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M a t t h e w C o l l i n g s
Blimey!
L'arte inglese da Saatchi al Britpop

 

Matthew Collings is an artist, writer and contemporary art commentator. He's best known as the presenter (and writer) of the TV series This is Modern Art, and the presenter of Channel Four's coverage of the Turner Prize.

© Matthew Collings

Rebel with a Pose

Secondo la leggenda, la giovane arte inglese è stata una dura e snervante lotta contro l’oppressione del governo Thatcher. Ma i giovani artisti inglesi hanno imparato anche a essere degli ottimi manager, integrati e modaioli. Si sono messi a organizzare mostre di lusso in vecchie fabbriche abbandonate, approfittando del crollo dei prezzi che ha seguito la crisi economica degli ultimi anni Ottanta. Ribelli o squali?

Per organizzare Freeze Damien Hirst ha messo le mani su un paio di indirizzari di gallerie famose: non che fosse particolarmente difficile, ma nessuno studente appena uscito dall’Accademia ci aveva mai pensato. Hirst non ha fatto altro che attirare Norman Rosenthal della Royal Academy, Nicholas Serota della Tate, qualche collezionista, un paio di curatori, i critici giusti e le gallerie con gli agganci migliori. Era questa la sfilata di rivoluzionari che affollava il vernissage di Freeze.

Il catalogo aveva una bell’impaginazione professionale con tanto di saggio del critico giusto e affermato (un vero capolavoro di scorrevolezza, chiarezza e diplomazia: non lo si poteva né amare né odiare, potevi solo essere d’accordo). Nemmeno questa era un’idea originalissima, ma prima di allora nessun artista era stato sfiorato dal pensiero che un catalogo e una sfilza di indirizzi giusti potessero far sembrare vera una mostra.

 

Amebe

In realtà tutti si sarebbero aspettati una mostra più radicale, che rompesse completamente con il sistema delle solite gallerie e dei critici più in. Prima di Freeze tutte le mostre curate direttamente dagli artisti avevano proprio quell’aspetto trasandato e diretto, senza fronzoli. E nessuno se le ciucciava: erano solo delle minuscole amebe in un mare affollato dai pescecani.

 

Tutti in tiro

Freeze fu il cosiddetto salto di categoria. Gli artisti avevano aperto gli occhi, l’imperatore è nudo, gridavano: il faut etre absolutament professionel. O almeno sembrare professionali quanto i collezionisti e le gallerie che sembrano professionali. Capito l’antifona? L’arte non si faceva più negli atelier o nelle soffitte. Creavi qualcosa nel tuo studio e poi dovevi fiondarti nella galleria più elegante con il tuo bravo cataloghino professionale, la recensioncina sulla rivista XY (edizione internazionale naturalmente), accumulare quintali di punti frequent flyer saltando da una zona calda all’altra con il tuo stuolo privato di curatori, professionisti, collezionisti e altri vampiri tutti in tiro e tutti eccitati dal tuo - breve - successo.

Lo studio quasi non serviva più. Contavano più il fax e il catalogo. Ci voleva comunque un po’ di creatività: non potevi galleggiare a lungo nel vuoto. Solo Hirst ci campava con il vuoto e il nulla. Ma tutti dicevano che quello era il suo stile: nulla e sfacciattaggine.

 

Altre mostre in spazi alternativi e (ovviamente) industriali

Dopo Freeze ci furono un paio di altre mostre in vecchie fabbriche e bastò un attimo perché l’ambiente industriale diventasse una vera e propria istituzione. Ci fu una specie di invasione e si arrivò al punto in cui le mostre in spazi industriali non si tenevano nemmeno più in vere fabbriche in disuso. L’importante era che sembrassero abbastanza industriali e alternative. Almeno un inglese su dieci è stato una volta in una mostra in uno spazio alternativo. Le zone più gettonate sono il nord o il sud di East London, oppure alla periferia della City, dalle parti di Old Street.

