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O d i l e F i l l i o n
Transarchitetti per difetto

 

L’organizzatrice e fondatrice Odile Fillion traccia una presentazione riassunto della mostra/movimento Transarchitectures. Il termine è stato preso in prestito dall’architetto e teorico Marcos Novak, pioniere della concezione di spazi virtuali. La mostra è stata pensata da Odile Fillion e Michel Vienne, e prodotta da Architecture et Prospective a Bruxelles, col sostegno dell’AFAA.

Odile Fillion, curator of the exhibition Transarchitectures, writes a short summary after the closing of the show.

© Odile Fillion

La transarchitettura è stata inventata per difetto. Città mentali vedevano rapidamente la luce nell’effervescenza del web e un nuovo spazio pubblico si andava costituendo a collegamento, completamento o perturbazione dei mondi immaginari sino allora sviluppati per mezzo dei media tradizionali, cinema e televisione… Una nuova domanda veniva a porsi all’improvviso, con lo sviluppo del web… Chi avrebbe costruito le città mentali e organizzato lo spazio navigabile delle comunità virtuali? Questo semplice punto di partenza portò presto a interrogarsi sulla relazione architetto/computer e a una ridefinizione del territorio dell’architettura.

Il computer che si è brutalmente infiltrato in ogni settore, e poi nei collegamenti tra i settori – i programmi che hanno permesso all’informatico di fare architettura e all’architetto di fare cinema – hanno mandato gambe all’aria il vecchio mondo bel ordinato e seminato ovunque la confusione… Insidiosamente ogni certezza moderna s’è disciolta e il gioco della disciplinarietà s’è allentato… Cosa resta oggi del progetto dell’architetto? Certo la difesa dell’ordine antico nostalgico archeologico avrà ancora buon gioco per un pezzo. Le macchine stesse sono complici particolarmente dotati nella fabbricazione di cloni, nel modellizzare disneylandizzare truccare celare il reale per renderlo conforme all’immaginario leggendario delle pubblicità e della società pulitosvizzerordinata… Si va avanti così senza problemi da Las Vegas a Parigi.

È una forma d’architettura, anche. Ma ciò che dà senso alla cultura d’oggi e ciò che la fonda è più realisticamente la sua relazione con quest’universo inedito ibrido realevirtuale, quello dell’uomo delle macchine e delle future nanomacchine?

Come negoziare questa nuova esistenza, con quali codici, quali pratiche, quale etica… sono queste le domande transarchitettoniche che ci si è posti in una serie di mostre inaugurate nel febbraio 1997 durante il Festival Imagina.

Un club d’esploratori senza territorio o cartografie precise. Alcuni architetti risaliranno alle sorgenti della cibernetica, investiranno i linguaggi matematici e la fisica, chiave di trasmissione per conoscere altre dimensioni inimmaginabili, per poi procedere al loro reinserimento dentro lo spazio interattivo dell’informatica e magari prolungare il progetto fino alla realtà costruita. Altri troveranno nei modelli biotecnologici, nelle ricerche di morfogenesi le piste della reinvenzione della forma. Mai la nozione dello spaziotempo sarà tanto latamente interpretata, in una visione architettonica urbana dinamica affidata ai supercalcolatori dedicati ai programmi di vita artificiale o d’animazione cinematografica… Era parecchio che non solo il processo della concezione architettonica ma anche quello di realizzazione non era tanto scosso. Alcuni transarchitetti privilegeranno l’attitudine critica, polemica, s’opporranno al diktat e alla sottomissione più prona al calcolatore, alle nuove convenzioni formaliste forse insidiose e sterili quanto altri modelli… La società in nodo, il nuovo spazio mondiale, la necessaria ridefinizione territoriale s’iscriveranno naturalmente nelle ricerche in cui le comunità digitali si situeranno sul piano delle popolazioni delle grandi capitali. Un transarchitetto sarà innanzitutto curioso, agitatore, marginale, ranger... Si porrà nella posizione del trapper avanguardista, del partigiano, del derivatore o del passante, fuori dei limiti soliti dell’architettura… André Bruyère non ricordava forse nel suo ultimo libro che non si fosse "scoperta la lampadina elettrica nel perfezionare la candela"?

L’effervescenza di cui la transarchitettura è sintomo ricorda decisamente quella fase di rottura che affronta al giorno d’oggi l’architetto e la reinvenzione necessaria e urgente del suo progetto. Ci sarà tanta confusione in quest’esperienza che il solo denominatore comune a tutti gli interventi sarà la domanda che ha ispirato il computer o l’algebrizzazione totale del mondo. La maggior parte dei transarchitetti non si sono mai incontrati. Non si tratta di una comunità virtuale. Al contrario, ciò che soprattutto li riunisce è la solitudine. Fuori dalle norme, fuoricampo, si sono allontanati dalla loro tribù d’origine… Insegnanti, ricercatori, borsisti, giramondo, ma tutti scopritori, si sono dapprima raccolti attorno a qualche rara pubblicazione, a qualche incontro fortuito. Con le debite eccezioni – come il Paperless Studio della Columbia University o i centri di ricerca che emergeranno in seguito dall’ICC di Tokyo al laboratorio V2 di Rotterdam – i transarchitetti non avevano avuto fino a qui l’occasione di esporre e scambiarsi i propri punti di vista con una professione d’origine spesso differente, un corpo insegnante spesso disinteressato.

Transarchitectures sarà dunque (è stata dunque) un’occasione di testimoniare un momento affatto particolare di oscillazione accelerata; senza punti di riferimento né parastinchi. Più d’una mostra, sarà (è stata) una rivista in copia unica e grande formato, con la vocazione a rigenerarsi e interrogarsi permanentemente… Ma fino a quando? Finché forse – anziché tirare avanti per prestiti, invece d’interpretare adattare copiare – l’architetto riprenderà vantaggio, si metta a nutrire e ispirare con le proprie ricerche e le proprie realizzazioni, che si tratti di spazi reali o virtuali, gli altri campi disciplinari. Il feedback che ci s’aspetta è forse anche la condizione d’una nuova legittimità. 

 

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