E n r i c o P a
l a n d r i |
Roberto Carnero è l'autore di Lo spazio emozionale, prima guida all'universo letterario di Pier Vittorio Tondelli.Trax pubblica l'introduzione al volume, firmata da Enrico Palandri - compagno di scuola e di strada di Tondelli. Mentre Carnero disegna i confini della parola di Tondelli, Palandri illustra il contesto in cui si inserisce il suo lavoro, nello scontro tra la letteratura politica degli anni Settanta e quella metanarrativa del Gruppo 63. Roberto Carnero is the author of the first indepth book about Pier Vittorio Tondelli, one of the most interesting writers of the 80's. His work is now having a great influence on many younger Italian writers, but Enrico Palandri - author of the preface to Carnero's book - draws our attention to the struggles Tondelli had to lead when his first books were published. © Interlinea |
È presto per dare una sistemazione storica del lavoro di Pier Vittorio Tondelli, cercando di giudicare il valore letterario dei suoi libri o il significato della sua vera e propria campagna, per lo più vincente, per una trasformazione del pubblico oltre che per un rinnovamento della scena letteraria in Italia negli anni Ottanta. Il guaio dei contemporanei, e più ancora degli amici o dei parenti, è di avere molte informazioni che farebbero venire l'acquolina in bocca al filologo di una prossima generazione, ma di non saperle leggere. Se il giovane Gioberti poteva vedere in Leopardi la straordinaria luminosità delle sue qualità dopo un viaggio in carrozza, poco o nulla ne capirono i suoi genitori, poco, tutto sommato, anche i fratelli, pochissimo le donne che amò e poco, in generale, i contemporanei, fatta eccezione per Giordani che del resto, come gli altri, non seppe superare gli ostacoli della difficile dimestichezza con lui per leggere, come leggiamo noi oggi, attraverso la sua poesia, un mondo di straordinarie, profondissime intuizioni. Se queste difficoltà fossero dovute al carattere o al fatto che puzzava, secondo la celebre risposta della Fanny Targiani Tozzetti a Matilde Serao, o piuttosto alla miopia fin troppo pia dei sodali, a cominciare da Ranieri, è difficile dirlo. Deve farsi silenzio intorno al lavoro di uno scrittore che in un certo modo è il contrario del dolce rumore della vita, come lo chiama Sandro Penna in un celebre verso, perché le opere ci parlino con il timbro indistinguibile di una voce. Devono farsi obsolete le opinioni politiche, i manierismi delle cricche letterarie e sociali, deve morire il rumore del mondo perché riemerga il timbro con cui un autore ha affermato il proprio contrasto con l'epoca- Pier è stato importante per ragioni troppo diverse nella nostri generazione per riuscire ad ascoltare la sua voce senza distrazioni, anche quando non si pretende di dare un giudizio ma semplicemente di chiarire alcuni contenuti In parte questa bella guida di Roberto Carnero fa appunto questo, ripercorre le tappe; pur sentendomi incapace di dire cose utili, sapendo di essere io il contemporaneo che non capisce perché troppo condivide e quindi non può che accennare a ciò che ha intensamente avvertito intorno al suo lavoro e all'amicizia, non voglio neppure sottrarmi alla richiesta di Carnero e voglio dire quello che posso su di lui. Paolo Di Stefano, recensendo sul "Corriere della Sera", il numero di "Panta" che dedicammo a Pier dopo la morte, citò qualche mia frase accusandomi di non riuscire a vedere se le qualità che io attribuivo a Pier si facevano davvero letteratura. Ha probabilmente ragione, sebbene non capisco per quale motivo si senta lui più in grado di me di emettere sentenze su ciò che sia o non sia letteratura. Ma per quanto mi riguarda, è vero che io non posso farlo, per i miei innumerevoli limiti e, di fronte a Pier, anche per l'amicizia che, con la sua morte, è diventata ancora più complessa, impegnandomi in una memoria complessa. Sebbene io non abbia fatto quasi altro finora, nella mia vita, che scrivere e pensare ai libri, la letteratura non è mai stata la cosa più importante nella mia vita; sono state e sono infinitamente più ricche di influenze le persone che ho incontrato e tra queste ci sono certo, accanto agli amici e alle amiche con cui ho condiviso la conversazione e le stagioni, anche poeti, musicisti e scrittori che non ho conosciuto personalmente. Gli autori che ho amato sono per me