Per
gentile concessione della casa editrice Bompiani e degli eredi di
Cesare Zavattini pubblichiamo due rarità del grande sceneggiatore,
attualemente pubblicate nei volumi Il banale non esiste (a
cura di Roberta Mazzoni) e Polemica con il mio tempo (a cura
di Mino Argentieri).
Il soggetto di Diritto di non amare fu scritto su commissione
nel 1969 (altro titolo Divorzio sì), ed è la ricostruzione
di un fatto di cronaca accaduto a Roma in quello stesso anno: un uomo
aveva ucciso la moglie con un colpo di pistola. La stampa del tempo
non era stata molto prodiga di particolari. Si era limitata a riportare
la notizia, senza cercare di capire cosa avesse spinto il marito a
compiere un atto tanto estremo. Zavattini invece s'interroga. Dietro
ogni forma di violenza, ne è convinto, si nasconde spesso un altro
tipo di violenza, spesso più sfuggente, ma non per questo meno terribile.
Zavattini va a scavare proprio lì, in quella zona d'ombra che c'è
dietro uno dei tanti matrimoni non riusciti, fino a far riaffiorare
in un drammatico crescendo l'inferno di malintesi e umiliazioni che
possono portare una persona mite a diventare uno spietato assassino.
L'articolo I sogni migliori, importante e attualissima meditazione
sul cinema, apparve originariamente sul numero 92 della rivista "Cinema",
il 25 aprile 1940.
By
the courtesy of Bompiani and Cesare Zavattini's heirs, we publish
two rare works by the famous italian writer, printed in Il banale
non esiste (Roberta Mazzoni ed.) and Polemica con il mio
tempo (Mino Argentieri ed.). The script Diritto di non amare
was written on commission in 1969; I sogni migliori first
appeared in "Cinema", issue 92, 25th of april 1940.
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Il
diritto di non amare
Un uomo
ha ucciso con un colpo di rivoltella sua moglie, una sera di primavera,
a Roma, nel 1969.
Questo film è la deposizione dell'assassino fatta davanti ai giudici
della corte d'assise.
I giornali hanno liquidato questo uxoricidio senza molti commenti.
Non vi hanno trovato nulla di romanzesco, di straordinario. Un marito
e una moglie che dopo due o tre anni d'amore hanno consumato la loro
carica affettiva finendo con l'odiarsi. È veramente una storia comune.
Da qualcuno sono state spese le solite parole di pietà per i figli,
Carlo di quattro anni, Giulia di otto, di cui si occuperanno i parenti.
Antonio Terzi è stato processato per direttissima. Tutto era chiaro,
e Terzi non si era neppure difeso. Alla fine di un'ennesima lite,
in cui entrambi i coniugi si erano offesi mortalmente, aveva sparato.
Ora siamo nell'aula della corte d'assise, quando il presidente invita
l'imputato a parlare. Antonio non parla, è confuso, smarrito, stanco.
Il presidente insiste e Antonio finalmente rompe il silenzio, balbetta
qualche cosa, dice: "Condannatemi, condannatemi, non so più niente".
Il presidente insiste ancora. Gli si rivolge con una certa cordialità:
"Come ha conosciuto sua moglie?"
Quasi senza accorgersene, entra nei ricordi e a poco a poco ne viene
interamente coinvolto.
Noi lo seguiamo attentamente, registriamo ogni sua parola, ogni suo
gesto e anche le immagini che evoca. Dobbiamo essere pronti, rapidi,
cogliere i loro fulminei passaggi nell'aria.
Antonio, stimolato da una crescente ansia di verità, in un apparente
disordine si trasferisce da un sentimento all'altro, da un grido a
un silenzio, a un pianto, dal passato al presente, dal presente al
passato. È come se vedesse. Ormai vive con i suoi fantasmi. Sono lì,
su uno schermo. E trascina anche noi nelle sue visioni ie nelle sue
ragioni. Ogni tanto si incanta come se la immagine resuscitata avesse
una forza ipnotica. Poi riesce a disincagliarsi e a inoltrarsi di
nuovo nel labirinto della sua pena.
Aveva incontrato Maria una domenica del 1959. Per caso. In piazza
del Popolo. Rimase colpito dagli occhi e dalle gambe di Maria, dice,
la seguì a lungo, ne studiava il corpo come sotto una lente, avrebbe
potuto descriverla nuda. Quanto gli piaceva. La fermò e pochi mesi
dopo si sposarono.
