Se conosci già il sito olivieropdp e le newsletter, ti sarai accorto che sto provando a fare qualcosi di nuovo, almeno per me.
ateatro è il frutto di una serie di riflessioni che riguardano il rapporto tra teatro e internet, e dunque lo sviluppo del mio sito,
che finora era soprattutto un archivio. Nasce anche perché ho praticamente smesso di scrivere di teatro su quotidiani e settimanali (ma questo è di certo
un problema mio, e forse dei giornali).
Insomma, non so se su internet abbia
senso scrivere le classiche recensioni, con la loro oggettività e autorevolezza (più o meno fondate, più o meno garantite dalla prestigiosa testata). Mi sembra più interessante tentare (o riscoprire) altre modalità di comunicazione-informazione, che rispondano meglio alle caratteristiche della
rete: un'interazione più personale e diretta, aperta al dialogo e al dibattito di idee; la rinuncia alla completezza critica, per privilegiare piuttosto uno o
due temi di interesse, riflessione, discussione.
Non so se lo sia diventato, ma negli
ultimi mesi ho cercato di trasformare olivieropdp da sito a comunità (o meglio, fare in modo che il sito potesse costituire un punto di riferimento per chi ama il teatro). Adesso provo la necessità di fare un passo ulteriore, senza prendere impegni impossibili e senza rubare spazio a chi già lavora ottimamente. ateatro non sarà una rivista (ce ne sono già), una bacheca (idem) o un newsgroup (idem), non sarà certo un calendario di spettacoli
ed eventi (idem). Vuol essere un punto di vista da discutere.
Lo dico subito: una formula del genere per me presenta anche qualche svantaggio. Al di là dell'aspetto economico (ma anche prima gli introiti erano irrilevanti), al di là dell'impegno personale
(dev'esserci una cadenza regolare e costante, e dunque mi richiede un notevole spreco di tempo ex-libero che non voglio rubare alla palestra), questo "genere" più vicino al diario che al saggio cambia inevitabilmente lo statuto dell'autore-spettatore e tende a metterlo un po' troppo in vetrina (x i miei gusti).
L'unico modo per evitare questa deriva solipsistica è che questo spazio venga usato come risorsa collettiva, che diventi un luogo d'incontro e di scambio - e non resti la classica cassetta della frutta in quel gigantesco Hyde Park Corner che è la rete.
Per il resto, le caratteristiche sono le stesse del sito: indipendenza assoluta (se nessuno mi paga, almeno faccio quello che mi pare e quando mi pare), gratuità per l'utente, tecnologia fai da
te (cioè da me), semplicità grafica, velocità di scaricamento e stampabilità, lingua italiana, attenzione al nuovo e alla cultura, alla politica e
all'economia del teatro.
|
Che straordinario e importante spettacolo, quante cose insieme è l'Amleto di Federico Tiezzi, e che emozione per lo spettatore. Intanto – è ovvio – è la messinscena del più noto e rappresentato testo teatrale, ma è anche una riflessione sulle messinscene novecentesche di quel dramma, e dunque sull'intera storia della regia nel secolo. Una lezione di teatro, insomma, che esplora la grammatica dello spazio e del tempo, del gesto e del personaggio, e il rapporto dello spettatore con
l'evento scenico. E dunque, ancora, riflessione sulla regia e sull'interpretazione del testo.
Va subito detto che Federico Tiezzi non segue la strada verso il sublime di Carmelo Bene, che disarticolava nel suoi Amleti di meno i concetti stessi di rappresentazione, di personaggio, di soggetto (prendendo in contropiede i monologhi attraverso i quali Shakespeare costruisce l'individualità moderna), per dissolversi nel non-senso musicale della phoné. E si contrappone al gesto nichilista della Societas Raffaello
Sanzio, che riportando Amleto alla sua radice etimologica ("deficiente") ne faceva un disarticolato demente, un autista chiuso nel proprio mondo
incomunicabile, al di qual del confine del significato per costruire un paradosso nel quale l'unico senso possibile è il non-senso.
