M a n u e l D e
S i c a |
Nel 50° anniversario del primo Oscar a un film straniero - attribuito a Sciuscià di Vittoria De Sica nel 1947 - Edizioni Olivares ha voluto rendere omaggio a uno dei grandi maestri del neorealismo, realizzando un piccolo volume che ne racchiude lo spirito. Accanto a un brano a cura del figlio Manuel (concesso in esclusiva a Trax) - che rivela con umorismo le prime esperienze americane del padre ai bordi delle grandi piscine hollywoodiane alla caccia di produttori per i suoi soggetti - sono presentate le schede dei tredici maggiori film di De Sica con le fotografie prese dai set. Si va da Ladri di biciclette, a Umberto D fino a Matrimonio all'italiana in un crescendo di premi e riconoscimenti a De Sica come regista ma anche come attore. Un'intervista a Cesare Zavattini, il principale soggettista delle opere di De Sica e protagonista della grande stagione neorealista, chiude il volumetto che, per la grafica ricca e l'elevato numero di immagini inedite, è una vera rarità da cinefili. On the anniversary of the first Academy Award to a foreigner movie - won by Vittorio De Sica's Sciuscià in 1947 - Edizioni Olivares has published a small and precious book dedicated to the Italian director. The book collects previously unpublished photos, a complete filmography, an interview with Cesare Zavattini (De Sica's favorite writer) and a delicious portrait signed by his son Manuel De Sica, that introduces us to the director's american experience: his meeting with Howard Hughes, completly wrapped in cellophane; his struggle to introduce real-life movie in Hollywood studios and his personal taste in cocktail drinking by the Hotel Bel Air swimming pool. © Edizioni Olivares |
L'idea
di rappresentare un film dal vero, come Sciuscià, venne a papà
- così come mi raccontò - alla caduta del regime fascista, quando poté
finalmente vedere La folla di King Vidor (1928). Già nel 1947,
quando cercava finanziamenti in America per Ladri di biciclette,
gli era stato imposto Cary Grant per la parte del protagonista: l'operaio
romano a cui rubavano la bicicletta! Quando più tardi, nel 1952, andò a Hollywood chiamato da Marcello Girosi, a quei tempi executive producer per la Paramount, non avrebbe mai immaginato quanto stava per accadergli. Ladri di biciclette (1948), il suo capolavoro del periodo neorealista, premiato alla Confrontation di Bruxelles ex aequo con La febbre dell'oro (1925) di Charlie Chaplin come secondo miglior film del mondo - il primo era La corazzata Potëmkin (1925) di S. M. Ejzenstejn - aveva messo in discussione il comune senso pratico della fiction. Le commedie che venivano realizzate allora, erano ispirate a testi teatrali ungheresi e fino a quel momento avevano influenzato il tono del cinema italiano. Mio padre non sapeva una parola di inglese. Il produttore Girosi, di origine partenopea, lo tranquillizzò suggerendogli di pronunciare solo due parole: "Magic vision..." Atterrato all'aeroporto di Los Angeles, continuò a profondere sorrisi e a sussurrare la formula girosiana a chiunque gli capitasse di fronte. Giunto all'Hotel Bel Air, fu parcheggiato in piscina dal suo accompagnatore e lì rimase a sorseggiare svariati cocktail, in attesa di incontrare il produttore Howard Hughes e parlagli di un soggetto. Le giornate passavano, i cocktail si moltiplicavano e Hughes seguitava a rimandare l'incontro. Girosi continuava a tranquillizzare papà, dicendogli che prima o poi il tycoon si sarebbe fatto vivo. E finalmente, un giorno, dopo quasi tre mesi di attesa, Hughes si presentò. Foderato da capo a piedi di cellophane, forse per paura dell'inquinamento, ascoltò la proposta di realizzare un film dal vero a Chicago. L'incontro si concluse immediatamente e senza esito positivo, il produttore