Lui aveva circa trent'anni, era un emiliano trasferito nella capitale,
impiegato presso una buona ditta di macchine per ufficio. Lei era
romana, una maestra. Poi si dedicò solo ai figli.
I primi due anni sono stati felici. Otto anni dopo la stessa mano
che per migliaia di volte aveva accarezzato i capelli o il seno o
il volto di Maria premette il grilletto di una rivoltella e Maria
morì. Ora Maria giace in un loculo del Verano e lui invecchierà in
carcere. Ma perché ha ucciso? È questa la domanda che lo martella
e che si introduce spesso nelle sue rievocazioni. Come avviene che
l'amore a un tratto può scomparire e si tramuta in odio?
"Avevo ucciso molte volte mia moglie col pensiero negli ultimi anni.
E anche lei aveva ucciso me. Molti di noi uccidono qualcuno col pensiero
ogni giorno".
Il presidente lo invita a non divagare, a non indugiarsi in considerazioni
moralistiche: "Stia all'essenziale, per favore".
Che cos'è l'essenziale? In questo momento vorrebbe parlare della sua
infanzia, del suo paese. Non domanda che di essere ascoltato con pazienza,
di essere aiutato nel cercare di capire, di sapere come avviene che
si può uccidere una persona, la madre dei propri figli, una donna
che abbiamo adorato.
Descrive dei momenti del loro amore, ricostruisce con molta minuzia
quasi che ciò potesse farla resuscitare, impedire che accada quello
che è accaduto. La rivede vicino a sé, parlano, si baciano, si prendono,
ripete le meravigliose, folli notti dell'amplesso, le parole che si
dicevano. Non ha più nulla da nascondere. Non ha nemmeno il nostro
pudore essendo ormai al di là dei patti correnti. Egli si vede già
all'ergastolo. Forse desidera di raggiungerlo al più presto, di togliersi
di mezzo, di non essere più nessuno, ma in questo momento, poiché
lo hanno obbligato a rimettersi di fronte alla realtà, vuole conoscerla
fino in fondo. Non sa qual è la strada ma la cerca. Fu dopo la nascita
di Carlo che i loro rapporti cominciarono a raffreddarsi? O prima?
un giorni di pioggia che con la sua luce strana gli rivelò un'espressione
di sua moglie sgradita, inattesa? O quel fugace diverbio davanti al
video per la scelta del programma? Alzarono la voce ed ebbero il primo
sospetto di poter essere nemici. Diversi da come si erano creduti
anche nella pelle, in una intonazione della voce, nel rumore di un
passo. Parla, e sembra un rabdomante che esplora il terreno del passato
in attesa di poter dire: Ecco, qui c'è l'acqua, la verità, il momento
di demarcazione dell'amore e della sua fine. Ci siamo amati senza
conoscerci, disse. L'amore è così interamente contento di sé che non
ha bisogno di inchieste, di spiegazioni. Finché dura, c'è un infallibile
misterioso adattarsi dell'uno all'altra, una capacità quasi magica
di annullare ogni contrasto prima ancora che si annunci.
Antonio non è un uomo di intelligenza fuori dell'ordinario. Ma qui
al processo è come se fosse la vigilia della morte, quando la coscienza
si mette in moto e si capisce all'improvviso di più di fronte a qualche
cosa di assoluto che vorrebbe ma non sa neppure definire. Durante
il monologo è invaso da repentine ondate di tenerezza verso la vita,
un bene che non ha saputo usare, che ha tanti nomi di cose e di persone
fra cui emerge quello di Maria. Io non l'amavo più, dice. Ma non dovevo
odiarla. Avrei dovuto dirle come a un'amica: non ti amo più. E lei
avrebbe dovuto dire a me: non ti amo più. Perché neppure lei mi amava
più. Poi con uno scarto della memoria ritorna a immergersi nei giorni
della felicità. Vorrebbe fermarne uno e raffrontarlo con i giorni
della tristezza, quando già stava per esplodere l'odio accumulato
per anni. A Maria bastava vedere il pelo sul petto di lui, toccarlo,
accarezzare quello che le piaceva ancora di più che si infoltiva sul
polso intorno al cinturino d'oro dell'orologio. E Maria gli si metteva
sotto, sotto al suo corpo, con la mente, con tutto, disposta a stare
così tutta la vita, sotto di lui. Una volta glielo disse, in versi.
