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E d o a r d o N e s i
Infinite Jest, DFW e il tennis

 

Ma Trax quanto era figo che nel numero zero (1996) faceva parlare Nesi di David Foster Wallace?

© Trax

Mio fratello Federico decise di smettere di giocare a tennis (era seconda categoria a sedici anni, quindi promettentissimo) quando seppe che Aaron Krickstein, di lui più giovane di un anno, era arrivato in semifinale agli Open degli Stati Uniti a Flushing Meadows. Non dette spiegazioni, allora. Si chiuse per qualche anno in un impenetrabile mutismo tennistico, e solo passati i vent'anni (evidentemente una soglia oltre la quale non riteneva neanche lontanamente immaginabile un suo recupero ad alcunchè di competitivo) mi confessò di aver provato una gran vergogna, a quella notizia, di essersi sentito insopportabilmente distante dalla grandezza vera.
Ecco, fatte le debite proporzioni (certo io con i miei romanzi non sono all'altezza delle heisenberghiane traiettorie dei passanti-traccianti di rovescio bimane di mio fratello), sgrullata via così un bel pò di vera, coerente, rispettabile sofferenza, anch'io così - annichilito, pieno di vergogna - mi sono sentito dopo aver finito di leggere Infinite Jest di David Foster Wallace, questo straordinario, titanico Romanzo Americano ancora non-tradotto e forse mai-neanche-in-futuro-tradotto.
Certo potevo far finta di nulla, poichè probabilmente Infinite Jest non lo pubblicherà nessun editore italiano: costeranno troppo sia l'acquisto dei diritti del libro sia, sopratutto, la traduzione - che dovrà essere di un'attenzione sia monacale sia maniacale, e totalmente non-creativa. E poi l'autore è sconosciuto in Italia, uno stravagante mercato letterario di pochi, pochissimi lettori che viene di immaginare raffinati, e invece hanno quasi ignorato i romanzi di Thomas Pynchon e Don De Lillo, autori avvicinabili e avvicinati a Wallace. Avrei potuto star zitto, ma ho pensato che una battaglia così gloriosa e così persa in partenza come questa, chissà quando mi ricapita. Non sarò coraggioso come mio fratello, non smetterò di scrivere, ma batterò i piedi e piagnucolerò forte almeno una volta, questo ho deciso.
Allora, il mio primo incontro con David Foster Wallace (nato nel 1962 a New York, poi cresciuto nell'Illinois rurale), risale all'uscita di Panta "Americani", comprato per leggere un racconto di Mc Inerney e poi distrattamente leggiucchiato fino ad arrivare a Per sempre lassù (Forever Overhead), un racconto di DFW tradotto - guarda caso - da Edoardo Albinati, uno degli scrittori italiani che amo di più. Sin dalla prima pagina mi parve che Per sempre lassù, scritto nel 1992, fosse il Racconto Degli Anni 90, straordinariamente capace com'era di catturare - in diretta - una specie di "sfiorato" zeitgeist di quegli anni inafferrabili, e di farlo senza volere. Per parlar meglio, pensai che Wallace - con il suo tredicenne deciso a tentare il suo primo, necessario tuffo dall' alto trampolino di una piscina pubblica - avesse catturato il brancolare e il candido disinteresse, l' apatia e il furore inespresso e inesprimibile, la profonda, necessariamente nordamericana ragione dietro i Nirvana e gli Smashing Pumpkins. Finisce con un "ciao" subito prima del tuffo, quel racconto così naturale da apparire involontario, cresciuto da sè.
Poi di David Foster Wallace non seppi più nulla fino a questa estate, quando uscì in America Infinite Jest, un romanzo di quasi mille pagine, centocinquanta delle quali sono note al testo, scritto in un americano estremamente corretto ma anche capace di ricevere e subito incorporare informazioni provenienti da qualsiasi livello di altezza letteraria, virtuosisticamente capace di muoversi tra la prima e la terza persona, tra passato e presente, di rallentare fino a fermarsi e poi accelerare di colpo, di avvicinarsi al protagonista (ce ne sono tanti, tantissimi) fino a metterlo sotto la lente di un microscopio elettronico, per poi allontanarsi con la velocità di un'inquadratura cinematografica realizzata con un dolly rapidissimo, un "totale" che va, nel frattempo a scoprire il mondo.
Che è un mondo sversato, slabbrato, proiettato senza alcun dolore in un futuro prossimo in cui anche gli anni saranno sponsorizzati (anno del Depend Adult Undergarment), e gli Stati Uniti e il Canada si saranno fusi in una superentità dal nome di ONAN.
Infinite Jest è un romanzo che tratta anche di droga, di tennis - il luogo del romanzo è una scuola di tennis per giovani promesse fondata dall'ahimè morto James Incandenza, regista sperimentale (assolutamente strepitosa la lunghissima nota, saranno almeno dieci pagine scritte fitte, in cui sono analizzati e descritti, uno per uno, tutti i suoi cortometraggi) - di indipendenza del Quebec, di cinema. Infinite Jest è per l'appunto il titolo del film di Incandenza capace di far precipitare chiunque lo guardi in una specie di ipnotica beatitudine.
Ma ogni mio tentativo di descrizione non vale a rendere l'idea della straordinaria ricchezza di questo libro gigantesco, e sopratutto della qualità della scrittura di David Foster Wallace, che affronta con impeto e understatement il gigantesco compito di immaginare un futuro prossimo che non somigli a quello immaginato da nessun altro, e ci riesce ricorrendo non a un film, un disco, un quadro, un video o una scultura, ma - guarda un po' - a un romanzo.
Scarrocciando su e giù per la Rete scopro poi che Wallace ha scritto anche un romanzo giovanile The Broom of the System, una raccolta di racconti Girl with Curious Hair, un libro di saggi A supposedly fun thing I will never do again; che il "Times" di New York lo ha indicato come secondo libro dell'anno, Infinite Jest, dietro al nuovo romanzo di Salman Rushdie; che le presentazioni di Infinite Jest nelle più illustri librerie d' America (Wordsworth a Harvard Square, Rizzoli West Broadway a New York, City Lights a San Francisco) erano affollate di ragazzi/e entusiasti/e; che DFW stesso era, da giovane, una promessa del tennis americano. Ciao.

 

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