gli spiegò infatti che, per motivi concettuali e sindacali, non sarebbe stato possibile girare neppure una scena dal vero. Non rimaneva che un espediente, e cioè quello di ricostruire all'interno degli studios l'intera Chicago. D'altronde a Hollywood questa era la prassi fin dai tempi di Femmine Folli di Erich von Stroheim del 1922. Mio padre aveva dunque rischiato l'etilismo per niente? L'esperienza californiana lo condusse invece all'attuazione di un altro progetto, questa volta con il produttore David O. Selznick. Il film era Stazione Termini (1953), interpretato dalla moglie del produttore, Jennifer Jones, e Montgomery Cliff, questa volta "dal vero", cioè alla stazione ferroviaria di Roma. In quei lontani anni '50, papà amava particolarmente Jerry Lewis perché, a suo parere, l'attore americano rappresentava la parte positiva della puerilità latente in quasi tutta la produzione americana. La sua origine teatrale gli faceva apprezzare il teatro di Eugene O'Neil, Thorton Wilder e Neil Simon, così come avrebbe amato il cabaret di Sid Cesar e, al cinema, lo slapstick di Mel Brooks e il genio drammaturgico a getto continuo di Woody Allen. Negli ultimi anni della sua vita stimava enormemente i suoi proseliti americani come Altman, Rafelson, Hopper, Coppola e Scorsese, perché erano riusciti a convincere i produttori, se non proprio a impiegare dei non professionisti per i ruoli principali, come aveva già fatto a cominciare da Sciuscià (1946) fino a Il Tetto (1956), a piazzare perlomeno la macchina da presa sulla strada. Vittorio De Sica è stato un movie maker oltre che un poeta - parlava di regia adoperando il termine "esecuzione" come fanno i direttori d'orchestra - e ha sempre rispettato la struttura del copione. Insieme al pioniere del neorealismo Roberto Rossellini - Roma città aperta (1945) precede di poco Sciuscià - ha sempre ricercato quella verosimiglianza che non trovava recitando a teatro. La sua forza espressiva era dovuta soprattutto all'impiego dell'ironia, in contrappunto continuo ai momenti più tragici. Ricordo ancora la sua insistenza nel volere usare Vivere, una canzonetta d'epoca fascista, come sottofondo per una livida scena di disfatta ne Il Giardino dei Finzi Contini. D'altro canto conservò invece la sua teatralità d'attore e questo, suppongo, lo deve avere molto aiutato nella direzione dei suoi interpreti. Un giorno lo scoprii a letto mentre "amoreggiava" con Marcello Mastroianni. Fuori scena, ai piedi di quel letto, Sophia Loren seguiva attentamente ogni dettaglio della sua verosimile mimica, per poi ripetere il suo esempio alla perfezione. De Sica detestava la tecnica quando mirava unicamente a un effetto meccanico, e prediligeva l'aspetto umano della vicenda, soprattutto se riguardava le conseguenze, i riflessi di un evento tragico, come ad esempio accade con la guerra: anziché infarcire la scena di elementi caratteristici, specifici come le esplosioni, le divise, i carri armati, eccetera. Aborriva l'arroganza in favore delle debolezze umane, amava l'uomo più del super eroe e detestava il suo stesso recitare, talvolta "sopra le righe", che tanto piaceva invece al grande pubblico. A questo modo di recitare preferiva toni naturali, sfumati. Una volta, sul set di Amanti, per limitare la tendenza di una professionista come Faye Dunaway a esagerare nella recitazione, come avrebbe sicuramente fatto anche lui, le fece un esempio: c'era da riprendere un primo piano e papà, tenendo la punta del suo dito indice a tre centimetri dal volto della preoccupata attrice, le raccomandò con un amabile sussurro: "Ecco... tu devi pensare all'occhio del pubblico come se ti stesse continuamente osservando dalla distanza di questo dito..." La recitazione, di colpo, divenne molto verosimile. |