Al contrario, Tiezzi è animato dalla fede che un testo come Amleto (e forse ogni testo) abbia un significato, o meglio una molteplicità di significati, che può essere ricercato e trovato solo nella pratica di palcoscenico, nel lavoro di scavo e di approfondimento del regista e dei suoi attori sui personaggi (soprattutto intorno a questo ruota la
prima parte del trittico). Il problema, semmai, sta nell'eccesso, nella inesauribile molteplicità dei significati, che porta il testo a sfrangiarsi in
mille sfaccettature, a frammentarsi in una girandola i schegge, filtrati da una serie di interpretazioni tulle legittime.
Ecco dunque il testo ripreso per scene, in ambientazioni diverse. Le tre parti dello spettacolo seguono lo stesso percorso. La prima sezione in una tenda sotto il deserto nel Medio Oriente, con
il pubblico a una distanza ravvicinata, lletteralmente circondato dall'azione scenica, e il testo proiettato nell'attualità. La seconda in una "stanza da
musica indiana", rarefatta come un giardino giapponese. La terza, in qualche modo oltre e lontano, nello spazio della rappresentazione (e che però, nella scena della recita, verrà ribaltato: il pubblico è dietro la scena e vede, oltre gli attori, il pubblico della corte di Elsinore: Claudio, Gertrude,
Amleto...)
(…)
Non assistiamo a un'implosione o una
dissoluzione del senso, ma a una sorta di esplosione, a una proliferazione dei possibili significati, a una costante contaminazione del testo (e dell'arte) con la vita, con l'attualità e la storia, e con le successive interpretazioni del testo. Una messinscena dunque "ermeneutica", dove l'interpretazione del testo
può venire forzata fino al limite di rottura, e teoricamente fino al nonsenso, all'assurdo (la follia di Ofelia vede l'attrice costretta su una sedia a
rotelle, sospinta da un'infermiera con la maschera di Topolino…). Tuttavia lo spettacolo trova sempre un punto d'equilibrio tra la libertà assoluta (secondo
la quale tutte le interpretazioni, in teoria, sono legittime) e la fedeltà al testo.
Tanto per cominciare questo
Amleto, seppur frammentato, lacunoso, punteggiato da ripetizioni e andirivieni, costruito per scene accostate e giustapposte secondo un criterio d'ordine più musicale che narrativo, è nella sostanza fedele al plot:
comincia con la prima scena del primo atto, e si conclude con la strage finale e l'arrivo di Fortebraccio.
In secondo luogo – e questo è forse
il punto chiave – tutti gli slittamenti di senso avvengono all'interno di un orizzonte preciso, che è, come si è detto, quello della storia del teatro del
Novecento, da Stanislavskij e Craig (citato nella scena della reggia, con l'incrocio di linee orizzontali e verticali) a Bob Wilson e oltre. Qui "storia"
non va però inteso nel senso "progressista" del termine, come se si potesse parlare di un'evoluzione, quanto piuttosto di una serie di pratiche tutte ugualmente legittime. A questo punto la questione pare semplicemente slittata,
dato che si potrebbe chiedere allo stesso modo: che cosa legittima quelle pratiche? Quella che compie Tiezzi è però nella sostanza una scelta di "maestri"
con in quali intraprendere, nella pratica scenica, una sorta di dialogo. A trarne ispirazione e insieme verificare la loro "tenuta". A legittimare questi
maestri è la loro esperienza artistica e umana, la profondità del loro lavoro, la qualità di sollecitazioni che riescono ancora a mandarci.
