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F e d e r i c o Z i b e r n a
Ipertesto e ospitalità

 

Federico Ziberna (Trieste, 1967) collabora con il Laboratorio di Storia della Filosofia Contemporanea delll'Università di Trieste. È impegnato in una ricerca di sociologia dei fenomeni territoriali e internazionali, con una tesi su teledidattica e rete.
Ha diverse pubblicazioni al suo attivo e va ultimando un libro su televisione, scrittura e pensiero. Si occupa di filosofia, linguaggio e comunicazione. È ideatore e autore di "Progetto Nelson" (adesso NEW.TO.N.), un software che permette di rendere interattive e aperte le pagine web.

Federico Ziberna, scholar at the University of Trieste, has developed "Progetto Nelson" (now NEW.TO.N.), a new hypertext software to make web pages interactive and open to reader's actions.

© Federico Ziberna

Parlerò dell’ospitalità del testo. Non, si badi, della parola ospitale, ma della parola che dà ospitalità e, aprendosi al "chissàcosa", induce il "passo" che fa oltrepassare la soglia.

In effetti, ospitali si può essere, solamente, verso ciò che in qualche modo opera questo incauto passaggio, incauto anche se operato con tutte le cautele di questo mondo: voglio dire il fatto di varcare e passare la soglia. Con il che già si questiona sull’ambiguità e la pericolosità (hospes/hostes) di ciò che si ospita, giacché l’altrui va oltre la soglia e la sorpassa, passa i confini e li guarda sempre con disincanto, come semplici linee. Linee di codice. Scritture e righe rapidamente cancellabili, rimuovibili ed erodibili, senza particolare enfasi, come soffiando su un disegno fatto sulla sabbia. Sui e dei tuoi pro/grammi, della tua grammatica, l’ospite si può far beffe. Spezza lo steccato della proprietà, questo gesto dell’altrui. E in qualche modo, questo gesto, porta con sé - da sempre - la dissipazione (la festa, il giorno giocondo del dispendio), annullando il confine del proprio e della proprietà, annichilendo la crematistica, l’accumulo lineare, la lingua del passo/dopo/passo (e qui, già, si sente l’odore dell’ipertesto, di ciò che non precede secondo questa linearità, ma salta), l’accumulo e l’economia del capitalismo.

Se arriva, l’ospite, bisogna accoglierlo con la festa. Bisogna nel senso che: il bisogno si contraddice nella sua vacanza, nella mancanza del bisogno e nella gratuità.

Hai passato il segno. E, la conseguenza nefasta del valico in/cauto (operato senza lasciare cauzione, senza "pagare lo scotto"), si fa sentire appena pestato il passo (il passo che è anche il passo testuale, la possibilità della sua tradizione/tradimento/tra-duzione, quando il passo viene "pestato" ed eroso). Si fa sentire, la conseguenza dell’interruzione di un con/seguire, quando uno dei due fratelli uccide l’altro, appena dopo aver consacrato i limiti del proprio, della città che doveva essere chiamata "eterna", e avendolo fatto assieme, da fratelli appunto. Appena dopo un semplice "passo" e per aver voluto varcare una soglia.

Un passo incauto. Fatto cioè senza cautele e senza pagare cauzione.

La scrittura si rivela così incisione ed ogni segno confine, mappatura che si consacra alla proprietà, al limite invalicabile, o valicabile solo ad un prezzo stabilito dal proprio per consentire "il passo" altrui.

E che l’ospite porti qualcosa! Questa è l’invocazione sommessa. Giacché bisogna che non ce ne sia bisogno, affinché il bisogno venga sospeso e si faccia festa, inizi la "vacanza" del bisogno. Bisogna che non ci sia bisogno dell’ospite affinché venga sospesa la soglia e la cautela/cauzione. Quando mai si potrebbe far pagare, ad un ospite, un biglietto per accedere alla nostra casa? il biglietto sarebbe infatti il suo boulette, la bolla, qualcosa che attesterebbe chi è e da dove viene, un dazio (un dato, un sapere, un’informazione) obbligato e richiesto al momento di varcare la soglia. Quando siamo ospitali, non domandiamo alcun biglietto e non facciamo carte bollate.

Questo è un passaggio delicato. Poiché - come tutti i passi/passaggi - ciò che viaggia potrebbe non trovare l’aspettato termine per il suo viaggio. Il termine, la parola, potrebbe risultare non consono/a. Non con/suonare. Non trovare il termine. La parola, appunto.

