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NUOVO TEATRO |
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"il manifesto", marzo 1998
MILANO. Sotto molti aspetti l’Edipo del Teatro del Lemming - regia di Massimo Munaro, in scena a Milano per "Teatri 90" - è l’esatto contrario del teatro. L’etimologia stessa delle parole "teatro" e "spettacolo" rimanda al vedere, mentre lo spettatore di questo Edipo non vede assolutamente nulla: è bendato e vive l’esperienza come un sogno. Il teatro è un’esperienza collettiva, ma qui lo spettatore è uno solo, sprofondato in una oscurità autistica. Oltretutto, in una sovrapposizione di ruoli che trascende ogni proiezione o immedesimazione nell’attore, questo unico spettatore è egli stesso il protagonista del dramma, l’Edipo del titolo, come gli viene sussurrato all’inizio. Infine, l’esperienza è talmente forte e insolita da spostare decisamente il confine tra la finzione ricostruita del teatro e la realtà delle sensazioni ed emozioni personali che provoca questo "non-spettacolo". Cancellando la mediazione dell’attore, anche quella intellettuale dell’immagine viene azzerata. Restano le reazioni fisiche, i turbamenti, le pulsioni riaccese: paura, eccitazione, colpa, abbandono, disgusto, pudore – sperimentati sulla pelle, nei gesti, nei sensi. Il teatro è la distanza dello sguardo che va dallo spettatore all’attore, questa "tragedia dei sensi per uno spettatore" è la prossimità dell’abbraccio.
Contemporaneamente Munaro risale alle fonti stesse del teatro: non solo perché rinnova un mito fondante, un testo che ossessiona la scena da sempre. Ma anche perché costruisce un mistero, un percorso iniziatico, un rito di passaggio. Forse un viaggio catartico. Poi perché – come spesso accade sulla scena – si tratta di mettere a fuoco un’identità, di definire una nuova immagine di sé, dopo che quella vecchia, già in crisi, è stata smontata e sgretolata. Insieme, negando e riaffermando l’essenza dello spettacolo, si tenta – l’odore e il sapore di una mela, una carezza e un abbraccio, il suono del pianoforte – di ridefinire il senso della rappresentazione.
Lo spettatore è Edipo, dunque, fin dalla prima scena, quando gli vengono sussurrate parole terribili e viene privato della vista, della luce: già all’inizio il Tiresia che lo accoglie gli impone quella che sarà la sua condanna finale, la cecità. Scalzo, accompagnato da mani premurose lungo gradini e corridoi, lo spettatore-protagonista viene privato di ogni punto di riferimento, della sensazione del mondo. Viene fatto girare su se stesso, nel nulla, fino a perdere ogni orientamento in una leggera vertigine. Agito, come mosso dal destino, nel corso di un’avventura breve e intensa, ucciderà il padre (sentirà la propria mano affondare il pugnale nella sua carne), risolverà l’enigma della Sfinge (e ne sfiorerà il corpo), diventerà sovrano di Tebe (tra le invocazioni e il respiro della folla che lo acclama). Giacerà infine con la madre, i corpi e i respiri intrecciati, mentre una voce gli sussurra all’orecchio la celeberrima pagina di Proust – l’ultimo tenero bacio che accompagna la buonanotte al bambino. Vivrà tutto ancora una volta, questo Edipo, in ciascuno spettatore. Per ciascuno in maniera diversa, incomunicabile, inconfessabile. Ma senza immagini. A trasmettergli la vicenda sono solo rare parole, e piuttosto suoni e rumori, l’odore e il sapore di una mela, il suono del pianoforte, e soprattutto contatto di corpi, la carezza e l’abbraccio, una sensualità che incrina difese, la pelle che sfiora l’intimità e promette l’estrema tenerezza. Sarà insieme il neonato accudito dalla madre, l’uomo abbracciato dalla donna, il cadavere accompagnato all’ultima dimora – quella da cui è possibile rinascere.
Chi compie questo viaggio ha per compagna la curiosità, l’eccitazione di chi penetra in un luogo proibito. Ma anche la paura di chi si affida senza condizioni a mani estranee, indifeso. E’ anche questo timore a risvegliare i sensi, affilando le percezioni. La passività dello spettatore (non più voyeur ma masochista, ridotto quasi a oggetto e accudito da otto attori in un gioco che lo coinvolge e lo trasforma) viene violata. Le azioni fisiche e gli stimoli sensoriali – le dita sconosciute che sfiorano le labbra – l’odore e il sapore di una mela, una carezza e un abbraccio, il suono del pianoforte – attivano strati profondi della psiche. Turba, questo sprofondare nell’inconscio, nei territori di cui Freud ha disegnato i confini. Inquieta, questo sogno vissuto in stato di veglia, con tutta la sensibilità accesa, che porta a incontrare i propri fantasmi. Ma trasmette anche una strana dolcezza, perché questo cammino viene accompagnato, passo dopo passo, da un contatto, da una fragranza di corpi. Quando Edipo alla fine viene riconsegnato alla luce, a una muta penombra. Di fronte alla propria immagine riflessa nello specchio, di fronte a ciò che sa di sé, e ciò che non può sapere, lascia affiorare la memoria di questa compassione, e la pietà per se stesso.
© Oliviero Ponte di Pino, 1998, 1999
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