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  D e n n i s C o o p e r
AIDS: lettere dal fronte

 

Dennis Cooper scrive romanzi e racconti sordidi e spietati, nei quali ragazzini, brutti ceffi e punk si impegnano in rituali di umiliazione e violenza, impastati di carne e sogni, fantasie e sangue. In questo AIDS: Lettere dal fronte, invece, Dennis Cooper ritorna alla realtà: per un’intera giornata si mette sulle tracce dei ragazzi di strada di Los Angeles. Un paesaggio desolante, popolato da bambini cresciuti troppo in fretta e male. Qui non ci sono più sogni, ma solo morte. Il racconto è tratto da All Ears, un’antologia di reportage, saggi e interviste: un centinaio di pagine perfette per gli anni Novanta. Angeli custodi: River Phoenix e Kurt Cobain.

Dennis Cooper is the author of piercing and perilous novels, often powered by a death drive and a rather complicated list of perversions. In this AIDS: Words from the Front, Cooper leaves behind any taste for violence and writes a bold, in your face portrait of a HIV positive, twenty something lost kid. As desperate as a Nan Goldin photo. AIDS: Words from the Front belongs to a collection of essays, interviews and obituaries published by Dennis Cooper in 1999, with the title All Ears: a few hundred pages that compose a perfect picture of the Nineties, with Kurt Cobain and River Phoenix crying in the background.

© Dennis Cooper

(I nomi dei personaggi sono stati cambiati)

Me ne sto seduto a un tavolo dell’Onyx, un bar poco illuminato a East Hollywood, decorato con goffi quadri neoespressionisti e affollato da una manciata di trendoidi tutti curvi a leggere i loro libri. Jason, il cliente di un amico che lavora con ragazzi di strada sieropositivi, ha deciso di condividere un paio delle sue giornate con me, a patto che faccia un po’ di pubblicità alla sua band. Si chiamano i Rambo Dolls, ci torneremo dopo. Intanto, ecco Jason, che si infila nell’ingresso con la forza di un tornado. Non può che essere lui, basta un’occhiata: capelli biondi e spettinati, facciata ossuta, due occhi blu davvero giganteschi e tutto l’armamentario grunge regolare, jeans strappati, maglietta dei Sandy Duncan Eye, camicia di flanella fuori dai pantaloni, doc martins a pezzi. Jason sembra davvero una rockstar, anzi assomiglia proprio a Dave Pirner dei Soul Asylum. Ma non appena si avvicina al tavolo e posso squadrarlo da vicino, mi accorgo che il suo viso fa quasi paura, come se fosse troppo perfetto, costruito a tavolino. E fai davvero fatica a credere che un ragazzino così carino non abbia più una casa e viva per strada.
"Come ti sei ammalato?" gli chiedo.
"Be’, non lo so. O perché scambiavo le spade con gente che non conoscevo", mi risponde senza spostare lo sguardo dalle gambe. "O perché mi sono fatto scopare senza goldoni, o perché mi sono scopato qualche ragazza che sapevo che aveva l’AIDS, senza mai usare un gommino. Vedi, me lo sarei potuto beccare centinaia di volte il virus". Fa una pausa, e il suo sguardo si fa più disperato. "Credi che cambi qualcosa?" Mi fissa per un istante. "Cioè, voglio dire, credi che cambi qualcosa anche se potevo rimanerci chissà quante volte, no?".
Riesco a malapena a balbettare, che, insomma, ecco, dovrebbe stare più attento.
"Be’, certo, ovvio, no! Sì, cioè, dovevo starci attento prima… più attento, cioè". Si gira di scatto, all’improvviso, e grida qualcosa verso la porta dell’Onyx: "Vattene! Vai a fare qualcosa!".
Si voltano tutti. Fuori dal locale c’è una ragazza magra, smunta, coi capelli rossi, probabilmente sui venticinque, ventisei anni. Se ne sta lì sul marciapiede. "Va bene, va bene" urla, e scivola via, scomparendo oltre lo specchio della porta.
Deve essere la sua ragazza, più o meno.
Jason si gira di nuovo verso di me. "Sì. Katie. Sto da lei ultimamente. È okay, è solo che, cioè, vorrebbe che l’amassi ma le ho detto che non posso perché io tra poco muoio, ma lei vuole che la amo lo stesso e allora…" Piega un poco la schiena, come se volesse scomparire.
"È dura".
Annuisce con violenza. "E si fa pure di eroina capisci". Si allunga sulla sedia. "E cioè è un casino totale perché io sono pulito da quando ho scoperto sta cosa del virus. E quindi mi tocca guardarla mentre si fa le pere ed è un casino davvero. A me poi non mi è mai piaciuta l’eroina, quindi in un certo senso è più facile, cioè è meglio che se si facesse di crack o cose così che mi piacciono insomma. Ma comunque è tutto più difficile, capito?" Sembra sempre più nervoso, e continua a fissare una strana briciola che è praticamente fossilizzata sul tavolo, proprio al centro, a metà strada tra Jason e me.
"Sì, capisco" gli dico. Comunque, che mi dici del tuo gruppo?
"Oh, cazzo". Si irrigidisce, schizza indietro, scattando in piedi e fa un faccia come se gli avessero appena sparato. "Cioè, adesso mi tocca mantenere la promessa, vero? Se vuoi, puoi venirci a vedere quando proviamo, tra un po’. E poi decidi cosa fare con la band e tutto il resto…" Solleva le spalle.

