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C e s a r e Z a v a t t i n i
Il banale non esiste

 

Per gentile concessione della casa editrice Bompiani e degli eredi di Cesare Zavattini pubblichiamo due rarità del grande sceneggiatore, attualemente pubblicate nei volumi Il banale non esiste (a cura di Roberta Mazzoni) e Polemica con il mio tempo (a cura di Mino Argentieri).
Il soggetto di Diritto di non amare fu scritto su commissione nel 1969 (altro titolo Divorzio sì), ed è la ricostruzione di un fatto di cronaca accaduto a Roma in quello stesso anno: un uomo aveva ucciso la moglie con un colpo di pistola. La stampa del tempo non era stata molto prodiga di particolari. Si era limitata a riportare la notizia, senza cercare di capire cosa avesse spinto il marito a compiere un atto tanto estremo. Zavattini invece s'interroga. Dietro ogni forma di violenza, ne è convinto, si nasconde spesso un altro tipo di violenza, spesso più sfuggente, ma non per questo meno terribile. Zavattini va a scavare proprio lì, in quella zona d'ombra che c'è dietro uno dei tanti matrimoni non riusciti, fino a far riaffiorare in un drammatico crescendo l'inferno di malintesi e umiliazioni che possono portare una persona mite a diventare uno spietato assassino.
L'articolo I sogni migliori, importante e attualissima meditazione sul cinema, apparve originariamente sul numero 92 della rivista "Cinema", il 25 aprile 1940.

By the courtesy of Bompiani and Cesare Zavattini's heirs, we publish two rare works by the famous italian writer, printed in Il banale non esiste (Roberta Mazzoni ed.) and Polemica con il mio tempo (Mino Argentieri ed.). The script Diritto di non amare was written on commission in 1969; I sogni migliori first appeared in "Cinema", issue 92, 25th of april 1940.

Il diritto di non amare

Un uomo ha ucciso con un colpo di rivoltella sua moglie, una sera di primavera, a Roma, nel 1969.
Questo film è la deposizione dell'assassino fatta davanti ai giudici della corte d'assise.
I giornali hanno liquidato questo uxoricidio senza molti commenti. Non vi hanno trovato nulla di romanzesco, di straordinario. Un marito e una moglie che dopo due o tre anni d'amore hanno consumato la loro carica affettiva finendo con l'odiarsi. È veramente una storia comune. Da qualcuno sono state spese le solite parole di pietà per i figli, Carlo di quattro anni, Giulia di otto, di cui si occuperanno i parenti.
Antonio Terzi è stato processato per direttissima. Tutto era chiaro, e Terzi non si era neppure difeso. Alla fine di un'ennesima lite, in cui entrambi i coniugi si erano offesi mortalmente, aveva sparato.
Ora siamo nell'aula della corte d'assise, quando il presidente invita l'imputato a parlare. Antonio non parla, è confuso, smarrito, stanco. Il presidente insiste e Antonio finalmente rompe il silenzio, balbetta qualche cosa, dice: "Condannatemi, condannatemi, non so più niente".
Il presidente insiste ancora. Gli si rivolge con una certa cordialità: "Come ha conosciuto sua moglie?"
Quasi senza accorgersene, entra nei ricordi e a poco a poco ne viene interamente coinvolto.
Noi lo seguiamo attentamente, registriamo ogni sua parola, ogni suo gesto e anche le immagini che evoca. Dobbiamo essere pronti, rapidi, cogliere i loro fulminei passaggi nell'aria.
Antonio, stimolato da una crescente ansia di verità, in un apparente disordine si trasferisce da un sentimento all'altro, da un grido a un silenzio, a un pianto, dal passato al presente, dal presente al passato. È come se vedesse. Ormai vive con i suoi fantasmi. Sono lì, su uno schermo. E trascina anche noi nelle sue visioni ie nelle sue ragioni. Ogni tanto si incanta come se la immagine resuscitata avesse una forza ipnotica. Poi riesce a disincagliarsi e a inoltrarsi di nuovo nel labirinto della sua pena.