Il confine che la limiti. Questa parola di cui sto parlando, per essere ospitale, deve in qualche misura tradirsi, tra/sportarsi altrove e lasciar entrare nel suo "termine", nel suo confine, l’altrui. La parola di cui non c’è assolutamente bisogno, superflua forse, gratuita sicuramente. Dico "l’altrui" perché ne va della proprietà dell’altro, del suo essere-se-stesso, come me.

È questione di diplomazia questa consonanza. Del diploos di un testo, del fatto che se l’ospite è sacro, il diplomatico lo è "doppiamente". Guai ad uccidere un diplomatico. Egli infatti è at/testatore di una proprietà linguistica ‘bollata’ (certi/ficata) da un altro sistema, antagonistico forse al nostro, ma riconosciuto. Eppure non è un ospite e non lo si tratta come ospite. Non gli si fa pagare biglietto, è vero, ma solo perché egli ne ha da sempre già uno, quel "diploma" che certifica la sua provenienza, il suo sapere: il suo parlare non è ospitale, ed il suo "doppio" già da sempre senza incertezze. È questione dunque di un testo che si doppia e si specchia, di un proprio e dell’altro, della bella e brutta copia, forse (sulla questione della copia, della replicazione e dei passi doppiati, sorpassati e ‘fatti saltare’, tramite l’operazione di doppiaggio, avremo modo di tornare e chiarire in seguito). Ma il doppio che si specchia, non è il proprio e il diploos, il doppio, appare capovolto. E benché il diplomatico sia trattato certo come il "migliore" degli ospiti e sia quindi doppiamente sacro (guai a chi uccide l’ospite doppio, l’ambasciatore, che si dice apposta "non portare mai pena"), il diplomatico appare proprio tutto meno che un ospite, e viene per scongiurare un conflitto già latente: non lo si accoglie con serenità, ma già si sa quale sia la natura della sua diversità e a cosa mirino i suoi regali.

"Stai perciò attento: non passare il limite!". Ma, "al limite, potresti farlo, potrei concedertelo!". Su quel limite, temo, così, linguisticamente, c’è la soglia, l’abitudine e l’abitazione, la soglia della mia casa, e ti invito a rispettarla, non passando il limite, ma concedendoti, al limite, di farlo.

Sono solito farlo. Fare così. Soglio farlo. Cioè abito questo modo di vivere. La mia casa (il mio solere/sogliare, creare soglie e viverle) è il mio abito, le abitudini che indosso, i miei abiti/habitudini/averi, i miei averi, le mie proprietà.

Con quali panni si vestirà e tra/vestirà, allora, la parola per accogliere il pericolo del di/fuori che deve stargli dentro? Torniamo perciò alla domanda iniziale, la domanda intorno al "passo" che il testo può compiere attorno alle proprie abitudini, ai propri passi, ai passi di cui è composto, quelli giusti e quelli che si chiamano ‘falsi’ e lo fanno cadere, almeno, così crediamo, in crepacci che limitano pericolosamente con il non/senso e l’ipertesto.

La parola originaria è un mono-lite. Una pietra unica. Una parola/pietra fondativa, una parola pretesa fondativa, pre/tesa, messa innanzi per costituire una strada da promuovere, un dover/esser del mio abitare. "Da oggi in poi", questa è la mia casa, terra e spazio, agromensione del mio proprio, e "da qui in poi", "io"-"sono"-"la"-"legge", poiché i "termini", i confini e le leggi, le parole che dettano legge, sono indiscutibilmente le mie. Qui, nel mio habitus, sono il padrone assoluto, sciolto, ab/solto da ogni condanna anche se colpevole, sciolto da qualsiasi vincolo, che stringo invece attorno a me stesso come una cintura regale, come una corona per indicare il confine della mia regalità e del mio potere. (Ci sarebbe da dire infinitamente sull’ideologia della cinta, delle mura e delle murature, della cinta come metafora del contenimento, della castità, della non/penetrazione e dell’essere/sorvegliato, del sacrifizio e cordone dei frati, dei santi, della cintura sanitaria, della cintura di sicurezza: molte metafore del rapporto contrastato fra un luogo coloro che devono esservi ospitati o lasciati fuori. Allontanamento o avvicinamento alterno del pericolo dalla proprietà del proprio corpo, sia esso di carne o di sasso, città, casa, o corona infine, come simbolo della cinta, dell’essere sacro ed inviolabile, il testo/teste/la testa non de/capitabile, non spezzabile in "capitoli" [territoriali e libreschi], in zone periferiche e semi-autonome, vincolati gli uni agli altri solo da deboli legami).