sempre usciti dalla letteratura per far parte, con le loro preoccupazioni dell'orizzonte confuso e innamorato della mia vita di ogni giorno. La loro corrispondenza, o persino, negli anni più duri per me economicamente, una forma di solidarietà con la povertà di alcuni di loro che me li affraternava, ha accompagnato non solo la lettura, ma certi ritorni a casa notturni, solitari, dopo una notte amorosa (e poco conta se d'amore corrisposto o deluso), certi vagabondaggi per le strade d'una città, il nascere d'una amicizia o il compiersi di un addio. Non ho mai interpretato quel che facevo scrivendo e leggendo come la santificazione di una sensibilità superiore, che così spesso mi ricorda la giustificazione di un privilegio sociale, ma come il mio modo di stare nelle cose ed è lì, non nella letteratura, che ho incontrato Pier, e se qualcuno torce il naso perché cosi non si passa un esame critico, forse avrà pure ragione, ma l'odore che c'è qua fuori è così buono e intenso che io non ho nessuna intenzione di lasciarlo per ottenere diplomi. È nell'odore del mondo, tra le voci che si caricano di sensazioni, che ha le sue radici la scelta di Pier e in questo le sue scelte estetiche le sento fraterne. Ogni suo libro è un po' come una lettera, un lungo biglietto agli amici, scritto da un certo punto nella vita a chi lo segue e ascolta. Certo non a chi si sente seduto sullo scranno di un'anonima letteratura italiana e fa il vaglio di quel che va bene e quel che va male, come se potesse davvero prendersi sul serio uno scranno del genere. Messe le mani avanti, c'è da aggiungere che alle mie difficoltà personali se ne sommano altre meno soggettive: non solo troppo poco tempo è trascorso dalla mortedi Pier permettersi a fare dei bilanci, ma il fatto che sia morto così giovane fa sì che la sua influenza, il modo in cui aveva percepito l'evolversi di certe trame, sia ancora vitalissima, come dimostrano i tanti che scrivendo sentono di riconoscergli un ruolo. I due versanti della sua attività letteraria, quello della opere letterarie e quello dell'attività editoriale, sono ancora discorsi aperti e a me sembra che si possa solo indicare gli elementi che in questi ambiti sono in movimento. Mi sembra innanzi tutto utile ricostruire il quadro in cui apparvero i suoi libri, per spiegare tra quali spinte egli si inseriva, chi vi reagì e come, cosa ne fece il pubblico. C'è innanzi tutto una barriera generazionale molto netta: Tondelli ha avuto una grande importanza per i suoi coetanei e i più giovani di lui, ma non è stato quasi capito da chi era più vecchio. Io reagii forse anche scompostamente a una pagina di Alberto Arbasino su "Repubblica" quando Pier morì, forse perché sapevo quanta ammirazione e affetto aveva Pier per lui. Il tono un po' liquidatorio con cui Arbasino, che pure ne piangeva la morte, parlava del contesto in cui era cresciuto Pier, mi sembrò allora ingiusto. Così pure Goffredo Fofi e il gruppo di "Linea d'ombra", sempre un po' troppo compatto, mantenne per tutti gli anni Ottanta un tono piuttosto sufficiente nei suoi confronti. Per non parlare di Angelo Guglielmi o dei tanti altri che ostentarono una superiorità in nome di un'idea di letteratura che, a così pochi anni di distanza, è di una straordinaria eloquenza sulla propria miopia. Questa sufficienza, il senso di superiorità, lo ritrovo spesso quando, in dibattiti o in interste mi si invita a liquidare a mia volta il lavoro di Pier come fosse uno scrittore sopravvalutato di cui bisogna riprendere, anzi restringere, le misure. Eppure se c'è una sopravvalutazione non mi sembra proprio che sia reperibile nel mondo della critica o della letteratura ufficiale. Pier non ha mai vinto un premio e non mi sembra sia stato il darling di nessuna delle nostre scuole letterarie; non è insoma la critica, che non lo ha mai molto lodato, a dover restringere le misure. Lì piuttosto si dovrebbe allargare il discorso, e anche per questo il lavoro di Carnero è davvero utile. Diviene allora interessante soffermarsi un momento su un aspetto che in questa guida a Tondelli non c'è. Carnero testimonia bene infatti l'attenzione per il lavoro di Pier, ma è già un suo postero. Può essere utile invece ricordare l'attrito che la pubblicazione dei suoi libri provocava nell'Italia di allora, nominare alcune delle resistenze. La diversa valutazione di Tondelli rispetto