Aveva incontrato Maria una domenica del 1959. Per caso. In piazza del Popolo. Rimase colpito dagli occhi e dalle gambe di Maria, dice, la seguì a lungo, ne studiava il corpo come sotto una lente, avrebbe potuto descriverla nuda. Quanto gli piaceva. La fermò e pochi mesi dopo si sposarono.

Lui aveva circa trent'anni, era un emiliano trasferito nella capitale, impiegato presso una buona ditta di macchine per ufficio. Lei era romana, una maestra. Poi si dedicò solo ai figli.

I primi due anni sono stati felici. Otto anni dopo la stessa mano che per migliaia di volte aveva accarezzato i capelli o il seno o il volto di Maria premette il grilletto di una rivoltella e Maria morì. Ora Maria giace in un loculo del Verano e lui invecchierà in carcere. Ma perché ha ucciso? È questa la domanda che lo martella e che si introduce spesso nelle sue rievocazioni. Come avviene che l'amore a un tratto può scomparire e si tramuta in odio?

"Avevo ucciso molte volte mia moglie col pensiero negli ultimi anni. E anche lei aveva ucciso me. Molti di noi uccidono qualcuno col pensiero ogni giorno".

Il presidente lo invita a non divagare, a non indugiarsi in considerazioni moralistiche: "Stia all'essenziale, per favore".

Che cos'è l'essenziale? In questo momento vorrebbe parlare della sua infanzia, del suo paese. Non domanda che di essere ascoltato con pazienza, di essere aiutato nel cercare di capire, di sapere come avviene che si può uccidere una persona, la madre dei propri figli, una donna che abbiamo adorato.

Descrive dei momenti del loro amore, ricostruisce con molta minuzia quasi che ciò potesse farla resuscitare, impedire che accada quello che è accaduto. La rivede vicino a sé, parlano, si baciano, si prendono, ripete le meravigliose, folli notti dell'amplesso, le parole che si dicevano. Non ha più nulla da nascondere. Non ha nemmeno il nostro pudore essendo ormai al di là dei patti correnti. Egli si vede già all'ergastolo. Forse desidera di raggiungerlo al più presto, di togliersi di mezzo, di non essere più nessuno, ma in questo momento, poiché lo hanno obbligato a rimettersi di fronte alla realtà, vuole conoscerla fino in fondo. Non sa qual è la strada ma la cerca. Fu dopo la nascita di Carlo che i loro rapporti cominciarono a raffreddarsi? O prima? un giorni di pioggia che con la sua luce strana gli rivelò un'espressione di sua moglie sgradita, inattesa? O quel fugace diverbio davanti al video per la scelta del programma? Alzarono la voce ed ebbero il primo sospetto di poter essere nemici. Diversi da come si erano creduti anche nella pelle, in una intonazione della voce, nel rumore di un passo. Parla, e sembra un rabdomante che esplora il terreno del passato in attesa di poter dire: Ecco, qui c'è l'acqua, la verità, il momento di demarcazione dell'amore e della sua fine. Ci siamo amati senza conoscerci, disse. L'amore è così interamente contento di sé che non ha bisogno di inchieste, di spiegazioni. Finché dura, c'è un infallibile misterioso adattarsi dell'uno all'altra, una capacità quasi magica di annullare ogni contrasto prima ancora che si annunci.