Con tutte quelle organizzazioni come Covenant House, Angel’s Flight, Gay and Lesbian Center, che si danno da fare per risolvere la piaga dei ragazzi di strada, viene quasi spontaneo pensare che la situazione sia più o meno sotto controllo. O almeno era così che la pensavo io. Jason la vede un po’ diversamente. D’altra parte lui ha fatto tutto ciò che è umanamente possibile pur di evitare qualsiasi servizio di aiuto e assistenza sanitaria, anche se non riesce nemmeno a spiegare la sua avversione. Jason dice che non gli piace essere "controllato". A sentir lui, anche i programmi più laici, senza nessuna menata religiosa, impongono una serie di restrizioni alla sua libertà. Preferisce avere una serie di figure parentali più o meno mobili e intercambiabili. In passato si è affidato a uomini anziani che lo pagavano per un po’ di sesso e che si interessavano al suo benessere in modo abbastanza autentico da offrirgli un certo senso di calore, pur mantenendo un rapporto così corrotto da permettere a Jason di darsela a gambe ogni volta che gli faceva comodo, senza sensi di colpa. Oggi invece si affida agli amici più vicini, molti dei quali li incontrerò nel corso della giornata, più tardi: tutti più o meno affetti da una specie di sindrome del buon samaritano, persone che si dedicano al benessere di Jason, spesso sfiorando il limite dell’isterismo e della compulsione. E, be’, anch’io nel nostro breve incontro, mi ritrovo a provare qualcosa di simile a una relazione psicologica tipo padre e figlio.
Ce ne stiamo appoggiati a un'auto parcheggiata davanti all’Onyx. Mezzo isolato più in là Katie entra ed esce da un negozio di libri, fa avanti e indietro come uno yoyo, con il collo piegato. Di tanto in tanto ci lancia un’occhiata, mi pare. Jason parla di quello che gli passa per la testa, lo lascio fare. Più che altro ce l’ha a morte con la clientela dell’Onyx, e tutti quei discorsi sugli artisti scoreggioni e tronfi, l’oppio della nuova borghesia, ecco, no? Un classico predicozzo stile punk, penso io.
Jason è un rottame emotivo, ma è anche acuto, certo in uno stile un po’ da autodidatta. I suoi gusti politici e musicali, ad esempio, se li è fatti sfogliando Maximum RockNRoll, un giornale punk niente male, molto affettato, che Jason legge religiosamente da quando era un ragazzino. E adesso che ce ne stiamo al sole, mi accorgo che infilata nella cintura dei pantaloni Jason tiene una copia di un libro di Noam Chomsky, che deve avere appena rubato da qualche parte. Mi spiega che voleva leggere Chomsky da un bel po’, prima che iniziassero i suoi giorni sieropositivi e senza casa, cioè più o meno quattro mesi fa.
Allora Jason viveva con un gruppo di teenager, tutti più o meno anarchici, con i quali aveva occupato un edificio abbandonato a un paio di isolati da Hollywood Boulevard. Di questo periodo della sua vita Jason parla senza problemi, dandoti tutti i dettagli; ma qualsiasi cosa sia successa prima – vale a dire, tutta la sua infanzia e adolescenza – è praticamente un terreno minato, off limits. Ogni volta che gli scappa detto qualche dettaglio – che so, che è cresciuto nella San Fernando Valley, o che suo padre era un dottore – il suo corpo è come scosso da una strana esplosione di energia fisica. Prende a pugni l’aria, a calci il marciapiede. Se cerco di incastrarlo, Jason ammette solo che qualsiasi cosa sia accaduta, e comunque non sono affari miei, gli ha insegnato che alla gente non gliene frega un cazzo di niente degli altri, e non credere a quello che ti dicono.
Gli chiedo dei suoi amici.
"Ecco. Giusto appunto. Anche loro. Non è che me li tenga molto a lungo. La maggior parte dei miei amici non sono amici veri. È solo gente che gli piaccio sessualmente. Ma quando capiscono che sono una testa di cazzo e che mica mi faccio scopare così, se ne vanno".
Perché non ti fai scopare? In fondo Jason è una marchetta, quindi…
"Perché loro dovrebbero essere i miei amici" mi urla. Poi si guarda la punta dei doc martins, sorride e si schiarisce la voce. "Piaccio anche a te, vero?".
"No" gli dico. Ed è la verità.
Jason mi lancia un’occhiata. E gli si stampa in faccia un sorriso strano, tutto smancerie e flirt. "Sì, sicuro" mugugna.
Lo conosco quel sorriso. Il mio primo ragazzo era un marchettaro, come quasi tutti i suoi amici. E primi che iniziasse l’AIDS, anch’io bazzicavo i bar delle marchette, più che altro perché mi piaceva la tensione che c’era nell’aria. Ho già visto quel sorriso centinaia di volte, quando fanno i preziosi, e se Jason non è un vero esperto in materia, certo è un veterano. Se poi ci aggiungi la sua bellezza, be’, non ci metti tanto a capire che Jason deve fare affari d’oro in quel giro. Vero?, gli chiedo.
"Vero" ammette, ridendo alla grande. "Ma non è che ho deciso di passare gli ultimi giorni della mia vita nella casa di qualche vecchio porco miliardario". A quanto dice, ha avuto un bel po’ di occasioni di sistemarsi, per usare le sue parole, soprattutto con un "famoso manager discografico" del quale non mi vuole dire il nome, più che altro perché il tizio lo invita fuori ancora di tanto in tanto, e anche perché Jason dice di rispettare la privacy della gente. "E poi se avessi la testa sulle spalle, in fondo sarei ancora là, a vivere nella casa occupata, mica a dividere i miei giorni con una tossica": Un’altra occhiata, questa volta un po’ assassina, in direzione della ragazza. "Katie, cazzo, muovi quel culo. Andiamo".