Ecco, questo Amleto si muove
nella distanza tra la storia e l'esperienza individuale, personale di Federico Tiezzi (e ovviamente della sua compagnia, con i suoi 25 anni di teatro), e
quella di questi maestri, in un costante confronto. Va aggiunto, a questo proposito, che questo dialogo è reso possibile da un atteggiamento registico
tanto consapevole quanto discreto: in ogni scena – per quanto complessa e ricca di rimandi – la prima regola sembra quella della semplicità, della assoluta
mancanza di concessioni al proprio talento e alle aspettative degli spettatori,
E a questo va aggiunto quel filtro ironico che inevitabilmente accompagna le operazioni più consapevolmente post-moderne.
(...)
|
(in particolare Visio
gloriosa, visto al Teatro dell'Arte nel dicembre 2000; scritto pensando a Werner Heisenberg su richiesta di Anna Maria Monteverdi; di prossima
pubblicazione sulla rivista "Cut Up")
-
Uno spettacolo teatrale è una macchina che agisce nello spazio e nel tempo. Tra i suoi elementi costitutivi la scenografia (gli oggetti), la musica (i suoni), gli attori (i corpi), le parole. E anche il pubblico. È una macchina che agisce, appunto, sullo spazio e sul tempo, ed ha come propellente il desiderio nelle sue varie forme.
-
Uno spettacolo teatrale è una rappresentazione. Il suo spazio e il suo tempo sono ritagliati all’interno
dello spazio e del tempo reali, e ne riproducono inevitabilmente alcune caratteristiche fondamentali. È una rappresentazione che oggettiva e organizza lo sguardo e il desiderio. È un’opera.
-
In quanto macchina, uno spettacolo teatrale tende ad essere autosufficiente, coerente: è un universo chiuso che rimanda solo a se stesso. Finché funziona la macchina, tutte le parti che la compongono sono in dialogo reciproco l’una con l’altra e solo l’una con l’altra. È un processo.
-
In quanto rappresentazione, uno spettacolo teatrale rimanda sempre alla "realtà" in un continuo meccanismo di analogie e differenze. Ogni suo elemento è anche un elemento del mondo reale, e al tempo stesso non lo è perché isolato nel sottoinsieme della rappresentazione. Il suo propellente sono le differenze di energia tra la realtà e il suo doppio.
-
In quanto macchina, uno spettacolo teatrale tende a privilegiare l’esperienza. Azzera il punto di vista, per
costruire un intreccio di relazioni reciproche. Ogni elemento (compreso lo spettatore) ha lo stesso valore degli altri, ogni elemento è ugualmente
necessario al funzionamento della macchina. Far parte di questa macchina genera un’esperienza complessiva e totale. È un insieme chiuso, che rimanda solo a se stesso. È puro oggetto, e riduce tutti i suoi componenti a oggetto.
-
In quanto rappresentazione, uno spettacolo teatrale ha il compito di generare un punto di vista (un soggetto). La posizione di un punto di vista produce immediatamente una gerarchia che struttura e ordina l’esperienza. Stabilisce un centro (o più centri) e una periferia, un soggetto e una oggettività. Genera un margine permeabile.
-
Una macchina non può generare ambiguità al contorno. Tutto ciò che è al suo esterno è ininfluente e irrilevante. Tutto ciò che è al suo interno è carico di senso.
-
Una rappresentazione genera – a uno sguardo attento – una serie di ambiguità al contorno. La sua stessa esistenza è dovuta alla presenza di una cornice, che però per sua natura è fragile, permeabile, ambigua. Una rappresentazione acquisisce senso dal rapporto tra ciò che si trova al suo interno e la "realtà" esterna.
-
Lo statuto della macchina è fragile, poiché non conosce fondamenti all’esterno di se stessa. Costruisce le proprie fondamenta sul nulla, sulla gratuità. Ogni spettacolo deve al proprio interno trovare la potenza e la coerenza che permettano alla macchina di funzionare correttamente – di mettere in moto il desiderio.
-
Lo statuto della rappresentazione è fragile, perché è sempre labile il confine che la separa dalla realtà, perché la legittimità del punto di vista può sempre essere rimessa in discussione (e questo capita in tutti i momenti di crisi della tradizione – cioè in pratica sempre, ormai).