Lei aveva scritto da giovane dei versi, brutti, banali. Ma quando
si abbracciavano, lei aveva delle frasi inventate, delicate, che lo
turbavano fino alle lacrime ma che se lei, pregata da lui, cercava
dopo di fermare sulla carta perdevano ogni valore, diventavano perfino
ridicole. E lui, bastava che udisse il rumore delle scarpe di lei,
che si levava senza chinarsi, per rivederla sempre, anche se era lontano,
con le ginocchia scoperte mentre tirava su le gambe per stendersi
sul letto, e senza dirselo era come dicesse che in quelle ginocchia
trovava la certezza di una fedeltà e di una simpatia che non sarebbe
mai finita. Si piacevano senza tregua e l spirito si muoveva sempre
insieme ai sensi senza che sapessero distinguere quanto era del primo
o dei secondi. Era insomma l'amore che è esterno nell'attimo che si
manifesta.
Antonio si esprime con un linguaggio semplice, diretto di chi vede,
anche se la sua esposizione prosegue sempre più a salti di gomitolo.
Si sofferma su particolari che sembrano insignificanti per noi e che
invece per lui sono enormi e ce ne convince. Il rumore di lei che
orinava di notte. Il suo naso un po' lucido che era sempre pronta
a nascondere sotto un velo di cipria e poi non ci pensò più. La stessa
scena, lo stesso dettaglio ricorrono più volte nella sua mente, li
ripete al rallentatore, li riesamina da diversi punti di vista. Come
potesse disporre della mobile, veloce moviola, fa incursioni fulminee
all'indietro, ritorna in avanti, si arresta, rimonta diversamente
gli stessi elementi per cercare una rivelazione, alterna nella memoria
i sospiri più dolci suoi e di Maria con le offese più atroci, il giorno
delle nozze con la tremenda notte del delitto.
Eppure il pelo, la bocca, le ginocchia, erano, la sera del delitto,
ancora quelli, e molti sarebbero andati a letto devotamente con Maria
e non poche delle sue amiche si sarebbero volentieri accoppiate con
Antonio.
Quella spaventosa sera di maggio. Lontana e vicina. Pareva una sera
come le altre. In principio la loro voce era bassa per non svegliare
i figli che dormivano nella stanza accanto.
Antonio con la obiettiva precisione di una macchina fotografica e
di un magnetofono ci fa sgranare insieme a lui gli interminabili minuti
che preludono al colpo di rivoltella. Seduti l'uno di fronte all'altro,
fingevano di essere calmi, decisi ad affrontare finalmente la situazione
senza eccitarsi. Sono certi tutt'e due che non possono più vivere
sotto lo stesso tetto. Tuttavia provano a cercare un rimedio. È possibile?
Parlano del problema dei figli, del problema economico. Una volta
sarebbe bastato allungare una mano, toccarsi e sarebbero finiti sul
divano tra le lacrime e le risa. Invece oggi sono due nemici, che
qui si sforzano di nasconderlo. Parlano, e vengono fuori i loro pregiudizi
e quelli del prossimo, degli altri, dentro ai quali sono ingabbiati.
Lui diceva: "Tu non mi ami più". E lei diceva: "Tu non mi ami più".
Nessuno dei due riconosceva che l'accusa dell'altro era giusta. Non
hanno il coraggio di essere sinceri, sono due quotidiani ipocriti
senza sospettarlo. La società li sorveglia. A loro volta, anch'essi
si sorvegliano, nello stesso tempo carcerati e carcerieri.
Antonio interrompe il rapporto di quella tragica sera e si rifà a
prima, il cumulo dei giorni nei quali l'aria era diventata irrespirabile.
Si soffocava. Tutto si inaridiva. Le reciproche voci, che erano una
volta così belle, davano fastidio. Si preferiva il silenzio. Le voci
ci distraevano sempre da qualche sogno, da qualche evasione o da qualche
accusa. Mentre prima Antonio non riusciva neppure a pensare a Maria
morta, poiché gli pareva davvero immortale come una dea, ora era come
se vedesse la sua carne disfarsi. Una volta Maria gli disse sorridendo
che lo aveva visto salutare con effusioni persone che sapeva da lui
profondamente disistimate. C'era un'ombra d'ironia nel rilievo e Antonio
si accorse che lei cominciava a giudicarlo diversamente. Anche lui
giudicava lei. Lei era una cattolica e Antonio era ateo. Forse non
se lo erano mai neanche detto, come di cosa non importante, su cui
non era necessario riflettere. Improvvisamente diventò una cosa pesante
sulla bilancia coniugale. Una notte parlarono di Dio, della chiesa,
e invece di fare l'amore, dopo un diverbio, come al solito, si voltarono
le spalle.