La parola fondativa, sta - sembra - su un sasso, unico. Il mono-lite. E su di esso iscrive, il proprio, la legge, che trasforma, trasforma la pietra fondativa, in un nomo-lite. Una pietra di legge. Una pietra che si legge e che detta la legge. Un termine come "oggetto da essere letto/legge". Che detta/la/legge. Che detta e legge allo stesso tempo. Strana forma di testualità. Già incrinata, all’origine, da un’ipertestualità latente e da una inquietante possibile identificazione fra autore e lettore.

La pietra mono-litica rappresentante della legge invalicabile, insuperabile, oltre la quale la parola diviene sasso, lapida il colpevole, e inferisce così la punizione simbolica più antica e, per noi, oltremodo significativa. Azione simbolica cui tutti sono chiamati ad intervenire, per costruire un nuovo cumulo, un cumulo di pietre, un nuovo habitus, un nuovo/vecchio comportamento, ristabilire i termini infranti, seppellendo con le pietre il diverso/ribelle. Un habitus violato, una cinta, una casa (una domus e un domino) deve essere ripagato con la sostituzione immediata di un altro, con la costruzione di un nuovo cumulo di sassi.

Il dire lapida. La parola lapida. Colpisce con forza ed obbliga a farti "terminare", a tenerti sulle "tue", come si dice, a non uscire "allo scoperto", fuori dal tetto, fuori dalla copertura che ti è fornita dal tuo agire/abitare/le abitudini quotidiane.

Il mono-lite / nomo-lite vorrebbe eliminare l’ospitalità: il diverso tende a lapidarlo, a seppellirlo sotto una nuova abitudine, un cumulo di pietre che simboleggia la ri/costruzione di senso del gruppo. Il mono-lite / nomo-lite pensa di lasciar fuori (cordone) il diverso, ed invece, sempre lo penetra il rapporto inesauribile con l’indeterminato, giacché detta/la/legge.

Vedremo, forse, se ci sarà tempo, che è proprio la sua natura di pietra (calculus) che lo mette in rapporto problematico con la "determinazione", con il conteggio, con la numerazione, il sapere-bene ed il dominare (anche il dominare il futuro, pro/grammare gli stati futuri, scrivere innanzi, creare una pro/grammatica e gestire la pro/grammazione).

Calcolare significa in-effetti tentare di stabilire i termini, di terminare l’interminato, l’in/de/terminato. Di de/cifrare l’in/de/cifrabile, il senza/cifra, lo sconosciuto, l’innumerato, quello che viene dentro come ospite. E perciò non si deve contare. Con il sacro, infatti non si deve avere contatti, non deve esserci cum/tagio, trasmissione e comunanza di alcunché. E con ciò, sorge immediato il problema di come si possa essere ospitali, giacché l’altrui deve entrare senza toccare ed essere toccato, senza che ci sia contagio e conta, senza che lo si conti, senza che si faccia come con gli armenti, che sono con/tati, al ritorno nella stalla, cioè toccati per sapere quanti effettivamente sono, e se sono tutti, se sono tutte le mie proprietà, il mio avere.

Qual è questa ospitalità, se fatta calcolante, se fatta col calcolatore, con i sassi eppure senza contare, mettendo e togliendo le soglie, i sassi, fondando e sfondando i termini delle cose, inaugurando nuovi discorsi? Andando su e giù per i propri "passi"? per i passi del testo?

Eppure con l’ospite bisogna pur sempre calcolare, bisogna prevedere cosa potrebbe succedere, bisogna pro/vedere a lui, vedere innanzi/tutto se sarà soddisfatto, sempre naturalmente che la sua soddisfazione non giunga a scapito della nostra, che poi, detto per inciso, è sempre e solo la "mia", quella del proprio.

Vediamo d’investigare un po’ il calcolo e la sua pro/gettualità (il suo voler gettare innanzi, come desiderio di ogni sapere e scienza, la sua pro/grammaticalità).

