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  M i c h a e l B i l l i n g t o n
La New Wave teatrale inglese

 

Michael Billington è uno dei maggiori crifici teatrali inglesi e tiene la rubrica di recensioni sul "Guardian" dai 1971. Ha pubblicato tra l'altro One Night Stands, London, Nick Hern Books, 1993, e Pinter, London-Boston, Faber & Faber, 1996.

Il testo pubblicato qui accanto è tratto dal volume Nuovo teatro inglese, edito da Ubulibri ai quali va il nostro ringraziamento per la gentile concessione.

Michael Billington - theatre critic for the "Guardian" - reframes newest brit theatre writings by Sarah Kane, Mark Ravenhill, Jez Butterworth & Philip Ridley.

© Ubulibri

Perché? Questa è la domanda che mi fanno sempre durante i miei viaggi in Europa. Perché l'Inghilterra, in un periodo in cui il teatro sembra attraversare una crisi di identita universale, produce così tanti nuovi testi teatrali? Come dimostra il volume Nuovo teatro inglese (Ubulibri, 1997), c'è nella drammaturgia inglese un'energia, una passione e una rivolta morale che è difficile riscontrare altrove. Ma come si può spiegare?

Sospetto che in parte questo fenomeno sia legato alla peculiarità della situazione politica inglese. Dal 1945 al 1979 c'è sempre stato consenso generale, qualunque governo fosse al potere, sull'importanza di una serie di cose: la tutela del welfare-state, il diritto di tutti a un'assistenza sanitaria e a un'educazione dignitose, la necessità di un servizio radiotelevisivo pubblico, la convinzione che l'assegnazione delle cariche importanti della vita pubblica non doveva essere condizionata dall'appartenenza a un partito. Scrittori come John Osborne e Arnold Wesker misero sotto accusa molti aspetti della vita inglese come il sistema delle classi sociali e il mantenimento dei privilegi. Ma nel dopoguerra l'Inghilterra era, genericamente parlando, una società tollerante e umana, che credeva esistessero altri valori oltre a quello di far soldi.

Tutto questo è cambiato nel 1979 con l'avvento della signora Thatcher: un'ideologa di destra che ha rivoluzionato la natura della vita inglese. In una celebre intervista dichiarò: "una cosa come la società non esiste". Per la signora Thatcher il profitto era l'unico metro di valutazione, senza alcun riguardo per le sue conseguenze sociali. Istituzioni finanziarie come la City di Londra andarono incontro alla deregulation. Fu permesso a capitalisti detentori di grossi monopoli, come Rupert Murdoch, di impadronirsi di gran parte dei media. il welfare state era in pericolo. Le cariche importanti nelle istituzioni non governative (come l'Arts Council, che finanzia con denaro pubblico le attività artistiche) furono assegnate sulla base di criteri politici. Si osannarono i valori del mercato. ll consumismo era visto come un dio. Anche dopo la caduta del governo Thatcher, il thatcherismo è rimasto all'ordine del giorno, e le sue idee hanno condizionato alcune, se non tutte, le scelte politiche del Partito Laburista, andato al governo nel maggio del 1997.

Insisto sull'importanza del thatcherismo per gli effetti che ha avuto sugli scrittori raccolti nel volume cui ho fatto cenno. Il più vecchio è Martin Crimp, che è nato nel 1956; ma tutti gli altri sono cresciuti negli anni in cui il thatcherismo era più aggressivo. Credo che questi autori esprimano un rifiuto morale istintivo nei confronti dei valori di quel periodo: prima di tutto l'idea che il denaro e il consumo sfacciato (è affascinante osservare come il cibo sia una loro metafora ricorrente) siano gli indicatori più attendibili della dignità umana e della felicità individuale. Alcuni drammaturghi inglesi, in particolare David Hare, hanno scritto testi per il grande pubblico che attaccavano i valori del thatcherismo. Gli scrittori raccolti in Nuovo teatro ingese sono più indiretti nel loro approccio: ma credo che il loro lavoro possa essere compreso soltanto come un attacco alla società che hanno ereditato.

