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Eric Leguèbe, 1973
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Come
è arrivato a fare il regista?
Quasi per caso. Non è che avessi fatto prima esperienza in teatro,
o con qualche altra forma d'arte. Sono uscito dall'università con
un diploma da ingegnere chimico, ma non riuscivo trovare lavoro. Era
appena finita la Prima guerra mondiale. Io però avevo un gran bisogno
di lavorare, di guadagnarmi la pagnotta e allora me ne sono andato
a San Francisco, dove mi avevano detto che stavano creando una nuova
casa di produzione cinematografica. Mi sono presentato dicendo: "Sono
Frank Capra, vengo da Hollywood". E non era nemmeno una bugia, perché
io vivevo a Los Angeles. Non ero quello che loro pensavano, ma mi
si aprirono tutte le porte. Ero più giovane ed entusiasta di loro.
E così diventai attore, prima ancora che regista. Poi diressi il mio
primo film: un adattamento da Rudyard Kipling. La prima volta che
ho messo l'occhio sul mirino di una cinepresa, ho avuto come un'illuminazione.
Il mondo intero si è all'improvviso iscritto nel rettangolo dello
schermo. Ancora oggi provo lo stesso senso di meraviglia.
Come sceglie
le sceneggiature?
Non obbedisco a nessun criterio fisso. Giro intorno a ogni legge,
a ogni regola prestabilita. Perché io ho avuto la fortuna di fare
il gagman a Hollywood, poi lo sceneggiatore per Mack Sennet,
e questo prima di essere nominato sceneggiatore dal signor
Harry Langton.
Ho debuttato negli studios più piccoli, e così ho avuto la possibilità
di essere al tempo stesso maestro e allievo di me stesso, di debuttare
senza dover copiare né ispirarmi allo stile di altri. Ho dovuto da
subito decidere in prima persona dove piazzare la cinepresa e i microfoni.
Mi sono integrato a questo mestiere in modo istintivo. Allo stesso
modo con gli attori c'è sempre una comunicazione da essere umano a
essere umano, e non da macchina a uomo, da cinepresa ad attore. Il
mio scopo è sempre stato quello di far dimenticare al pubblico che
si trova davanti a uno schermo, di farlo entrare nel film senza badare
alla fotografia, alla musica, alla tecnica insomma.
Qual è il suo
metodo per dirigere gli attori comici?
Ogni attore è un caso a sé. I comici poi sono un vero problema nel
realizzare un film, perché non hanno mai il tempo di provare la loro
parte tutta insieme. Il nostro problema, di noi registi dico, è che
se facciamo un film che inizia a finisce a Shangai, non è che torniamo
due volte a Shangai per girare, ma ci andiamo una volta sola e spesso
giriamo la fine del film prima dell'inizio. Lavoriamo pezzo per pezzo,
come su un mosaico, e quando tutti gli elementi vengono messi insieme
deve sembrare che tutto sia stato composto in quell'ordine, che la
progressione drammatica sia cronologicamente logica. Nel corso delle
riprese solo il regista sa perfettamente dove ci si trova, in ogni
istante.
Quindi il suo lavoro consiste nel mantenere la progressione delle
sequenze da una scena all'altra. Bisogna che il regista abbia sempre
la storia in mente, che questa sia sempre logica, anche se la si prende
da un punto qualsiasi. Se gli attori non si fidano del loro regista,
è un disastro. Perché ogni artista, a ogni nuovo film, rimette in
gioco tutta la propria carriera in un colpo solo. È anche per questo
che il regista deve essere la chiave di volta per ogni film che si
stia girando.
Esiste una ricetta
per realizzare una buona commedia americana?
Una buona commedia? Be'' certo che piacerebbe anche a me conoscerla,
quella ricetta. È il genere più difficile di tutti, da scrivere, da
dirigere, da far produrre. È semplice: se non vi piace quello che
io invento, non posso farvi ridere, per quanto mi sforzi. Conquistare
tutto l'amore che un pubblico può dare: è questa l'ambizione di un
regista.
C'è un suo film
che preferisce a tutti gli altri?
Sarebbe un po' come dover decidere a quale dei tuoi figli vuoi più
bene. Comunque direi che ho una predilezione per La vita è meravigliosa.
Credo che sia il film che meglio esprime la filosofia che l'ha generato.
Sì, è proprio in quel film che ho detto meglio ciò che ho sempre voluto
dire. Non è un film comico, ma una commedia umanista.
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