a quella che ne diede la critica a lui contemporanea non è nelle vendite e neppure in una rivalutazione critica, ma piuttosto nella scia che si allarga dietro di lui, che comprende molti nuovi autori, che testimonia una trasformazione della società italiana che era avvenuta nel corso degli anni Settanta e che, nel momento di passaggio, tra il '79-82, mostrava molti dei suoi elementi. A questa centralità di Pier Vittorio per i più giovani non si può che dare il benvenuto, ma si rischia di non vedere la solitudine di Pier e degli altri, le ragioni della non integrazione di una generazione intera con l'Italia di quegli anni. Finiva, negli anni Settanta, una fase iperpoliticizzata, chiusa in una visione piuttosto asfissiante, tra ortodossie ed eterodossie marxiste, militanze cattoliche e organizzazioni fasciste; la società adulta era del tutto inadeguata ad accogliere e articolare le curiosità e gli interessi di chi come Pier aveva modelli letterari poco nazionali. Non è solo lo spirito di Autobahn a guardare al nord Europa, ma un po' l'aria che si respira in tutto il suo lavoro, così lontana sia da calligrafismi, sia da impegni subordinati alla politica, a evadere dalla nostra tradizione. Il benvenuto che lui dà alla moda e in generale alla stravaganza degli anni Ottanta è la ragione principale della disapprovazione di "Linea d'ombra". Credo che lo abbiano trovato un confusionario; a me pare che senza attraversare la confusione di Pier si rimane un po' al di qua di una frontiera, nelle ortodossie che poi inevitabilmente si trasformano, in un quadro ideologico frammentario come il nostro, in autoritarismi un po' velleitari e giudizi allegramente arbitrari. "Linea d'ombra" è nata con un progetto importante grazie a un 'intuizione significativa di Fofi: è vero che una linea d'ombra sia passata allora attraverso la letteratura abbandonando temporaneamente la politica, ma le difficoltà che hanno continuamente contrapposto il nucleo di origine ideologica della rivista agli autori con cui via via si è incontrata e poi scontrata (Piersanti e Van Straten, per fare qualche nome, ma ce ne sono altri), e l'aver cosi poco capito Pier Vittorio, seguano un po' il limite dell'esperienza della rivista piuttosto che quello di Tondelli. Le poesie e la letteratura non salvano nessuno, non vogliono essere votate né da una giuria né dal popolo per ottenere un mandato, non promettono nulla. Gli autori si mettono in ascolto della realtà in un suo punto sensibile, questo è tutto. Non possono organizzarsi e non possono venire organizzati. C'è probabilmente una componente di narcisismo e megalomania un po' in tutti (ma davvero solo negli artisti?), che però può aiutare a riflettere su altre cose, sull'amore e la morte e certo, anche sulla giustizia, ma non per promettere una trasformazione, solo per raccontare, come hanno sempre fatto gli scrittori, da Dante a Primo Levi. Persino l'ingiustizia sociale, per uno scrittore, finisce con l'essere elemento di un libro. Come cittadino chi scrive è sottoposto come tutti ai casi della storia e può aderirvi o meno, ma come scrittore, proprio come Pier, è interessato a trasformare il mondo che ha di fronte in tessuto del suo racconto; non può mettersi a suonare nessun piffero e se lo fa, prima o poi sceglierà (e può essere una scelta eticamente più alta) la politica, l'agire tra gli altri e il capitanare le loro scelte. Ma questo è diverso dall'ascoltare il mondo, che vuol dire ascoltare le invenzioni fantastiche di Boiardo, Ariosto, Calvino mentre naturalmente, come sempre, intorno a noi c'è anche la fame e la guerra. Questo non significa che la realtà venga estetizzata o che vi sia una rinuncia morale; la buona letteratura si tiene alla larga da entrambi questi pericoli, ma il suo rigore è diverso dall'organizzazione, dal volontariato, anzi diffida intimamente dell'agire, perché non ha nei cuore la salvezza dell'umanità, ma il capire gli uomini. Per "Linea d'ombra" ciò che davvero irritava di Pier, e di numerosi altri, era l'irriducibilità del suo innegabile impegno a un impegno politico, e in questo è il primo autore che ci ha portato oltre la contestazione. Senza banalizzare, in forza di una diversità generazionale. Il diasenso di Arbasino, e dietro di lui di Guglielmi e un po' di tutti quelli legati alla neoavanguardia, è più complesso. Pier aveva studiato al DAMS