Siamo in macchina, sto accompagnando Jason e Katie a casa di lei, a downtown, dove i Rambo Dolls dovrebbero provare. Ho chiesto a Jason di guidarci in un tour lungo l’Hollywood Boulevard, per farmi vedere un po’ dei posti che bazzicava quando viveva ancora nella casa occupata. Dalle parti del Teatro Cinese, che Jason definisce il "posto migliore al mondo per fare moneta", incontriamo un vecchio amico di J, uno dei suoi compagni di occupazione, poi diventato il cantante dei Rambo Dolls.
Bouncer è un ragazzo poco più che adolescente, alto, magro, con un viso dolce e una lunga e morbida cresta di capelli biondi. Se ne sta lì a chiedere moneta e Jason mi ordina di accostare.
"Ehi, sacco di merda!" gli urla, infilando la testa e un braccio oltre il finestrino. Scivola fuori così e atterra sul marciapiede. Bouncer lo aiuta ad alzarsi, e si danno un mezzo abbraccio e intanto fanno finta di fare a botte, mentre i turisti cercano di schivarli.
Katie e io li fissiamo restando in macchina, scambiandoci sorrisi divertiti. Se Jason non racconta balle sulle storie di droga di Katie, be’ allora lei in questo momento sta parecchio male. Il viso è un maschera pallida e verdastra, con due pupille gigantesche. Si è avvolta le braccia scheletriche attorno al torace, come se volesse strangolarsi. "Jason è… proprio… un bugiardo" mi dice battendo i denti e senza spostare lo sguardo dai due ragazzi che continuano a picchiarsi.
"Perché bugiardo?"
"Tipo quando dice che non mi ama. Sono sicura che lo ha detto anche a te, vero? Ma io me ne frego delle sue stronzate. E sono la prima a farlo, nessuna ha mai avuto il coraggio: lui è molto più malato di quanto dice. All’inizio non te ne accorgi, ma è magrissimo, proprio sotto peso, e ormai ha sempre la diarrea. Ecco perché non fa più tante marchette. E allora…"
All’improvviso Jason spalanca la portiera, salta in macchina spingendo Katie contro di me, che mi stringo nell’abitacolo. Sale anche Bouncer, che sbatte la portiera e si siede dietro.
"Come butta?" mi chiede il nuovo arrivato.
"Due cose. Uno: possiamo dare un passaggio a Bouncer, giusto?" Il viso di Jason è a un paio di centimetri dal mio. Il fiato gli puzza di AZT. È un odore acido, chimico, che sembra fuori posto con il corpo di questo ragazzino. "Due: Bouncer vuole sapere se dopo che hai lasciato Katie e me a casa, be’, se te lo vuoi scopare, lui ti fa un prezzo speciale, davvero quattro soldi. E poi tu e lui ci raggiungete da Katie, quando avete fatto, così vedi le prove. Cioè, gli ho detto che tu sei…" Sguardo confuso. "che sei gay, giusto? È così che vi si deve chiamare adesso, giusto? Anche Bouncer è gay, ed è carino, al verde, capito?".