Le mostre sono praticamente intercambiabili. Manca quasi sempre la luce e quindi vi sconsiglio di fare tardi, altrimenti non vedrete assolutamente niente (Il nulla di Hirst?). I cessi - se ci sono - sono rigorosamente intasati. Alcuni posti possono essere davvero pericolosi. I peggiori sono quelli vicino ai Docks: le porte non hanno serrature e si aprono su precipizi a picco sul Tamigi. Capita piuttosto spesso che qualche critico ubriaco o qualche artista annoiato muoia sgattaiolando dalla porta di servizio, nel disperato tentativo di sfuggire da qualche ammiratore segreto o da un altro artista troppo insistente ("Le hai poi viste le miei diapositive? Hmmm, Interessanti, non trooooooviiii?)

Le mostre sono tutte stupide o frivole o spocchiosamente intellettuali. I titoli possono essere scambiati a piacere e i readymade e gli altri oggettini devono avere un aspetto confuso, un po’ sciatto o sbadatato (molto casual) né carne né pesce - per dire. L’arte, si sa, è un codice e chi la capisce è bravo, cioè in. Tutto qui.

Non ho mai capito perché, ma anch’io sono stato invitato a un paio di queste mostre. Una volta ho partecipato a una esposizione in uno spazio alternativoindustriale, intitolata Candyman II (come il film dell’orrore, solo con il II in più. Un II aggiunto così, senza ragione criticopoetica, giuro). Lo spazio era una vecchia fabbrica dalle parti di Rotherhithe: doveva essere stata una fabbrica di biscotti o un deposito di biscotti, qualcosa a che fare con i dolci comunque, perché l’intero edificio puzzava di grasso e lardo. I muri erano ricoperti da una specie di poltiglia appiccicosa che dava al tutto un tocco veramente disgustoso.

Allora, mi telefona un tizio e mi chiede se voglio esporre e gli dico OK. Vado a vedere lo spazio e ci trovo gli altri artisti (nessuno che conoscessi). Ci aggiriamo in questa stanza gigantesca, con soffitti altissimi e pavimenti sistematicamente ricoperti da cacche di piccione. Fu una visione sconvolgente e romantica: la giornata era luminosa, lo spazio chiaroscurato dallo sporco, portentosamente pittoresco e immerso in un inebriante profumo di biscotti marci. C’era un tizio - ci disse il tizio che mi aveva telefonato - che avrebbe fatto pulire i muri, li avrebbe anche ridipinti se volevamo, e avrebbe pagato anche le luci. Era il proprietario del magazzino: avrebbe pensato anche al catalogo, alla pubblicità su Art Monthly e alla festa per il vernissage.

Ci mettemo tutti al lavoro e dopo qualche mese provammo il brivido di leggere i nostri nomi su Art Monthly (nessun refuso, da non crederci). Il giorno fissato arriviamo con i nostri furgoncini noleggiati e appendiamo i lavori. C’era una scultura che era una cancellata con qualche lampadina sopra. Un paio di dipinti fatti con la penna Bic. Il vernissage andò bene come sempre. Il bar era proprio davanti alla cancellata.

Ero anche in Something’s Wrong, una mostra in uno spazio industrialchic che si tenne qualche anno vicino a Bermondsey Street. Al vernissage regalavano pinte di Thunderbird e c’era questo tale che lucidava le scarpe agli invitati, e poi si scopriva che era una specie di performance, un’opera d’arte insomma.

I vernissage non sono posti per mammolette. Sono dei veri e propri tour de force emotivi, anche se le emozioni non devono mai essere espresse. Regola numero uno: mantenere sempre l’autocontrollo. Sforzatevi di sembrare normali, aggiratevi con nonchalance pronunciando di tanto in tanto le parole Ciao! Brillante! Hmmm! Interessante. Poco importa se dentro siete completamente a pezzi (lo sono tutti, non vi preoccupate). È stato clinicamente dimostrato che chi frequenti più di quattro vernissage all’anno è vittima di gravi squilibri affettivi, rivela una personalità dissociata e soffre di svariati disturbi posttraumatici da stress.