Un'altra volta lei gli disse che a parole stava con quelli che volevano
mutare il mondo, ma nei fatti era diverso, cioè dipendente da tutti.
E poi, cosa aveva costruito nella sua vita? Antonio reagì sfogandosi
contro gli italiani. Ma per coinvolgere anche la moglie disse: "Voi
siete cinici, non credete in nulla, per questo siete tanto legati
alle forme. Chissà cosa pensi veramente tu durante la messa". E si
esaltò, vendicativamente mettendosi una tovaglia ddosso come una stola,
e si mise a girare per casa come se fosse in processione, tirandosi
dietro i figli, litaniando, ridicolizzando la fede. Lei reagì gridando
che pesnasse pure come voleva, ma i figli non doveva turbarli. Ricorderà
sempre lo sguardo cattivo che lei gli lanciò. Si è cattivi, disse,
nell'affermare delle cose buone.
Ricordava quando Maria, incinta di Giulia, con quanta dolcezza gli
aveva fatto sentire l'arrotondarsi della pancia. Lui era pazzo di
gioia, di orgoglio. Il fastidio, invece, che non avrebbe mai osato
riconoscere, per la second agravidanza. Per una di quelle coincidenze
di pensiero, frequenti tra marito e moglie, lei gli aveva chiesto
candidamente che cosa avrebbe provato se fosse rimasta, come capita,
col ventre tutto striato e il suo seno cadente. Lui rispose che era
una sciocca a farsi venire in testa questi interrogativi.
La nascita del bambino fece sorgere brevi illusioni. Si trovavano
qualche volta curvi insieme sopra la culla e pareva un'unione. Era
il contrario, il bambino assumeva il ruolo di un pretesto per concentrare
su se stesso l'affetto di cui Antonio e Maria disponevano sempre ma
non più disposti a spenderlo per il coniuge.
Ci furono altre illusioni, ancora più fuggitive; anniversari, avvenimenti
generali come i viaggi sulla luna col pericolo della guerra che li
attirava in uguali commenti, facendoli sembrare per un attimo solidali.
Diatribe sul governo, sui preti, sul Papa, sui rispettivi genitori.
La rete si smagliava sempre di più, non vi restava più nulla dentro
del passato. Era come se cambiassero la carta d'identità. E avevano
davanti migliaia e migliaia di gironi da trascorrere insieme, indissolubilmente.
Per un anno Antonio fece la corte a un'inquilina di fronte.
Non accadde nulla. Però erano armeggi, speranze, batticuori, e fare
qualche cosa da libero contro Maria.
Lui sorprese Maria, giù in strada, che si salutava con un amico tenendosi
troppo a lungo le mani in mano. Decise di assalire Maria, ma poi la
gelosia durò lo spazio di un mattino. per l'uno e per l'altra era
soltanto una manifestazione del più banale amor proprio.
Recitavano entrambi la solita commedia del marito e della moglie.
Fino a quando?
I figli, coi loro occhi aguzzi e le loro antenne, percepivano questa
doppia vita dei grandi, dei genitori, e la perplessità e la diffidenza
cominciavano vagamente a sorgere nei loro animi. Si può dire che la
menzogna trapela sui muri domestici come la muffa, il muschio, non
c'è più spazio pulito. Ogni tanto i figli odono dei gemiti che sembrano
d'amore: Antonio e Maria si accoppiano ingannandosi sempre di più.
Antonio descrive implacabilmente davanti ai giudici quando lui e Maria,
già perduti l'uno per l'altra, eccitati da qualche cosa, o per la
forza d'inerzia del sangue, si desideravano. Già il disprezzo, la
stanchezza, la ribellione li devastavano e tuttavia una mano si allungava
e i sensi avevano il sopravvento. Eccoli in silenzio che vanno a letto,
dopo essersi trovati una notte d'estate davanti al rubinetto dell'acqua
(era da molto tempo che non facevano l'amore), e hanno già capito
che quella volta faranno l'amore. Anche se col pensiero si erano uccisi
tante volte, quegli omicidi che credevano di essere la via alla libertà
invece ne sono la fine, dice Antonio.