Lasciamo Katie e Jason a casa, e offro un pranzo a Bouncer, che mi racconta la sua storia, censurandola pari pari, come Jason. Al momento vive più che altro facendo moneta: fuma un sacco d’erba, ogni tanto fa qualche marchetta sul Santa Monica Boulevard, anche se le marchette lo deprimono parecchio perché è gay e forse si aspetta un po’ troppo affetto dai tizi che se lo fanno, o qualcosa del genere comunque. Al contrario di Jason, a Bouncer non dispiace avere a che fare con le organizzazioni di volontariato e quando gli serve, se ne scappa e si fa aiutare per un po’. In fondo, dice, un po’ di prediche e qualche ora di terapia di gruppo del cazzo valgono un letto caldo. Di solito però vive nella casa occupata di Hollywood, quella dove stava anche Jason. Finiamo il pranzo e gli chiedo di portarmici.
Entriamo in una vecchia villa vittoriana che deve avere vissuto almeno altre sette vite da quando è stata trasformata in un condomino con chissà quanti appartamenti. L’eleganza vittoriana è stata spazzata via, distrutta, insozzata a tal punto da trasformare l’intero edificio in una misteriosa grotta barocca. Non c’è quasi nessun al momento: i ragazzi devono essere tutti fuori, a battere i boulevard, a fare moneta per raccattare un pranzo da Mc Donald’s e comprare un po’ di droga. In casa c’è solo una coppia etero, probabilmente sui quattordici anni. I due giocano a carte in quello che doveva essere la sala da pranzo della villa, ora ridotta a uno stanzone vuoto, sporco e spoglio. I due hanno visi angelici, tagli di capelli punk un po’ fuori moda e indossano chissà quanti strati di abiti da due soldi. L’odore del loro corpo mi accompagna fino al secondo piano, dove Bouncer mi mostra la sua camera da letto, una vecchia cabina armadio nella quale ha gettato un materasso, un paio di coperte aggrovigliate e un cumulo di abiti. Bouncer si lascia cadere sul letto, per qualche secondo si fissa il pacco e poi solleva lo sguardo verso di me; e mi sorride. Uno di quei sorrisi.
"Chi decide chi può vivere qui?" gli chiedo.
"Chi vuole. Devi solo essere onesto, e non essere troppo fuori. E non devi cazzeggiare con la roba degli altri".
"E allora Jason quale regola ha infranto?"
"Tutte. Io ho lottato per lui, per farlo restare. E avevamo quasi deciso di perdonarlo, perché è così bello lui".