Penso che ci sia un'altra ragione per cui l'Inghilterra produce tanta nuova scrittura: il fatto che esistono dei teatri che si dedicano esclusivamente a questa finalità. I drammaturghi non nascono per caso: hanno bisogno del sostegno, dell'incoraggiamento e della fedeltà di un'istituzione. Non è un caso che quattro di questi cinque testi siano stati prodotti per la prima volta al Royal Court Theatre, che, dal 1956, ha dedicato la maggior parte delle sue energie alla scoperta di nuovi autori: l'ultimo testo, Il Killer Disney, è stato prodotto per la prima volta in un piccolo caffè-teatro, il Bush, che dal 1972 è diventato una vetrina per nuovi testi. I drammaturghi inglesi sono fortunati a vivere in un clima culturale in cui la nuova scrittura viene presa sul serio. Il National Theatre non solo mette in scena un gran numero di nuovi testi: ha anche un Teatro Studio che offre un servizio a tutto il teatro e in cui gli autori scelti ricevono una scrivania, un po' di soldi e sono incoraggiati a continuare a scrivere. Tra i testi raccolti in questo volume quello che ha avuto maggiore circuitazione, Shopping & Fucking di Mark Ravenhill, è una coproduzione del Royal Court e di Out of Joint, una compagnia di giro impegnata nella nuova drammaturgia, diretta dal precedente direttore artistico del Royal Court, Max Stafford-Clark. Non voglio dare l'impressione che si tratti di un'isola felice. Dico soltanto che i nuovi testi arrivano quando ci sono teatri e istituzioni che si dedicano soltanto alla scrittura contemporanea. Se ogni capitale del teatro europeo avesse un equivalente del Royal Court, il quadro della situazione sarebbe molto diverso.

Così i nuovi drammaturghi inglesi raccolti nel volume Ubulibri provengono da una cultura comune. Condividono anche alcune opinioni: il rifiuto morale della società del guadagno, la fascinazione per il linguaggio, la preoccupazione per la violenza, la convinzione che non c'è niente che il teatro non possa mostrare. Per altri aspetti sono molto diversi. Sono autori dalla personalità molto forte e distinta. Ma la fiducia nella capacità del teatro di scioccare e turbare è centrale nel loro lavoro e nessuno l'ha usata più apertamente di Sarah Kane. Quando Blasted (Dannati) debuttò al Royal Court Upstairs nel gennaio 1995, fu accolto sulla stampa con un misto di insulti, indignazione e semplice incredulità. Dopo tutto era un testo che si presentava con masturbazione, fellatio, stupro omosessuale, defecazione, estrazione di occhi e cannibalismo. I critici registrarono fedelmente questi aspetti e il testo divenne argomento di dibattito alla televisione e alla radio, nei telegiornali e sulle prime pagine dei tabloid, giornali che di solito mostrano scarso interesse per il teatro.

Allora il testo non mi piacque e mi rifùgiai in un'ironia difensiva. Ma sono felice oggi di fare ammenda e riconoscere che Sarah Kane è un'autrice seria che ha molte cose importanti da dire. L'immagine chiave è quella di una stanza d'albergo nel Nord dell'Inghilterra. In questa stanza vediamo un giornalista di tabloid, che lavora come agente segreto, che circuisce e tiranneggia una ragazza ancora bambina per fare sesso con lei. La violenza insita nel loro rapporto viene poi mostrata al lavoro nel mondo: fuori c'è la guerra civile e un Soldato armato con un fucile da cecchino irrompe nella stanza, stupra e acceca il giornalista, che alla fine mangia la bambina morta che la ragazza ritardata ha preso per strada. Ma Blasted è molto di più di un semplice catalogo degli orrori. La Kane sottolinea con chiarezza che esiste un nesso causa-effetto tra violenza sessuale e violenza pubblica, che i tabloid inglesi mescolano eccitazione e sciovinismo sfrenato e che noi non vogliamo occuparci di quel tipo di atrocità che, in quel momento, erano quotidiane in Bosnia. La Kane non vuole sfruttare la violenza, ma toglierle ogni fascino. E, secondo le parole del regista dell’edizione inglese James Macdonald, "Blasted parla con competenza e passione di nazionalismo, razzismo, violenze fisiche e psicologiche, fantasie sessuali e della furia autodistruttiva del maschio". Ritengo ancora oggi che la Kane non riesca a dare all'azione da incubo un contesto credibile. Ma non ci sono dubbi sull'onestà intellettuale del suo lavoro o sulla sua visione puritana della violenza.