Quando Antonio insiste su questa analisi, sul momento in cui due che
si odiavano, si abbracciavano, si baciavano, mormoravano frasi appassionate,
per poi ricadere nel buio, stanchi, sudati, disgustati, e più lontani
l'uno dall'altra di prima. Ci fa udire i sospiri, le invocazioni amatorie
sue e di Maria, e le interrompe per commentarle e raffrontarle a altre
situazioni contraddittorie della nostra vita, per poi riprendere la
cronaca, diciamo, dell'amplesso amoroso senza amore. Un gran disagio
è sulla faccia dei giudici, dei carabinieri, del pubblico. Sono immobili,
in apparenza impenetrabili, innocenti, membri di un mondo perfetto.
Crediamo che essi vorrebbero chiudere gli occhi, tapparsi le orecchie,
perché Antonio sempre di più riesce a rintracciare nella sua vicenda
i punti che sono comuni a tutti, che fanno di noi dei complici di
delitti come questo, degli assassini in pectore.
Quando il presidente interviene per richiamrlo ai fatti, e questa
volta con tono fermo, Antonio si ribella. Non riesce più a dominarsi.
Grida che hanno paura di ascoltarlo, ma lui parlerà quanto vuole,
ha il diritto, non domanda altro, poi sparirà per sempre.
Non osano più interromperlo e lui continua. Chiede se sanno veramente
cosa sia l'incubo di un giorno senza amore, la sua lunghezza, l'interminabilità
di dover vivere accanto a chi non si ama. I muri diventano alti, la
città è una prigione, il passaggio di un camion carico di poliziotti,
la sirena di un'ambulanza che fa fermare il traffico, sembrano fatti
provocati da noi. Anche nei sogni le bocche cercano spiragli per respirare.
Si cerca una via d'uscita e c'è una panca stretta su cui dobbiamo
stare noi e un'altra persona con la quale non c'è più nulla da dirsi.
Quando si trova la forza di alzarsi, e ci si avvicina a una piccola
porta che sembra la salvezza, appena l'hai aperta non riesci ad andare
oltre. Là fuori che ti aspettano, come dei giustizieri, ci sono i
parenti, i figli, gli amici, i capi, solenni e decorati, e anche il
Papa sul trono, i vescovi, e le automobili blindate, l'esercito. Da
una fessura si vede un altro versnte della vita: quelli che lottano.
Contro chi lottano? Voliono spazio, aria, libertà. Volgiono allargare
l'area stretta della città. L'aria viene a mancare, come in una blogia
tutti corrono qua e là con le bocche aperte in cerca di aria, più
aria. Giungono gli echi di altre lotte, da parti lontante del mondo.
Cortei attraversano le strade, giovani con dei cartelli che fiammeggiano
di no e contro. Io potevo essere come loro, dice
Antonio, ma invece per un povero uomo che camminava rasente ai muri
non c'era che la solitudine. Risuonano inni, canti, lui riesce a infilarsi
nel corteo che passa. Ma in fondo alla strada c'è il numero dodici
di via Gaspari, dove abita, l'ascendore che lo riporta nella gabbia,
dove lui tiene chiusa un'altra creatura e il tempo passa a inventare
torture. Rivede uno dei suoi tanti quotidiani ritorni con i bambini
che gli vengono incontro. Ci sono anche che lo aspettano la madre,
i genitori di lei, lei zie, gli zii, le nuore, i cognati. Ci sono
risate, abbracci, corse nelle stanze inseguendo i bambini e facendosi
inseguire da loro, chi si mette buffamente qualche cosa in testa per
far ridere i bambini o fa le smorfie o fa il cane. Io facevo il cane,
dice Antonio. E si mette giù a quattro zampe davanti ai giudici. Ormai
non si controlla più, è trascinato dal vento della verità e abbaia
perfino, come faceva nella sua casa per allietare i bambini e i parenti
e illudersi che la suo situazione fosse meno drammatica di quanto
non fosse, meno insopportabile. Il Papa in persona gli parla, cerca
di convincerlo. Ma coi soliti argomenti. E Antonio urla contro le
autorità, poi si riscuote dalle sue farneticazioni, riprende il racconto
di quella sera. Lei gli disse, nel mezzo di una proposta di lui di
fare una seprazione legale (ma lei era contro, non per amore ma solo
per preconcetto), gli disse a un tratto: "Sei una merda". Lui le vide
negli occhi come un lampo, quasi fosse illuminata e appagata da quel
feroce giudizio. Capì che era inappellabile. "Sentii un fragore di
crolli, la fine della mia vita." Ma non voleva accettare di essere
una merda, voleva che lei gli chiedesse perdono. Quasi piangendo,
lui l'avrebbe supplicata di inginocchiarsi davanti a lui, di cancellare
queste parole precise, scandite, che erano l'esplosione di giorni,
giorni e giorni taciturni. Perché lei taceva più di lui, si esprimeva
nei suoi doveri domestici con la presunzione di essere una donna esemplare.