Il calcolo - è facile dirlo - risulta da sempre l’arte di accostare le pietre, di metterle al giusto posto e di disporle correttamente (come facevano i pitagorici), non solo di giustapporle e affastellarle. È arte archi/tettonica, il calcolare e l’usare i calcolatori, per muovere i propri "passi", per farli muovere, per far "sgambettare" i discorsi, quell’arte che, avendo a che fare con i principi delle cose (arché), deve coprirli, "fondarli", darne fondamento, dare "protezione" al principio e costruirne le fondamenta. Tale arte calcolante è la sua base (fondamento, pietra mono/litica e nomo/litica) ed il suo tetto (la tegola, il tegus, la sua corazza, la scorza, la crosta della lumaca, il suo habitus, la sua dimora, i suoi mores, le abitudini, le concrezioni e le con/suetudini, il suo "sedere/assieme", con/sedere attorno ad un tavolo, la sua famigliarità, il gruppo di persone con il quale condivide il tetto, la proprietà dei termini, la lingua e le sue parole, la "proprietà" di parola). Il gruppo di persone con il quale condivide la lingua, la persona con la quale mette in comune la sua lingua, la moglie/il marito. Ed anche il gruppo con il quale condivide "la lingua", portatrice del senso del gusto, i gusti. Con quelli dunque che condividono i nostri cibi, i gusti. Con quelli che con noi condividono i gusti ed i gesti, le movenze, i comportamenti. L’altrui stia un po’ ad aspettare fuori. Lasciamolo aspettare fuori. Lasciamo che parli con la segreteria telefonica. Perciò lasciandolo ai bordi del testo.

Calcolare significa disporre correttamente le pietre, i termini, per costruire discorsi ben fatti, discorsi fatti "con proprietà" di linguaggio, senza penetrazione dell’altrui, discorsi fatti e tenuti per uso interno (mono/litici), per la famiglia, la comunità, il gruppo di cui ci circondiamo e grazie al quale ci sentiamo a casa. Ci con/sentiamo a casa.

Tutti possediamo dei termini, dei confini, delle parole, delle pietre che ci fanno sentire più a casa, o che meglio la rappresentano rispetto ad altre, ritenute viceversa insignificanti. Altre parole, per noi, che risultano solamente sassi qualunque, ciottoli che possono essere buttati via, che non servono per la correttezza del nostro calcolo e del nostro incedere sulla via [ciottoli e non ciotole].

E tentiamo un esperimento. Tentiamolo nel senso: cerchiamo di farlo peccare, di mostrare qualche sua incrinatura: ognuno pensi perciò alle proprie/proprietà, e ne dica tre, solo tre, anche solo tre, tre semplici parole che gli sembrino avere più aria di casa di altre. Tre parole preferite, che ne facciano la cinta. La sua corona. Ed ora pensiamo a quel gioco che si faceva da bambini quando si cantilenava in continuazione, a ripetizione e senza sosta, una sola parola. E alla fine si svuotava. Sassosassosassosassosassosassosassosassso. Basta così poco come la ripetizione (la sola ripetizione!) della parola, di una qualunque, per spossessarci del nostro "termine", che sentivamo così proprio da farci sentire a casa. Bastato solo ripetere il termine, doppiarlo e copiarlo. Iterare il termine. Poiché, il termine, vuole essere unico, e non ama affatto la sua ripetizione, che lo contraddice, ne contraddice la natura. Unico, unico, unico, unico, unico. La sola ripetizione basta a "scoperchiare" la nostra archi/tettura, la nostra casa? Che genere di debole proprietà era, allora, se dopo aver ripetuto venti volte la mia parola, essa mi appare di colpo estranea, non-più-la-stessa?

Questo, a dire il vero, apre l’enorme problema della replicabilità del proprio, che esso non sa cosa sia, non vuole e non sopporta affatto.

Apre il problema delle foto/copie e dei diritti d’autore. Di come basti così poco come la semplice replicazione affinché il proprio si senta spossessato di ciò che aveva e pensava più/proprio e sacro, il "suo". Si pensi alla clonazione e alla foto/copisteria come casi estremi di come una certa economia della proprietà si senta attorniata e turbata dai propri limiti, dai propri termini (le parole foto/copiate e spossessate, i copy/right) e senta come in/certo pure il proprio/proprio, il codice/genetico, il codice (la legge) della generazione, la gestione dell’eredità/ereditarietà: di come dal proprio si passi al successivo. Si pensi all’aria di famiglia che il clone sembra non avere affatto (e come mai, ci si dovrebbe domandare sorpresi, lo si guarda con sospetto, essendo in fondo la replica dello stesso, la sua copia, in qualche modo ‘la più fedele’...). Lo guardiamo invece proprio come un diplomatico, un uomo diploos, un doppio. Lo guardiamo diffidenti perché ne sentiamo la natura replicante, sdoppiante: che genere di ospite potrebbe risultare, il mio clone? Che genere di ospitalità genera la copiatura, la foto/copia di un testo?

Allora riprendo ancora. La parola ospitale. E la pietra. Il calcolo verso l’ospite. Pro/gettare (le fondamenta della) casa, dell’habitus (linguistico e di prassi, di usi) che saremo, attraverso la pro/grammaticalità e la pro/grammazione, il "codice", la programmazione di un testo.

