Progetto
Otello nel 2000, e debutto sempre a Venezia il 2 marzo 2001) è
posto invece sotto il segno dell’acqua: i bidoni che, mossi incessantemente
dai servi di scena sullo sfondo, punteggiano la tragedia – dalla laguna
veneta al viaggio attraverso il Mediterraneo a Cipro – con il suono della
risacca; e ancora l’acqua bevuta e sputata in un gesto insieme quotidiano
e rituale.
«Otello
è un testo ancora più pericoloso di Macbeth per
un regista e per gli attori, perché spesso appare come una fiaba,
difficile da condividere con persone come noi. L’elemento naturale che
avvolge come una ragnatela i protagonisti è l’acqua: Venezia vuol
dire acqua. Cipro vuol dire acqua, il castello di Otello sta vicino al
mare, le navi vanno per mare... non un’invasione esterna, ma già
contenuta nella storia».
Ma con tutto questo, probabilmente,
abbiamo soltanto sfiorato il metodo di lavoro di Nekrosius, i suoi rapporti
con gli straordinari attori del Teatro Meno Fortas di Vilnius e il suo
rapporto con i testi. Anche perché quando parla del proprio lavoro,
lo schivo regista lituano cerca di cancellare ogni filtro intellettualistico,
di evitare di offrire schemi interpretativi che possono presto diventare
cliché. Lo ribadisce con grande chiarezza quando parla del finale
«aperto» dell’Otellas.
«Il
finale di Otello è stato molto discusso; si è detto
che c’era meno violenza, meno forza che in quello dello studio precedente.
Sono gli attori che scelgono: a volte sono molto crudeli, a volte no. Gli
attori si abbandonano a questa scena e, talvolta, come nelle improvvisazioni
jazz, danno l’idea di non rendersi conto... io apprezzo tutto questo perché
mi piacciono le varianti, la freschezza, perché so che nel passaggio
da uno studio allo spettacolo definitivo si perde sempre qualcosa. Meglio
non finire, meglio fare meno che troppo, non ‘lucidare’ tutto. Preferisco
le cose semplici, non complesse, piene di calore. Evito le cose astratte,
le troppe parole. Molte cose non riesco neppure a spiegarle, non riesco
a dare di tutto una spiegazione. E poi se si parla troppo si crea un gran
caos nella testa degli attori. La semplicità non vuol dire banalità».
Chiaro. Tuttavia c’è ancora
una cosa da aggiungere, per accostarsi a questi spettacoli struggenti,
così carichi di emozioni. Per apprezzare appieno questi Shakespeare
così shakespeariani e così contemporanei, in cui troviamo
così tanto di Shakespeare e così tanto di noi. Bisogna aggiungere
che queste messinscene sono ricchissime di annotazioni insieme ironiche
e poetiche. E’ un’ironia che nasce forse dalla consapevolezza della frattura
che separa il testo dalla rappresentazione (e da questa rappresentazione
e dall’interpretazione che la innerva), dalle infinite possibilità
di gesti teatrali che un testo può suggerire, dalla distanza che
separa l’attore dal personaggio. Ma ancora di più, probabilmente,
dalla consapevolezza dell’impasto di tragedia e ridicolo di cui siamo fatti
noi, esseri umani. Lo stesso impasto di cui sono fatti i personaggi di
William Shakespeare
Le citazioni da Eimuntas
Nekrosius sono ricavate dai programmi di sala di Makbetas - Hamletas
(Festival «Teatro d’Europa 1999») e Otello, a cura
di Maria Grazia Gregori («Festival Teatro d’Europa 2000») e
da Un Amleto lituano, un ritratto di Eimuntas Nekrosius di Oliviero
Ponte di Pino, pubblicato su «Diario».
|