"Domandami perdono", implorò lui. Lei non rispose, ostilmente. Allora
lui aprì il cassetto, c'era la rivoltella, e sparò. Sembra che lo
sparo sia adesso. Chiude gli occhi come per non vedere. Vede invece
lucidamente. La palla che esce dalla canna. Ora può fermarla col pensiero.
Può rallentare il tragitto. Ma il proiettile è inesorabile. Si avvicina,
si avvicina sempre più al petto della moglie. Ancora una volta Antonio,
disperato, lo arresta. Nell'arresto ne aprofitta per parlare, per
spiegare, per analizzare. Potremmo dire che il percorso di quella
pallottola potrebbe essere il percorso del film. No! grida Antonio.
Proprio quando la pallottola colpisce.
Antonio restò un attimo fermo come una pietra mentre la moglie cadeva
senza un gemito, poi ebbe un moto di fuga, passò davanti ai bambini
con gli occhi spalancati nell'altra stanza. A metà delle scale si
fermò e tornò indietro. I bambini erano seduti sul letto e lui dice
che vorrebbe dimenticare quegli che lo guardavano. Storditamente,
si avvicinò a loro per togliere un po' di quello spavento e non ricorda
bene cosa disse. Vorrebbe ricordarlo, prova, ma non ci riesce. Avrebbe
dato la vita per farli sorridere. Sente dei passi, erano già i vicini,
le guardie.
Ritorna sulla scena, la ripete minutamente, e la interrompe nell'istante
in cui il suo dito sta per premere il grilletto. Sperando di trovare
il modo che sia diversa, che quella parola crudele non esca dalle
labbra della moglie.
La parola è uscita e ora lui se la porterà appresso per sempre come
una croce.
Non poteva essere che così. Egli la meritava. Lui aveva detto a lei:
"Un giorno o l'altro ti caccio di qui a calci in culo". Ma lei rideva
con disprezzo, diceva che mai di lì si sarebbe mossa, la legge era
con lei. Lui insisteva che era una povera donna indegna di lui, piena
d'idee false, vile, e che puzzava perfino.
"Questo ho detto, signor presidente."
Resta un po' in silenzio e poi riprende, e come in trance dice che
in tutte le case può risuonare all'improvviso un colpo di rivoltella,
dice che viviamo sull'orlo di un precipizio, che abbiamo paura l'uno
dell'altro. Dice con semplicità, con umiltà, che lui crede di cominciare
a capire, che gli pare di avvicinarsi un po' alla verità e che questo
può essere utile a tutti. Ha fatto del male e crede che ora stia facendo
un po' di bene, ma non si può fare del bene senza essere sinceri fino
in fondo.
Vorrebbe che Maria resuscitasse, fosse seduta vicino a lui e parlassero
come avrebbero dovuto fare allora. Non della libertà di Antonio, ma
della libertà di tutt'e due, anzi di tutti.
Resta con lo sguardo fisso nel vuoto vedendo l'incontro con Maria,
il loro lungo, calmo dialogo, il dialogo che non è avvenuto e che
avrebbe dovuto avvenire sulla vita, sul matrimonio, sui figli, sulla
libertà di cui vorremmo trovare una definizione. Che dialogo sublime
sarebbe stato nella sua semplicità, nella sua sincerità. Umano. Non
si è mai troppo umani. Eccoli seduti di fronte che si dicono: "Io
non ti amo più, Maria". "Io non ti amo più, Antonio." "Io amo un'altra."
"Io amo un altro." Continuano a parlare con calma mentre la voce del
presidente, questa volta severa, interrompe il suo fantasticare: "Terzi,
venga all'essenziale".
(1969)
I
sogni migliori
Spesso
chiudo gli occhi per un minuto durante la rappresentazione e cerco
d'indovinare quanto succederà sia rispetto alla tecnica sia rispetto
ai fatti, un primo piano o un campo lungo, una donna seduta o un paesaggio:
poiché la sceneggiatura ha infinite strade per giungere al suo scopo,
come la misericordia divina, quindi ogni sorpresa è possibile anche
nelle sequenze elementari. Un film comune triviale e logico, seguito
con questi abbassamenti di palpebre, giustifica sempre la nostra presenza
e rivela la delicata capacità di ogni metro di pellicola, spiega che
l'uso del fotogramma non deve essere dissimile da quello della parola.