C’è un "grammo" nella nostra grammatica. Il senso ed il seme, il segno ed il sugo delle cose. Quel seme che si pro/getta nella stagione della semina per raccogliere l’anno successivo. Il grammo. Sistemiamo e contiamo i grani, che non siano né troppi né pochi, e che i discorsi siano ben fatti, che il nostro pane sia solo quotidiano (niente lievito, perciò, nel nostro pane, dice la legge. Poiché il lievito è la metafora dell’Altrui assoluto, di Dio, l’unico che può lievitare, ingrandire, moltiplicare a dismisura e replicare "lo stesso" senza togliergli alcuna proprietà, senza spossessarlo. Il pane ed il discorso considerato sacro dev’essere quindi azzimo e frutto di grano/grammo pro/grammato sapientemente, sapido e saporito, ma senza sale né lievito: come ciò sia possibile...).

Devo dunque dire degli ipertesti, ma temo che tutto sia già chiaro. Forse, ho aspettato a dirlo retoricamente, perché nell’ipertesto l’ultima parola può essere la prima. E la pro/grammaticalità generata proprio dalla pro/grammazione più spinta (frutto del calcolatore, la macchina da guerra, il "calcolatore" essendo l’equivalente moderno sia della catapulta che getta sassi a ripetizione per sfondare la casa, che della scavatrice dalle mille leve, che la sa fondare in quattro e quattro otto, rispettando per l’appunto un calcolo). Tale pro/grammazione può forse fallire, anche se meglio sarebbe dire che trova il suo capo/volgimento (un ulteriore forma del doppio, del diplos, solo non orizzontale, sul piano, ma verticale, sotto/sopra, laddove lo specchio sia disposto in qualche modo sotto i nostri stessi piedi, sia la nostra strada, e non davanti a noi, o al nostro fianco).

Che ne è della pro/grammazione, e della sua inospitalità calcolante, guerresca e pietriforme, monolitica, una volta che essa si frammenti in ciottoli infinitamente ripetibili, nell’uguale ripetuto infinitamente della sabbia di una spiaggia, fino a farne il luogo desertico del miraggio? Giacché camminare sulla sabbia significa camminare su una forma intimidita di vetro che doppia.

Si dice che nessun popolo sia così ospitale come quello nomade. Il che rivela la natura ostacolante della casa, e del calcolo della pietra, che le è proprio.

Forse, nella tenda, c’è qualcosa che non è ancora macchiato dal calcolo, benché dica di sé: anch’io "tendo", anch’io voglio arrivare a capire, ma ancora non "pro/getto", non calcolo, non giaccio su fondamenta solide/solite, non vivo sull’abitudine e sulla concrezione. Mentre il calcolo tende alla de/terminazione, al giungere alla parola ed al risultato, forse la tenda sventola all’in/determinatezza del deserto. Intendo, ovviamente, il de/sertum, il senza-il-serto, cioè il non/serrato e il senza-intreccio, il non-chiuso, il non cinto da mura, il non incoronato, il non/padrone, colui che non si sente padrone neppure a casa propria, l’improprietà linguistica, il lapsus fors’anche, certo il passo/falso. Il lapis/lapsus fuori posto, una pietruzza fuori posto.

Come sia possibile il de/serto, la cinta senza cinta, l’intreccio senza la trama, un discorso senza una trama, il termine senza un intreccio, l’ospitalità nel senza/casa e l’apertura della parola mono/litica e nomo/litica ad una testualità frammentata e ab/norme, fatta di ciottoli, si misura, questa possibilità, dalla velocità con la quale ogni parola viene subito contestualizzata, messa/a/posto, nomo/logizzata e mono/liticizzata. Si pensi a quanto tempo impiega un bambino, per trasformare ciottoli divengono ciotole e come queste divengano metafore, immediate, di una casa e della sua residenza, in cui il fanciullo si installa come se fosse stato sempre padrone di quel luogo. Il proprio procede ad una velocità incalcolabile, sasso/su/sasso edificando, costruendo abitudini, "edificando" l’altrui attraverso il suo insegnamento: parlare dell’ in/calcolante da queste pagine sarebbe stato pretendere un po’ troppo.

Così da sempre, pare chiaro concludere, l’inizio del discorso aveva costruito la sua casa qui, e pare non ci si sia mossi di nulla, solo compiendo un’ispezione delle mura, per controllarne le proprietà/la proprietà.

 

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