"Cioè, io è così che la penso" mi dice Jason. Ce ne stiamo sul pianerottolo, fuori dall’appartamento di Katie, mentre lei si fa una pera in casa. Bouncer è andato in un negozio a fregare un paio di birre. "Cioè io non è che ci penso all’AIDS. Voglio dire, ad avere l’HIV. Mi dimentico sempre che non è ancora AIDS, in teoria. Ma poi se ci penso, le cose vanno così: cioè succede quasi sempre dopo che faccio sesso con qualcuno, non tanto con Katie, ma con qualche tizio che mi paga e penso ‘Ho solo l’HIV, va bene, andrà tutto bene’. Il dottore dice che mi restano magari ancora dieci anni da vivere da quando sono stato infettato, dieci anni prima che muoio se faccio le cose bene, se mi curo. Ma poi penso, ‘Be’, cazzo, magari me lo sono preso sette anni fa, visto che mi lascio scopare da quando avevo dodici anni, anche se magari sembra strano, ma è così. E poi ti viene da pensare a tutte le droghe che ti sei fatto, a come devono averti ridotto il sistema immunitario. E allora ti viene davvero paura, e pensi: affanculo, adesso mi ammazzo prima di ammalarmi davvero’. Perché è davvero troppo, capito? E ti trovi a pensare cose tipo ‘Odio tutti. È stato qualcuno ad attaccarmela questa roba. Non ti puoi fidare di nessuno’. E ti viene così tanta rabbia che vorresti ammazzare qualcuno, e i miei amici si beccano tutte queste menate, perché mi incazzo e faccio casino e loro sono sempre lì, per me, accanto a me. E allora ti senti in colpa per come li tratti, gli chiedo scusa e loro poi capiscono. Ed è un sollievo e magari torni a sentirti a posto e ti dimentichi dell’AIDS per un po’. È così che vanno le cose, la testa fa tutto un giro strano per non farti pensare più all’AIDS, cioè all’HIV. Secondo te lo fa cioè è un cosa cosciente?".
Jason ti fa sempre queste domande impossibili. Grazie a dio il suo livello di attenzione è ridotto a uno straccio, e non si preoccupa mai delle risposte. Si gira di scatto e si mette a picchiare sulla porta di Katie. "Svegliati, cazzo di puntaspilli".
Qualche minuto dopo arrivano gli altri Rambo Dolls. Brian è un ragazzo afroamericano, sui vent’anni, alto e gentile. Sei mesi fa un amico ha regalato a Brian una mezz’ora con Jason, per il suo compleanno, e sono diventati amici. Brian è il bassista ed è l’unico in tutto il gruppo che ha una vaga idea di cosa voglia dire suonare. Bart, il chitarrista, è un sedicenne hippie: ha appena chiuso con le droghe e a quanto pare è un specie di cristiano rinato. Non parla molto. Si è portato dietro un piccolo amplificatore scassato al quale si collegano sia la chitarra sia il basso. Jason suona la batteria, ma non si può permettere di comprarne una e allora si siede sul letto di Katie, con le gambe incrociate e un grosso libro d’arte sul quale pesta con due matite.
Per un’ora e mezza Jason colpisce il libro con tanta violenza da farsi sentire nel frastuono generale. Da quanto si riesce a capire in questo casino di suoni indistinti, il sound dei Rambo Dolls è una specie di hard core in versione parrocchiale. Più o meno come se gli Shaggs fossero cresciuti ascoltando i Melvins. Bouncer, che rimbalza e poga da solo al centro della stanza con uno strana smorfia da scimmia, canta e urla versi un po’ poetici e tronfi con le solite menate di politica punk, contro il razzismo, la droga, la misoginia ecc. E a dire la verità, di fronte a questa versione patetica dei Little Rascal, ci si sente davvero tristi. Grazie a dio, i ragazzi non mi prestano molta attenzione. Solo quando Bart e Brian se ne sono andati, e Bouncer si è addormentato in un angolo, Jason trova il coraggio per chiedermi nervosamente cosa ne penso. Ma a quel punto ho avuto tutto il tempo per prepararmi e dirgli un piccola bugia, incoraggiandoli un po’. "Niente male, davvero figo anzi".
"Grazie" dice Jason. Mi sembra felice. Katie è sdraiata sulle sue gambe, e annuisce o forse dorme. "Sì, penso che tra un anno saremo famosi. È lì che voglio arrivare".
"Quanto famosi?"
"Famosi come, cioè bravi quanto i Sandy Duncan’s Eye."
"Ma non sono davvero famosi" gli dico. Comincio a capire cosa volesse dire Katie: sotto la luce tagliente che arriva dalla finestra, il corpo di Jason è come se fosse sgonfiato, la pelle del suo viso è troppo tesa, come se l’avessero tirata sulle ossa degli zigomi.
"Famosi abbastanza" risponde.
"Perché non essere famosi come gli U2?"
Jason mi sorride. "Perché fanno schifo".
"Va bene, ma perché non essere in un grande gruppo che riesce a essere davvero famoso?"
Mi fissa disgustato. "È impossibile, amico".
"Okay. Altri obiettivi? Cosa altro vuoi fare?"
"Non voglio morire. Almeno per un po’." Lancia un’occhiata verso Katie. E mi sorride complice. "E avere una ragazza vera" sussurra controllando se lei è sveglia. No, dorme. "E diventare ricco, non so come, ma diventare ricco." Abbassa di nuovo il capo. "Non vedere mai i miei genitori, mai più. E, certo, diventare un grande batterista."
"Grande quanto?"
"Adam Pfahler."
"Che suona con…"
"I Jawbreaker. Cazzo, sono grandissimi. Okay, ecco, voglio che il mio gruppo diventa famoso come i Jawbreaker. Bravi come loro."
"I Jawbreaker sono più famosi dei Sandy Duncan’s Eye?"
"Be’, i Jawbreaker li conoscono tutti perché sono davvero forti. Sandy Duncan’s Eye vanno più che altro perché hanno un nome strano. Quindi sarebbe meglio essere come i Jawbreaker." E fa una smorfia che lo fa sembrare un bambino di sette anni. La smorfia si trasforma in un ghigno, e Jason comincia a prendere a pugni l’aria. "Tanto muoio tra poco, quindi chi se ne frega, no?" Il suo sguardo si fissa nel vuoto per un secondo. All’improvviso spinge Katie che cade a terra, rotola su se stessa fino a raggiungere Bouncer. Si gira lentamente sul fianco e fissa Jason con uno sguardo preoccupato ma come annebbiato, confuso.
"Merda" biascica. "Stai piangendo, Jason?"
E, be’, cazzo, sì, sta piangendo.