Resta inoltre il dubbio angelico che in quei momenti di cecità si
siano svolte azioni brillanti, si concede insomma del credito, come
capita con gli uomini dai lunghi silenzi, essendovi sempre poesia
nella parsimonia.
Non vorrei che i produttori, impadronitisi del mio pensiero, firmassero
una supplica per ottenere la costrizione del pubblico ad assistere
bendato alle "prime". Intendo soltanto dire con il mio esperimento
che la fantasia fermenta nei difetti: se l'ultimo cinema
dal trenta al quaranta, è di rado sorprendente, dipende dalla sua
crescente perfezione commerciale. Ahimé, arriveremo anche noi alla
organizzazione americana.
Siamo ancora in tempo a guardarcene? Temo di no. Tutto il mondo considera
il cinema industrialmente, con tanta naturalezza e convinzione che
noi artisti entriamo nel gioco e viviamo di compromessi e
ascoltiamo i discorsi del finanziere consentendo con lui in qualche
punto: soprattutto nel punto che egli è veramente l'arbitro della
situazione. "In fondo - si ammette - ha diritto di difendere il suo
bilancio."
Non cambieremo noi con due pagine, la potenza millenaria dei volgari
interessi che collaborano a distinguere il cinema dal libro creando
due estetiche e due morali. Ci basta l'illusione che un giorno si
dirà: "Sin
dall'inizio una ventina di individui avevano capito che la strada
non era quella di Hollywood, che lo spettacolo cominciato sui Boulevard
dai fratelli Lumière fu il principio del male." Si chiamavano Nichelodeon
i primi locali, la moneta di nichel, il prezzo, erano l'insegna del
meraviglioso avvenimento.
Urgeva invece impadronirsi del mezzo con un costo così esiguo
da metterlo alla portata di molti, degli individui, come la carta,
l'inchiostro, la plastilina, i colori: introdurre nelle case pellicole
e obiettivi come le macchine da cucire.
Non sarebbero nati i produttori, vertice di un sistema borghese, cinema
applicato, al pari di certa editoria, ormai difesi da una
linea di ferro; i luoghi comuni del lavoro distribuito a migliaia
di cittadini, la creazione di una grossa e nobile ragione. Ma a loro,
poi, di tutto questo, che ha la sua parte di virtù, non importa un
fico secco.
Dove ero rimasto? Con il preambolo volevo arrivare alla considerazione
che i ciechi, al cinematografo, non sono un caso pietoso: dicevo che
la fantasia viene fuori dalla povertà, tanto che il titolo del lavoro,
l'accompagnamento musicale, il respiro degli spettatori, alcune frasi,
sono sufficienti per determinare una trama originale, di volta in
volta diversa, la loro trama.
Per il "giallo" ad esempio, l'angoscia nascerà più che dal rumore
scoppiato in mezzo ad una pausa, da un grido, nascerà dal passaggio
del tempo, senza sfondi, uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette,
otto, nove... gremiti di cattiveria.
È ovvio che il cieco ha bisogno come noi di un limite, principio e
fine, per essere nello spettacolo e non nella elucubrazione solitaria.
Diventano spettacolo le cose ferme in una attenzione predisposta.
Infatti, mio zio, che era saggissimo, non diceva mai: "Guardate il
tramonto". Ci schierava davanti alla finestra - spesso invitava anche
gli amici - suonava un campanello, poi, tirate le tendine della finestra,
escalamava: "Ecco il tramonto". Quale splendida visione!
Seduti accanto a noi, a contatto dei nostri sussulti, del calore umano,
diventano i veri, i soli critici: essi sanno ciò che potrebbe
accadere. Riacquistata la vista per miracolo, si troverebbero
davanti scene molto al di sotto delle loro immaginazione. Io penso
che noi cineasti perpetriamo continuamente un tradimento verso di
loro: i registi pensino ai ciechi il riassunto di un'opera, avvertirebbero
subito il metodo, il mestiere, anche nei casi felici.