Ogni spettacolo teatrale è al tempo stesso una
macchina e una rappresentazione. Porta sempre con sé la fragilità dell’una e le ambiguità dell’altra.
Inoltre la natura di macchina e quella di rappresentazione, per quanto detto sopra, tendono a divergere.
Ogni spettacolo teatrale trae la propria energia da questi squilibri e cerca il proprio equilibrio – la propria forma – bilanciando queste disarmonie.
A volte fallisce. A volte miracolosamente ci riesce.
|
Caro Lorenzo, l'ora non è + tarda (o presta, a 2a dei punti di vista) e allora provo a darti qualche rapida impressione dello spettacolo (ho già mailato a Antonella che sul "manifesto" in
pratica non scrivo più).
Il monologo di Raffaello Baldini mi è piaciuto (sono da sempre un suo fan), chissà perché mi ha ricordato certi racconti vagamente fantascientifici di Buzzati, dettati dalla sensazione a tratti angosciata dell'urbanizzazione e della massificazione, che allora era una scoperta per certi aspetti ingenua, e che invece adesso è un dato di fatto, esistenzialmente acquisito e filosoficamente sedimentato. Quello che riesce a fare Baldini - quasi con la volontà di esplorare ed esaurire tutte le
possibilità di questa situazione - è dare a questa consapevolezza una lingua e una sostanza che hanno una risonanza poetica e uno sviluppo
narrativo-drammaturgico. Il protagonista è come uno dei personaggi di certe sue poesie - quegli "scentrati" di paese così teneri e imperfetti - che però crescendo in città si è come intellettualizzato (è il prezzo di una coscienza di
sé che non può più essere autentica, innocente). E che oltretutto non è più protetto dall'ambiente "piccolo" e ancora per certi versi naturale e umano del paese, ma vaga nel vuoto della società di massa. Insomma, Baldini prova a tirare le conseguenze di questa inadeguatezza al mondo.
Per quanto riguarda l'interpretazione, ho visto lo spettacolo alla prima, e il lavoro può certamente
maturare. Tu mi sembri un attore più televisivo-cinematografico che teatrale, mentre questo è un testo che di realistico e psicologico ha solo qualche spunto e aggancio - pretesti. In fondo a destra è tutto giocato sulla forza delle parole, sulla loro capacità di evocazione e sulla loro musicalità. Tu punti a una forma di realismo per immedesimazione, dove la credibilità arriva dalla psicologia - e in ultima analisi dal far dire-fare al personaggio più di quello che ci sia nel testo, attraverso i gesti, le espressioni, le intonazioni,
le sottolineature. Tu e il regista Gaddo Bagnoli avete fatto da questo punto di vista un lavoro molto attento e puntiglioso (ma agita meno le mani!!!), a tratti anche inventivo, e tuttavia ho l'impressione che in questo modo si arrivi solo a un livello del testo. Forse sarebbe il caso di muoversi-vagare di meno, e di abbandonarsi di più alle parole, lasciandosele crescere dentro, senza
preoccuparsi troppo delle loro implicazioni interiori, della loro credibilità psicologica: in fondo è il protagonista è un tizio che si ritrova in un luogo
dove spazio e tempo non hanno più significato, dove gli altri sono sue proiezioni, dove la logica è saltata. Allora è forse il caso di abbandonarsi un
po' di più alla magia delle parole e al loro gioco: che è - malgrado tutto - un gioco fittizio, tutto teatrale, dove una frase fa scattare un'altra frase, dove
un pensiero ne evoca un altro, magari per negazione/contrapposizione. E' questa
la dinamica che muove la scrittura e il personaggio, più che le implausibili (in fondo) "motivazioni" psicologiche. Forse è in questa direzione che può affinarsi il tuo lavoro su questo testo: non tanto sul personaggio, quanto sui significati delle parole e delle frasi, che hanno una loro dinamica interna - una loro forza.
