Luca
Masali offre ai lettori di Trax l'opportunità di gettare un'occhiata
al suo quaderno di lavoro: ecco le prime pagine del suo prossimo romanzo
Pensiero selvaggio, un'incursione nel mondo musulmano, una
sorprendente archeologia del presente tra cacciatori di petrolio e
mostri integralisti.
Italian
SciFi writer Luca Masali has allowedTrax editors to peep into his
notebook: here are the first pages of his soon to be published novel,
Pensiero selvaggio, a bizarre collage of muslim philosophy
and postatomic scenarios.
© Luca
Masali
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Šeyh-ül-Islam:
supremo giudice dell’islam
Monti Ahaggar, Sahara algerino, 1921
Indi Dio mandò un corvo, il quale grattò la terra,
per mostrargli come coprire il corpo di Abele.
Al che Caino disse:
"Sciagura su di me! Io che non sono stato in grado,
come invece è riuscito a fare questo uccello,
di nascondere il corpo di mio fratello!"
La prima cosa che colpiva era l’odore.
Penetrante, aspro e dolciastro. Ma non sgradevole, almeno in apparenza.
Sembrava solo fuori posto, in quella distesa di sassi e sabbia rossa
e pulita.
Il naso è un organo analitico. Piano piano costringe il cervello a
rendersi conto di quello che sta sentendo.
L’aroma della benzina, l’odore della gomma appiccicosa liquefatta,
il puzzo della carne bruciata.
Solo allora si capisce che è il tanfo della catastrofe.
L’autista frenò la pesante auto cingolata. Era coperto di polvere
dalla testa ai piedi. La sabbia impalpabile mescolata al sudore era
appiccicata alla barba non rasata.
Sollevò gli occhialoni antivento sul berretto kaki, e si passò la
lingua sulle labbra secche.
- Cristo… -
Il passeggero si massaggiò gli occhi arrossati dalla fatica.
- Non possiamo far nulla per loro, Louis. Ti prego, torniamo indietro.
-
- Dobbiamo seppellirli. -
Louis saltò a terra. Gli stivali di cuoio sprofondarono qualche centimetro
nella sabbia. Si tolse i guanti, e prese una piccola pala di metallo
dal posteriore dell’auto. Più che un fuoristrada, la Citroên B2 sembrava
una piccola autoblindo. Aveva una carrozzeria torpedo chiusa a sei
posti. La parte frontale era identica all’automobile Type A, dalla
quale derivava, con le grosse ruote a raggi. Dietro le ruote erano
sostituite da cingoli a quattro rulli.
Louis mise in spalla la pala, e si avvicinò lentamente al luogo della
tragedia.
La sabbia era annerita dal fuoco per diversi metri attorno al relitto.
Solo i cingoli contorti consentivano l’immediata identificazione dalla
carcassa, di quello che restava di un’altra Citroên B2. Louis ispezionò
con attenzione il muso, proprio dietro il grande radiatore verticale.
Pulì col fazzoletto la sabbia dal metallo ossidato dal fuoco, fino
a rivelare le lettere con gli svolazzi liberty.
Scarabée d’Or.
L’auto di Georges e Maurice.
Al di là del vetro annerito dal fumo c’erano i corpi carbonizzati
dei due piloti. Louis spalancò la portiera del relitto. Con precauzione
estrasse i cadaveri, e li adagiò sulla sabbia. Il fuoco aveva protetto
i corpi dalla voracità delle creature del deserto.
Anche il compagno di Louis scese dall’auto, e si avvicinò lentamente
premendo sul naso un fazzoletto bianco.
- Sono loro? -
- Sì. -
Louis cominciò a scavare la fossa.
Il compagno di Louis, esaminò con attenzione professionale i corpi.
A un tratto spalancò gli occhi per la sorpresa.
- Vieni a vedere! - Esclamò.
Louis piantò la pala in verticale nel terreno, si pulì il sudore dalla
fronte e si avvicinò ai cadaveri.
- Guarda! -
Si inginocchiò per vedere meglio. L’altro indicava il collo dei due
cadaveri.
Louis lasciò sfuggire un fischio di sorpresa. La gola di entrambi
era stata squarciata. Una ferita netta, inferta dalla lama di un pugnale.
Un altro deserto, un altro tempo.
Per il Cielo e per Colui che viene di notte!
Da che cosa si capirà che è il suo momento?
Da un astro di grande chiarore!
In verità, ogni anima ha il suo custode.
La sabbia era dura come il cemento, impastata dal bitume grasso e
puzzolente. Manat tremava dal freddo sotto l’altissimo traliccio dell’antico
pozzo. Scavava con le mani come un cane, inginocchiata sul terreno
gelato, le dita doloranti a malapena protette dai grossi guanti di
cuoio slabbrato. Vicino a lei Ahmed sbuffava e grugniva, cercando
di aprirsi un varco nella sabbia con una spranga di ferro arrugginito.
Come lei, il compagno era infagottato in un informe giaccone di lana
consumato e malamente rabberciato, gli occhi protetti da grossi occhialoni
da motociclista. Una lente era spaccata, ma tanto Ahmed era guercio.
Stravolta dalla fatica, Manat rialzò la schiena e sollevò gli occhiali
incrostati di bitume. Sputò sulle lenti, e cercò di pulirli col guanto.
- Che merda! Ma possibile che una volta fossero così coglioni da estrarre
questa porcheria? -
Ahmed ruttò con voluttà.
- Merda? Scherzi, Piccola Luna? Questo è Heavy Iranian purissimo.