Vuol dire che essi non amano le cose semplici, dato che il pubblico
spesso piange o ride? Anzi, solo le cose semplici, poiché le vere
scoperte hanno radice nella grammatica. Il cinema mondiale poggia
per nove decimi sul romanzesco, sull'eccezionale: ma intorno alla
natura di questo romanzesco noi ci comprendiamo. I ciechi sono in
grado di attendere avventure ben più profonde di quelle care ai soggettisti
internazionali: essi soli permetterebbero e aiuterebbero la rivoluzione
vera e propria: il film dell'uomo che dorme, il film dell'uomo
che litiga, senza montaggio e oserei aggiungere senza soggetto.
Un episodio senza centro e casuale. Poter tornare all'uomo come all'essere,
"tutto spettacolo". Cetri metraggi ottenuti piazzando la macchina
in una strada, in una camera, vedere con pazienza insaziabile, educarci,
che grande conquista, alla contemplazione del nostro simile, nelle
sue azioni elementari. Vicino a noi c'è il cieco, lo aiutiamo di quando
in quando con le didascalie: Ora l'uomo si passa una mano sull
faccia, il dito medio si è fermato sull'occhio, muove la bocca a sinistra...
Il cinema dovrà scoprire le cose originarie e abbandonare il
balordo concetto di inverosimile e di eccezionale
che la letteratura sta buttando finalmente alle ortiche.
Con un cieco non arrossisci a proporre il seguente soggetto: "Dalle
ore diciassette, ordine divino, siamo tutti immortali". È inutile
discutere, i dubbi ecc. ecc. dopo le prime ore di sbigottimento, poi
di gioia folle, orge, danze, pianti, constatazione della verità: immortali.
Un signore si è buttato dal muraglione del Pincio, ha fatto tre o
quattro rimbalzi come una palla di gomma sul lastrico, e infine si
è alzato arzillo e con la giacca solo un pochino impolverata. La vita
continua, però, almeno in principio seguitando a svolgere le trame
imbastite prima delle ore diciassette. A poco a poco sorgono nuove
coscienze: avremo avuto cura d'impiantare una storia con sei o sette
personaggi e la risolveremo nel clima "dopo le diciassette". Un'amica
vi telefona: "Ti aspetto questa sera". Che cosa risponderete, immortali
miei? Non saprei neanch'io. Certo che sarebbe bello entrare in una
casa dove stanno litigando e avvertirli con la voce di un usciere:
"Dalle ore tot siete tutti immortali". Molto interessante sarebbe
il periodo del trapasso dal regime mortale a quello immortale: invece
è facile prvedere per dopo la statuaria configurazione dell'umanità,
l'edera crescerà sui nostri corpi e i piedi metteranno radici nella
terra.
I sogni sono dei ciechi e dei veggenti. Un film tutto sui sogni costituirebbe
un documentario importante anche per i posteri: o difficilmente sapranno
che cosa sognavano i cittadini di questo periodo bellicoso.
La supervisione - non intendo fare dei giochi di parole cretini -
l'affiderei a un cieco.
Ma niente flou, rallentamenti, niente surrealismo, come direbbero
i produttori, i nostri sogno sono nitidi e feroci, possiamo discuterli
stando su un'amaca dopo colazione. I nostri sogni sono la tavola pitagorica,
moltiplichiamo Antonio per Achille, addizioniamo il bicchiere con
la calamita, o la nipotina di Carlo, e otteniamo risultati chiari
e impacifici.
Restiamo rigorosamente nell'ordine delle cose conosciute: un albero
è un albero e non può esistere se non come albero. Ma nei sogni l'albero
parla, e dal nostro ventre escono chilometri di intestino con molta
naturalezza.
Siamo in grado addirittura di creare una città che sia dalle fondamenta
frutto di un sogno. Chiudete gli occhi, amici miei, ecco la città
con le piazze i campanili gli abitanti. In una vertina sono esposti
alcuni uomini, un passante malinconico entra, prende in affitto per
un'ora un giovanotto biondo, se lo porta ai giardini pubblici, gli
racconta le sue faccende private, lo riporta in ditta allo scadere
dell'ora.
Non vi dico le altre inaspettate apparizioni, tuttavia vi avverto
che il loro senso sarà nella terrana verità del loro svolgersi.
Niente di magico. Per detronizzare Frankestein e tentare il "nuovo"
abbiamo solo urgenza di riproporre alla nostra attenzione i motivi
pietrificati dai secoli.
Rinunceremo alla truca, al transparencier, agli
infiniti sotterfugi cari a Méliès. La meraviglia deve essere in
noi ad esprimersi senza meraviglia: i sogni migliori sono quelli
fuori nebbia, si vedono come le nervature delle foglie.
("Cinema",
n. 92, 25 aprile 1940)
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