Per dire: entro nella stanza affollata e c’è quest’opera fatta con due pezze di tela dai colori brillanti (rosso e arancione probabilmente) e i due cosi sono tenuti assieme con dello scotch marrone, quello da pacchi. Accanto all’opera c’è un testo stampato a computer, è firmato Liam Gillick, che è l’autore delle tele e del testo (che naturalmente nessuno legge). Tra la gente vedo Angella Bulloch che ha qualcosa di strano. Io sto blaterando a casaccio, perfetto stile vernissage. Mi avvicinò e le dico, Bello il pezzo di Liam. Qualche secondo dopo scopro che i Angela e Liam si sono lasciati dopo anni, perché lui stava (da anni?) con un’artistta americana che fa dei quadri con parole e frasi. Scopro questa telenovela solo qualche secondo dopo averle parlato, ma come se non bastasse appena smetto di parlare noto che il suo viso si sta sottoponendo a una specie di mostruosa mutazione e mi fa Comunque c’è anche un mio lavoro, qui. Quindi, anche senza contare la storia della rottura con Liam, io sono con le spalle al muro. Mi scuso e le dico che vado subito a vedere la sua opera. La trovo: è una gigantesca poltrona a fagiolo con una TV che proietta un video con alcune ragazzine cinesi che se ne stanno sedute a parlare e fare altre cose da artisti. Poco dopo incontro di nuovo Angela e le dico Le hai filmate tu le cinesi? Sono giapponesi, mi dice e scopro che vive in Giappone da tre mesi.

 

Vaschetta lavadita

Ieri ho sognato che dovevo scrivere un pezzo su Charles Saatchi e mi ero fatto il mio bello specchietto con tutte le cose da ricordare. Punto numero quattro: Bevuto vaschetta lavadita. In vita mia ho bevuto una sola volta l’acqua dalla vaschetta lavadita di un ristorante e naturalmente è successo quando sono uscito a cena con i Saatchi, Charles e Doris. Eravamo in un ristorante giapponese e io li stavo letteralmente supplicando di comprare Artscribe (la mia rivista) e di salvarci dalla bancarotta. I Saatchi dovettero insegnarmi a usare i bastoncini cinesi (che poi era giapponesi, al solito) e quando ci portarono la vaschetta lavadita io me la sparai in un sorso. Mi accorsi di aver fatto un passo falso non appena deposi delicatamente la bacinella, ma i Saathci sono grandi e furono così gentili da non dire nulla e mi piace pensare che per educazione abbiano bevuto anche loro.

Allora Charles Saatchi assomigliava ancora a quella sua vecchia foto che pubblicavano tutti i giornali: capelli riccioli e neri, un completo scuro, sobrio e una cravatta elegante. Qualche anno dopo, all’improvviso, Charles si trasformò in un tizio belloccio, tutto griffato, e non è più cambiato da allora: un miliardario abbronzato e strafigo.

Alla fine non comprarono Artscribe perché - a quanto pare - qualcuno della Tate gli aveva suggerito di non farlo (un bell’applauso alla Tate! Grazie ragazzi!).

 

Senso di colpa

Dopo l’incontro con i Saatchi rimasi disoccupato per un po’. Di tanto in tanto incrociavo Charles che era sempre gentilissimo e mi diceva sempre cose carine e incoraggianti tipo Cosa pensi di fare adesso? Perché non ti compri una galleria?

Poi mi trovai un lavoro alla BBC e mi diedero da scrivere il testo per un documentario sulla collezione Saatchi. Lo feci e Lui non mi parla più da allora. Naturalmente mi sento in colpa, anche se non ho mai capito che cosa ho detto di così odioso. Credo che a Charles non possa piacere niente che non sia semplice, schietta, sincera ed elegante adulazione. E se fossi ricco come lui non mi aspetterei altro, in effetti.

 

Tutti quei Lucian Freud

Ricordo ancora l’ultima conversazione che ebbi con Lui. Gli telefonai per il pezzo della BBC, era molto arrabbiato perché in quegli anni tutti i giornali lo stavano attaccando: si era messo a vendere tutti i suoi quadri di Anselm Kiefer, di Julian Schnabel e Sigmar Polke, sparando prezzi astronomici che solo qualche giorno dopo sarebbero clamorosamente crollati. Era furioso per la campagna negativa dei giornali inglesi e diceva che avrebbero dovuto occuparsi del bene che stava facendo all’arte inglese e magari ricordarsi ogni tanto di tutti quei Lucian Freud che aveva comprato. Mi disse che se i giornali avessero continuato a lamentarsi Lui avrebbe chiuso la sua galleria, si sarebbe comprato uno yacht e sarebbe diventato un miliardario egoista come tutti gli altri. 

 

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