Fast-forward. Questa giornata con Jason sarebbe dovuta essere la prima di una lunga serie, ma passa qualche giorno e di lui non c’è più traccia, scomparso. Ho chiamato Katie per chiederle di organizzare un incontro e lei ha cominciato a urlare, a dirmi che non sapeva dove fosse Jason e che non gliene fregava niente. Il mio amico, il terapista che mi aveva messo in contatto con lui, non vede Jason da mesi. Non ci pensa nemmeno tanto: ha almeno una dozzina di ragazzi da seguire. Ho dovuto guidare un bel po’ su Hollywood Boulevard, avanti e indietro, prima di incontrare Bouncer, sempre lì a far moneta. Dice che nemmeno lui ha visto più Jason, ed è preoccupato: cioè non che il suo amico si sia messo nei guai, ma che forse sia tornato dai suoi genitori invece di starsene lì con la sua vera famiglia, i suoi amici. Il terremoto di Los Angeles era passato da qualche giorno: la casa occupata è stata danneggiata e i ragazzi, Bouncer compreso, se ne sono andati, sparpagliandosi chissà dove.
Ancora oggi mi capita di uscire e guidare su e giù lungo il Santa Monica Boulevard, dove bazzicano i marchettari, alla ricerca di Jason. Non che sappia cosa dirgli. Fatti aiutare, curati, bla bla bla. Circa sei mesi fa ho incontrato Brian, il bassista dei Rambo Dolls, in una discoteca. Sì, mi ha detto, nessuna notizia di Jason. Ha sollevato le spalle, così come se niente fosse, ma il suo sguardo tradiva un dolore profondo: sembrava distrutto. Forse, ha continuato, l’ha rimorchiato qualche donna bellissima e l’ha portato a casa. Sì, forse. Questo è un mondo in cui la gente va e viene, e non sai mai perché e per come. Non ti resta che la tua immaginazione. Ami gli amici e gli amanti, li ami anche intensamente, ma devi essere sempre pronto a tagliarti fuori, a cancellare le emozioni. Sì, forse Jason ha avuto fortuna, ce l’ha fatta a uscirne alla grande. Chissà. Ma è davvero un errore illudersi e sperare che Jason sia tornato dai suoi genitori? Sarà sbagliato, ma spero che sia andata così. Per quanto distruttivo possa essere quell’ambiente, almeno sarebbe uno scenario reale. Se fosse tornato a casa, Jason sarebbe davvero da qualche parte, non saerbbe perso nel nulla. Ma poi per me è troppo facile: io non lo conosco, non so niente di lui.