Mark Ravenhill, il cui Shopping & Fucking ha debuttato al Royal Court Theatre Upstairs nel settembre 1996 prima di passare al West End e partire per una tournée nazionale e internazionale, è un altro moralista che non ha paura di scioccare il suo pubblico. Soltanto il titolo della sua opera (in italiano qualcosa come Comprando & Chiavando, n.d.r.) ha creato tanta di quella costernazione che è stato prudentemente riempito di asterischi sui manifesti fuori dai teatri e sugli annunci stampa. Ma il suo testo è chiaramente il lavoro di uno scrittore preoccupato per la trasformazione dei rapporti sessuali in transazioni commerciali e per la tristezza e la disperazione di una società capitalista in cui, secondo le parole di uno dei personaggi, "il denaro è civiltà".

Ravenhill registra, con brutale precisione, il malessere e la deriva dell'Inghilterra di oggi. Quattro dei cinque personaggi sono giovani e, se pure ognuno in modo diverso, tutti in grave difficoltà. Mark è un tossicodipendente in via di disintossicazione che vuole scoprire se esistono ancora sentimenti che non siano indotti chimicamente. Gary è un giovanissimo marchettaro, violentato dal patrigno e ormai disperatamente dipendente dalla violenza sessuale. Il bisessuale Robbie e la sua ragazza, l'attrice Lulu, indebitati con un spacciatore di ecstasy di mezz'età, si danno al sesso telefonico e a soddisfare la volontà di morte di Gary per racimolare tremila sterline. Questi personaggi sono tutti vittime di una società che ha trasformato il sesso in un bene di consumo e che considera lì denaro più importante della vita umana. È curioso, Ravenhill ha detto che uno dei testi moderni che preferisce è A small family business di Alan Ayckbourn, che sostiene che il capitalismo porta automaticamente all'omicidio. Ma il testo di Ravenhill è più viscerale e scioccante di quello di Ayckbourn. È anche affascinante il modo in cui usa il mangiare come simbolo della stupidità dei consumi: il suo testo termina con i personaggi che si imboccano l'un l'altro proprio come Blasted finisce con l'eroina che mette pane e salsiccia nella bocca del giornalista umiliato.

A un primo sguardo, sembra che Mojo di Jez Butterworth, visto per la prima volta al Royal Court nel luglio del 1995, appartenga a un mondo diverso. Dopo tutto, è ambientato alla fine degli anni Cinquanta. Parla delle lotte di potere di un gruppo di ospiti di un piccolo locale di Soho, il cui pezzo forte – una rockstar di diciassette armi chiamata Silver Johnny – è stato rapito da un capobanda del Sud di Londra. Questo, direte, è American Buffalo di David Mamet o Le iene di Quentin Tarantino trasferito nella Londra degli anni Cinquanta: un mondo di piccoli uomini che fanno i grossi per nascondere il panico e le paranoie, e di gangsters in erba che tradiscono. Anche Butterworth ha uno splendido controllo della lingua, dei rapidi, selvaggi scambi di battute tra questi piccoli delinquenti che prendono e rielaborano ognuno le frasi dell'altro. Un famoso dialogo tra Sweets e Potts su un paio di scarpe di camoscio produce in inglese una cosa del tipo "Baby fuckin' buckskin handstitched by elves". Come ha scritto un critico: "questo è un Beckett in velocità, selvaggiamente divertente, che spinge sull'acceleratore, non ha più tempo per aspettare Godot". Ma cosa c'entra questo con il mondo in cui viviamo? Solo a una seconda lettura o visione dello spettacolo, quando si riesce a penetrare sotto la superficie brillante della lingua, diventa finalmente chiaro che Butterworth scrive sia sugli anni Novanta sia sui Cinquanta; che questo è un testo sul sistema patriarcale, sull'incesto, sull'omosessualità non riconosciuta e sull'incapacità degli uomini a rapportarsi a livello emotivo tra di loro. Sono personaggi fuori posto, disturbati, chiusi a chiave in un mondo ermeticamente sigillato: forse l'aspetto più agghiacciante del testo è che quel contatto si realizza solo attraverso il delitto. Butterworth intrattiene il pubblico con i suoi brillantissimi dialoghi, ma sembra anche dire che abbiamo creato una società in cui la violenza è l'unico modo che abbiamo di uscire dall'impotenza emotiva. Tra tutti i testi di questo volume, Attentati alla vita di lei, presentato al Royal Court Theatre Upstairs nel marzo 1997, è certamente quello più sperimentale dal punto di vista formale: è anche il lavoro dello scrittore più maturo, Martin Crimp, che ha quarantuno anni. È significativo comunque notare quante cose Crimp condivida con la generazione seguente: il piacere per la poesia del linguaggio, l'interesse per il tema della violenza, il radicale disprezzo per il capitalismo, il rifiuto di una società che tenta di trasformarci tutti in una massa indistinta di consumatori itineranti. Per gli altri scrittori il simbolo della società dei consumi è il cibo: per Crimp è il mondo dei viaggi ad aria condizionata. Da un punto di vista strutturale Crimp rischia molto di più degli altri. Non ci dà un testo ma "diciassette soggetti per il teatro". Questi soggetti ruotano tutti intorno a un personaggio assente via via chiamato Anne, Annie, Anya, o piccola Annuschka. Può essere una terrorista urbana, un corriere suicida, una scultrice d'avanguardia, una bambina morta e perfino un'automobile chiamata Anny. Vengono in mente numerosi paragoni. Con il Il tempo e la stanza di Botho Strauss, che utilizza anch'esso un'eroina dall'identità continuamente mutevole per esprimere la disperazione e il vuoto della società moderna. O anche con Un ispettore in casa Birling di Priestley, in cui una donna morta è il tramite per un attacco a sfondo etico contro la cultura materialista. Ma il maggior risultato di Crimp in questo testo straordinario è che riesce a offrirci una decostruzione del modello contemporaneo di dramma – è un lavoro senza trama, personaggi o dialoghi convenzionali – pur esprimendo allo stesso tempo un forte impegno morale. Per Crimp, che un tempo lavorava in un'agenzia di pubblicità, l'automobile diventa il simbolo del vuoto del capitalismo globale e "la Anny sfreccia all'alba attraverso villaggi nordafricani".