che in quegli anni era una roccaforte del Gruppo 63. vi insegnavano tra gli altri Eco, Celati, Barilli, Giuliani. Il suo primo e più importante rapporto editoriale fu con Tagliaferri. Il contributo più importante del Gruppo 63, soprattutto nella sua fase originaria, fu lo scontro, che non si è mai veramente concluso, con una certa idea della cultura. Le belle pagine di Eco in Apocalittici e integrati che descrivono la funzione quasi sacerdotale di certi letterati nell'accogliere o respingere gli autori in un'idea di cultura alta, spesso superficialmente pomposa e retorica, danno un'idea dei problemi che egli dovette affrontare con la sua generazione da giovane. Tra i protagonisti del Gruppo 63 c'era certo anche gente più vicina ai modelli di Pier: non erano ripiegati su una tradizione nazionale ma avevano visto l'Inghilterra, la Francia, la Germania e l'America, sapevano cosa era un'industria culturale e quanto un'idea della cultura alta, ancorata ai licei classici e condannata a nutrirsi di sensiblerie, avesse fatto il suo tempo. Al di là dei modi poco cortesi, a parer mio, con cui attaccarono personalmente autori significativi (ma la scortesia, anzi un tono astioso e meschino, è grave anche nei confronti di quelli meno significativi ed è rimasta una venatura purtroppo profonda, caratterizzante, anche negli anni successivi, per alcuni di loro), c'era una battaglia da fare che naturalmente sfociò per una parte del gruppo nel '68 e per altri seguì altre vie. Sicuramente le battaglie del Gruppo 63 contribuirono ai profondi cambiamenti della società italiana da cui venne fuori Pier Vittorio. Adesso bisogna chiedersi se gli strali retorici lanciati da giovani e da una rivista come "Il Verri" contro l'establishment, non cambino di segno quando vengono lanciati, a un'altra età e dai quotidiani e settimanali più venduti del paese, contro i più giovani. Se insomma, detronizzati i vecchi satrapi della cultura italiana, molti di loro non si siano ritrovati seduti, non so quanto involontariamente, sugli stessi scranni, solo più incattiviti e acidi. Cosa non si perdona a Pier da parte di quella generazione è abbastansa evidente: lo stile, le scelte ideologiche, tutto nei libri di Pier è straordinariamente indisciplinato e non offre nessun ossequioso omaggio ai protagonisti del gruppo. L'ammirazione per Arbasino ha in alcuni punti della sua produzione anche una influenza riconoscibile, ma in generale Pier è di un'altra razza. Inoltre è ingrato. Come me, che ho studiato negli stessi anni, nella stessa facoltà, si trova in un certo senso il pranzo pronto e non sa riconoscere chi l'ha cucinato. Gli interessa andare oltre, non continuare una scuola. La libertà nelle scelte letterarie, come nei comportamenti, sono figli da un lato della battaglia del Gruppo 63 e dall'altra dei movimenti degli anni Settanta. L'abisso, ad esempio, che c'è tra la sua omosessualità, tutto sommato serena, come mostra bene Carnero, comunque non più impugnata come elemento di scontro con la norma, e quella sofferta di un Comisso o quella politicamente aggressiva di un Pasolini, è figlia delle coraggiose battaglie civili del FUORI e più in generale delle aperture di quegli anni. Quando poi all'inizio degli anni ottanta, con la sconfitta della sinistra radicale, riapparvero abitudini nel mondo della cultura che nel decennio precedente o erano state sospese o avevano perso influenza, perché il luogo del dibattito culturale non era stato interno alle istituzioni ma tra le istituzioni e un mondo giovanile sempre più disgregato e ribelle, il ruolo di questi intellettuali mutò notevolmente. Se negli anni Settanta non si pubblicava nulla di giovane perché con quel mondo c'era una guerra (non solo quella delle Brigate Rosse, ma una guerra a tutto campo che nell'editoria significava o una strada militante, assai poco adatta alla letteratura, o scarsissime possibilità di pubblicare), negli anni Ottanta anche i grandi editori iniziarono ad accogliere nuovi autori; la generazione del Gruppo 63 riprese la sua battaglia, ma da una posizione sostanzialmente mutata. Una mancata maturazione in molti di loro esponeva, in modo irritante, quanto i concetti duttili, impugnati con fantasia in una stagione, si fossero ridotti a luoghi comuni svuotati. Le ricorrenti notazioni di Guglielmi sullo stile, ad esempio, non hanno mai smesso di parlare