Ai suoi tempi era uno dei migliori petroli pesanti della Persia. Oro
nero, lo chiamavano! Ottanta vecchi dollari il barile, all’epoca della
Seconda Crisi.
La ragazza sorrise al compagno, e gli scompigliò i capelli col guanto
lurido. Non che la cosa potesse fare qualche differenza, visto che
Ahmed era nero di bitume dalla testa ai piedi.
- Oro Nero? Allora erano davvero coglioni, visto che questa porcheria
è marrone come la merda. Hai trovato qualcosa?
- Non c’è un accidente di niente. Solo sabbia e bitume.
Lei storse il naso. Il sogno di tutti i Cani dei Pozzi era quello
di fare il colpo grosso: trovare la scheda madre ancora funzionante
di un vecchio computer, o addirittura dei banchi di memoria efficienti.
Al mercato nero, una memoria funzionante poteva valere come un anno
di stipendio di un programmatore... Posto naturalmente di essere così
fortunati da riuscire a vivere abbastanza per spendere il malloppo.
La struttura schiantata del derrik, la torre di trivellazione, sembrava
la carcassa di una balena arenata nella sabbia dell’altipiano. La
torre doveva essere crollata da tempo immemorabile, forse dalle antiche
Guerre Energetiche, o forse al tempo dei disordini seguiti alla Seconda
Crisi Petrolifera. Gli scheletri di metallo corroso, coperti dalla
secolare fuliggine di antichissimi incendi punteggiavano tutto l’altopiano,
e arrivavano fino ai faraglioni di cemento delle antiche industrie
della Città. Manat sapeva che una volta la Città aveva un nome: Teheran.
Ma da moltissimo tempo, da prima che sua nonna nascesse, per tutti
era solo la Città. Il mondo di Manat era semplice: c’era la Città,
e c’era il Deserto.
Lei odiava il deserto. Odiava i Pozzi, la fatica selvaggia per racimolare
qualche componente elettronico di scarso valore. Un diodo poteva forse
calmare i morsi della fame per un giorno, una scheda spaccata da cui
recuperare qualche integrato significava potersi pagare lo stordimento
del neohashish. In mezzo il gelo delle notti nel deserto, e il pericolo
tutt’altro che teorico di farsi tagliare la gola da qualcuno che voleva
i suoi guanti o i suoi stivali.
Un rumore la distrasse.
- Ascolta, Ahmed!
Sussurrò preoccupata. Un suono nel deserto significava solo morte.
Poco importava sotto che forma: banditi, cani ritornati allo stato
selvaggio, disperati come loro... Nel deserto non si facevano domande,
si uccideva. Chi colpiva per primo aveva qualche possibilità di sopravvivere,
e poi poteva sempre vendere le spoglie dell’altro.
Ahmed tese l’orecchio. Cercò di confortare Manat, ma era pallido come
un morto.
- Non sento nulla... No, aspetta...
Un suono lieve, raschiante... Come uno scorpione che striscia sulla
sabbia. Ahmed balzò in piedi, stringendo forte la spranga di ferro.
Manat si appiattì a terra, cercando di confondersi col terreno, diventare
un grumo di bitume tra gli altri. Ahmed terrorizzato si guardò intorno,
scrutando con l’occhio buono le budella d’acciaio del derrick. All’improvviso
un potente riflettore lo inchiodò a terra. Una possente voce metallica
squarciò il silenzio della notte, violenta e inaspettata come una
raffica di mitra in un asilo nido.
- Nel nome di Dio, il Clemente, il Misericordioso!
Ahmed urlò. Un urlo strozzato, senza speranza, come quello di un agnellino
sventrato. Manat si sentì morire, e cercò di sprofondare nel bitume.
Un Kalam! Affascinata e terrorizzata, la ragazza sbirciò nell’oscurità.
Il Kalam era un informe mostro di acciaio, che si spostava sulla sabbia
con la grazia sinuosa di un serpente a sonagli. La macchina non aveva
una forma definita, sembrava un nido di vipere pulsante. Un faro laser
illuminava a giorno Ahmed, che si era buttato in ginocchio piangendo
e urlando. Pazzo di terrore, il Cane dei Pozzi implorava la macchina
di risparmiarlo con singhiozzi sconnessi.
Il Kalam parlò.
- Di Dio sono i cieli e la terra. Egli conosce degli uomini i pensieri
palesi e nascosti, e osserva ogni azione umana .
Manat sentì gli occhi inumidirsi, e lacrime brucianti scavarono solchi
pallidi nel bitume e nella polvere. Nonostante la situazione disperata
le sue non erano lacrime di terrore, ma di umiliazione. Aveva ovviamente
riconosciuto il versetto: la Surah del Bestiame. Erano Cani dei Pozzi,
e come cani sarebbero morti. Il Kalam continuò
- La vita mortale è cosa effimera e passeggera. I Timorati e i Virtuosi
la vivono pensando a Dio e all’Aldilà. Non siete in grado di capirlo,
voi che credete solo nell’esistenza di questa vita?
La macchina eruttò una lingua di fuoco accecante, e Ahmed avvampò,
povera torcia umana coperta di stracci. Corse urlando per pochi passi,
poi cadde e si raggomitolò in posizione fetale, urlando sempre più
debolmente. Un terribile puzzo di urina e carne carbonizzata sovrastò
per un attimo l’onnipresente fetore del bitume.
- Quando giunse il loro giusto castigo, essi poterono solamente dire:
"In verità, agimmo da empi e da iniqui!" -
Poi il suo faro illuminò Manat.
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