Con Il Killer Disney di Philip Ridley, che ha avuto la sua prima al Bush Theatre nel gennalo 1991, ritorniamo alla metafora del cibo. La coppia centrale, i due fratelli simbolicamente chiamati Presley e Haley come se fossero prodotti del rock 'n' roll dei tardi anni Cinquanta, sono dei reclusi cioccolata-dipendenti. La loro fatiscente tana-cucina viene invasa da Cosmo, vestito con una giacca di strass, che si libera vomitando dai resti di animali vivi che mangia nei suoi spettacoli nei nightclub. Niente affatto scoraggiato insiste anche perché Presley faccia uno spuntino con uno scarafaggio preso dalla ben fornita cucina. Ridley ha un grande talento nel descrivere cose disgustose, ma vuole anche suggerire, come molti degli scrittori di questo volume, che la smisurata ingestione di cibo è un sintomo sia di instabilità psicologica dell'individuo che di decadenza della società.

Ridley, come appare evidente da questo e dal suoi testi seguenti, è molto meno puritano e moralista degli altri scrittori. Ma condivide con loro, in questa storia di Hänsel e Gretel raccontata in chiave barocco-proletaria, il fascino per gli incubi, i mondi ermeticamente chiusi, le fantasie spaventose: il monologo centrale. del testo è di Presley, e descrive uno scenario da incubo in cui un ragazzino, costretto a forza ad accettare la sua sessualità, non riesce a convincere quelli che gli stanno intorno che è ancora un bambino e non un vecchio ripugnante, e sta male perché non sa chi è responsabile della sua condizione. Il lavoro di Ridley ha i suoi riferimenti: non ultimo, nel suo ritratto dei fratelli reclusi de I ragazzi terribili di Jean Cocteau, ma la sua opera ha un fascino bizzarro che la impone all'immaginazione.

In conclusione, cosa ci insegnano i cinque testi di Nuovo teatro inglese? Senza dubbio che la drammaturgia inglese è viva e in ottima salute. Ma, più in particolare, testimoniano il diffuso disgusto morale verso il mondo che gli autori hanno ereditato, la deterininazione nell'allargare i confini del gusto, la fiducia nelle possibilità del linguaggio teatrale, il desiderio di una società più onesta e comprensiva. Non sono testi 'politici' nel senso convenzionale del termine: cioè testi che trattano dei mali delle istituzioni di oggi o suggeriscono una linea di azione. Devono poco a Brecht o alla stessa tradizione inglese del teatro di impegno civile rappresentata da David Rare, David Edgar, Howard Brenton o Trevor Griffiths. Vivono molto più a livello di fantasia o di sogno. Ma dietro questa dimensione onirica si avverte con chiarezza la tensione verso un mondo più giusto e corretto, che offra un'alternativa radicale alla brutalità del capitalismo.

 

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