Flash back. Subito dopo le prove dei Rambo Dolls. Sto accompagnando Jason e Bouncer al posto delle marchette, dove vogliono passare la notte per fare un po’ di soldi facili. Jason è un po’ fuori, urla, scazza, più che altro si lamenta e non sa se vuol dire a chi lo rimorchia che ha l’AIDS. Sto cercando di convincerlo che non dire niente sarebbe una cosa spietata. Bouncer annuisce e mugugna, più o meno è d’accordo con me. Più cerco di parlargli e più Jason si incazza, le sue idee si fanno più estreme: mi viene persino il dubbio che sia così incazzato solo perché cerca di farsi odiare per conquistare un po’ di simpatia e attenzione. Comunque in macchina c’è un vero casino. Si sta facendo buio, e i marciapiedi iniziano a riempirsi di ragazzi che passeggiano avanti e indietro, con aria svogliata, quasi tutti senza maglietta e lo sguardo puntato sui finestrini della macchine di passaggio. Ci fermiamo a un semaforo a ovest di LaBrea. Jason si allunga fino alla maniglia, apre la portiera, spinge fuori Bouncer e salta giù dalla macchina. Atterra quasi sui piedi di Bouncer e barcolla nel buio. Lo perdo di vista quasi subito. Bouncer si avvicina alla mia auto, chiude la portiera e appoggia i gomiti sul finestrino. Mi fissa con uno sguardo strano, come se volesse chiedermi scusa, ma è così pieno di paura e confuso che davvero non so cosa rispondere. Forse anch’io sembro spaventato. Non so che dire. Comunque sia, Bouncer si avvicina abbastanza da farmi sentire il suo alito impastato di AZT, proprio come quello di Jason.
"Staremo bene" mi dice prima di baciarmi sulla guancia. Scatta dietro, si volta e scompare chissà dove.

 

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