la lingua degli anni Sessanta e sono così distanti da ciò che conta per la generazione di Pier e per quelli che hanno scritto dopo di lui, da risultare del tutto irrilevanti. Che Susanisa Tamaro vada bene perché scrive con frasette brevi e un altro invece non vada bene perché usa frasi troppo lunghe ha qualcosa di ridicolo. Per gli uni e per gli altri è a ben altro che bisogna guardare e se di stile si vuole parlare non ci si può ridurre a formulette tanto banali. I progetti e le utopie che in un'epoca diversa avevano avuto una funzione, sono finiti nel feticismo linguistico, nel cercare di reperire nel nuovo le tracce di quel che si era, perdendo completamente di vista la complessità dei significati. Umberto Eco, che è l'unico ad avere avuto una comprensione significativa dei problemi della linguistica, non si è mai azzardato a farne l'uso balordo che invece ha caratterizzato altri nel Gruppo 63. Eri ormai un'altra età, l'invettiva aveva perso la sprovveduta freschezza di chi opera in un cambiamento e aveva invece inevitabilmente costruito una complessa genealogia; la prosa di molti ex membri del gruppo era diventata opaca, rancorosa, e soprattutto parlava a un'Italia del tutto diversa. Arbasino pubblicò feroci stroncature collettive, Guglielmi continuò i suoi poco invidiabili anni d'intolleranza, Giuliani stroncò per l’ennesima volta la Morante, insomma si scatenò una polemica continua e a 360 gradi che diede un doloroso segnale di quanto faticoso fosse stato anche per loro vivere le trasformazioni di quegli anni. Gadda, innalzato come un vessill (e quindi travisato, enfatizzando gli aspetti stilistici e comprendendo poco quelli psicologico-contenutistici), non veniva più letto; ancora oggi dalla schiere della ex neoavanguardia salta fuori ogni tanto qualcuno che si mette a fare strampalati confronti tra quello che loro vedevano annunciato in Gadda come futuro della letteratura e quello che oggi si scrive. La conduzione che forse si dovrebbe umilmente trarre è che l'influenza di Gadda è minore di quello che avevano immaginato. Ma era proprio la questione dello stile, così centrale a quella generazione, a essere estranea ai nuovi autori, almeno nei termini in cui era stata posta. Pier, con l'energia che lo ha sempre caratterizzato, avvertiva con urgenza la necessità di aprire la letteratura alla contaminazione con il cinema, la musica, la pittura, la moda. Una scrittura troppo sofisticata, dove se non era l'abolizione della punteggiatura era l'uso spregiudicato degli anacoluti, non avrebbe mai avuto alcuna speranza di essere parte dei consumi culturali di una nuova generazione. Pier voleva partecipare di un mondo che premeva da fuori della letteratura e inevitabilmente, difendendo la propria visione, il Gruppo 63 aveva finito con l'arroccarsi in una serie di parole d'ordine. Con Il nome della rosa, con cui Eco voltò pagina, divenne evidente che i talenti più significativi del gruppo originario (Vassalli, Celati) avevano fatto ormai molta strada per conto proprio, erano diventati come tutti persone che cambiano modo di vivere, vedere le cose, erano un'altra cosa. Con questi il confronto è rimasto aperto e in Pier Vittorio si trovano numerose tracce e stimoli che risalgono a Eco o Gianni Celati. Altri hanno invece continuato a ribadire un ripudio, ora articolato, ora generico, che al di là delle opere si rivolgeva in realtà alla generazione. Sul valore delle opere di Pier, come dicevo, è comunque presto per esprimere un giudizio. Quello che a me pare più interessante, in una produzione così eterogenea, è la libertà che lui ha sentito nel fare le proprie scelte, e la capacità di rinnovarsi che ha mostrato soprattutto in Camere separate. Ho scritto in un'altra occasione (Altra Italia, "Panta", 0, 1992) cosa trovo particolarmente significativo, soprattutto nel racconto Postoristoro che apre il suo primo libro e in Camere separate. Non voglio tuttavia sovrappormi, a questo proposito, all'attenta ricostruzione del percorso letterario di Pier Vittorio fatta da Carnero, che offre una prospettiva decisamente diversa dalle due a cui ho accennato io e che sono state per così dire quel che c'era a monte di Pier. Camero, che invece è a valle, sembra fortunatamente oltre le difficili battaglie che Pier ha dovuto sostenere, fuori dai gruppi come tutti noi, per esprimere il suo mondo poetico. |