La risposta di Gaddo Bagnoli e Lorenzo Anelli
Siamo d'accordo sulla tua esposizione riguardante la poetica di Baldini. Questo nostro spettacolo nasce anche come operazione culturale volta a far conoscere uno dei massimi poeti italiani viventi: spesso disconosciuto o ignorato dal grande pubblico.
Per quanto riguarda l'interpretazione e la regia, vorremmo puntualizzare alcune cose.
Indubbiamente, come si sa, alla prima uno spettacolo è spesso acerbo; considera che dopo il debutto il regista Gaddo Bagnoli ha deciso un ulteriore aggiustamento del testo che ha comportato tagli e spostamenti, ma che ha giovato moltissimo allo spettacolo. Infatti uno spettacolo come In fondo a destra (mai rappresentato prima d'ora), è basato su di un testo che per quanto meraviglioso, ha avuto bisogno, come ti sarai accorto, di un grosso lavoro di drammaturgia. Baldini è uno straordinario poeta che ha scritto, sembrerebbe quasi incidentalmente, tre monologhi teatrali di cui solo uno (In fondo a destra) in italiano (ricordiamo per chi non conoscesse Baldini che scrive esclusivamente in dialetto romagnolo).
Per quanto riguarda l'attore e l'interpretazione hai ragione sul fatto che alla prima ha mosso un po' troppo le mani. Non ti preoccupare, abbiamo già provveduto alla soluzione Muzio Scevola... La sua formazione e la sua esperienza sono esclusivamente teatrali, quindi non televisiva e/o cinematografica, anche se per anni ha lavorato nel teatro di varietà con Vito Molinari e questo, comprendiamo, può aver determinato le tue impressioni.
Rispetto all'interpretazione che definisci naturalistica-psicologica, è vero che il personaggio è mosso dal meccanismo che hai individuato; ma la direzione del nostro lavoro è tesa a sottolinearlo in un altro modo. Abbiamo lavorato cercando non una verosimiglianza psicologica del protagonista e del suo muoversi nel labirinto, ma cercando di sospendere le dinamiche apparentemente reali che proiettano in una visione surreale l' "essere" nel labirinto (ecco allora le quinte trasparenti, i pezzi di oggetti che evocano altri oggetti, i personaggi e gli amori inesistenti). Quindi ciò che appare naturalistico e psicologico al pubblico, è costruito affinché l'attenzione del pubblico stesso, nonché la comprensione del testo, risultino più semplici, più immediati. L'approfondimento poetico di ogni parola, per quanto affascinante, avrebbe distolto secondo noi l'attenzione del pubblico da un testo che a tratti diventa filosofico e che comunque nel suo insieme potrebbe risultare criptico. Durante le prove spesso ci siamo trovati davanti a questo problema, e abbiamo privilegiato la via della comunicazione a quella della fascinazione registica, non per fermarsi al "primo livello", ma per impedire che il pubblico non trovasse nemmeno quello.
Secondo noi, infatti, l'approfondimento interpretativo delle parole del testo può avvenire grazie ad una proiezione della psicologia reale del personaggio in un mondo labirintico e surreale come quello di In fondo a destra.
Ci fa piacere poi che Baldini, da spettatore presente alla prima, abbia convenuto con noi che il continuo vagare del personaggio all'interno del labirinto rispecchia il continuo movimento che è presente nel testo, e che lui stesso sente come imprescindibile.
Questo è soltanto il nostro punto di vista (e non certo una critica alla critica), uno stimolo che, come abbiamo detto all'inizio, potrebbe aprire un dibattito all'interno del tuo preziosissimo sito.
Gaddo Bagnoli (gaddobagnoli@libero.it) Lorenzo Anelli (lorenzo.anelli@libero.it)
Info sullo spettacolo (utilizzare Internet Explorer).
|