Antonio non è un uomo di intelligenza fuori dell'ordinario. Ma qui al processo è come se fosse la vigilia della morte, quando la coscienza si mette in moto e si capisce all'improvviso di più di fronte a qualche cosa di assoluto che vorrebbe ma non sa neppure definire. Durante il monologo è invaso da repentine ondate di tenerezza verso la vita, un bene che non ha saputo usare, che ha tanti nomi di cose e di persone fra cui emerge quello di Maria. Io non l'amavo più, dice. Ma non dovevo odiarla. Avrei dovuto dirle come a un'amica: non ti amo più. E lei avrebbe dovuto dire a me: non ti amo più. Perché neppure lei mi amava più. Poi con uno scarto della memoria ritorna a immergersi nei giorni della felicità. Vorrebbe fermarne uno e raffrontarlo con i giorni della tristezza, quando già stava per esplodere l'odio accumulato per anni. A Maria bastava vedere il pelo sul petto di lui, toccarlo, accarezzare quello che le piaceva ancora di più che si infoltiva sul polso intorno al cinturino d'oro dell'orologio. E Maria gli si metteva sotto, sotto al suo corpo, con la mente, con tutto, disposta a stare così tutta la vita, sotto di lui. Una volta glielo disse, in versi. Lei aveva scritto da giovane dei versi, brutti, banali. Ma quando si abbracciavano, lei aveva delle frasi inventate, delicate, che lo turbavano fino alle lacrime ma che se lei, pregata da lui, cercava dopo di fermare sulla carta perdevano ogni valore, diventavano perfino ridicole. E lui, bastava che udisse il rumore delle scarpe di lei, che si levava senza chinarsi, per rivederla sempre, anche se era lontano, con le ginocchia scoperte mentre tirava su le gambe per stendersi sul letto, e senza dirselo era come dicesse che in quelle ginocchia trovava la certezza di una fedeltà e di una simpatia che non sarebbe mai finita. Si piacevano senza tregua e l spirito si muoveva sempre insieme ai sensi senza che sapessero distinguere quanto era del primo o dei secondi. Era insomma l'amore che è esterno nell'attimo che si manifesta.

Antonio si esprime con un linguaggio semplice, diretto di chi vede, anche se la sua esposizione prosegue sempre più a salti di gomitolo. Si sofferma su particolari che sembrano insignificanti per noi e che invece per lui sono enormi e ce ne convince. Il rumore di lei che orinava di notte. Il suo naso un po' lucido che era sempre pronta a nascondere sotto un velo di cipria e poi non ci pensò più. La stessa scena, lo stesso dettaglio ricorrono più volte nella sua mente, li ripete al rallentatore, li riesamina da diversi punti di vista. Come potesse disporre della mobile, veloce moviola, fa incursioni fulminee all'indietro, ritorna in avanti, si arresta, rimonta diversamente gli stessi elementi per cercare una rivelazione, alterna nella memoria i sospiri più dolci suoi e di Maria con le offese più atroci, il giorno delle nozze con la tremenda notte del delitto.

Eppure il pelo, la bocca, le ginocchia, erano, la sera del delitto, ancora quelli, e molti sarebbero andati a letto devotamente con Maria e non poche delle sue amiche si sarebbero volentieri accoppiate con Antonio.

Quella spaventosa sera di maggio. Lontana e vicina. Pareva una sera come le altre. In principio la loro voce era bassa per non svegliare i figli che dormivano nella stanza accanto.

Antonio con la obiettiva precisione di una macchina fotografica e di un magnetofono ci fa sgranare insieme a lui gli interminabili minuti che preludono al colpo di rivoltella. Seduti l'uno di fronte all'altro, fingevano di essere calmi, decisi ad affrontare finalmente la situazione senza eccitarsi. Sono certi tutt'e due che non possono più vivere sotto lo stesso tetto. Tuttavia provano a cercare un rimedio. È possibile? Parlano del problema dei figli, del problema economico. Una volta sarebbe bastato allungare una mano, toccarsi e sarebbero finiti sul divano tra le lacrime e le risa. Invece oggi sono due nemici, che qui si sforzano di nasconderlo. Parlano, e vengono fuori i loro pregiudizi e quelli del prossimo, degli altri, dentro ai quali sono ingabbiati. Lui diceva: "Tu non mi ami più". E lei diceva: "Tu non mi ami più". Nessuno dei due riconosceva che l'accusa dell'altro era giusta. Non hanno il coraggio di essere sinceri, sono due quotidiani ipocriti senza sospettarlo. La società li sorveglia. A loro volta, anch'essi si sorvegliano, nello stesso tempo carcerati e carcerieri.

Antonio interrompe il rapporto di quella tragica sera e si rifà a prima, il cumulo dei giorni nei quali l'aria era diventata irrespirabile. Si soffocava. Tutto si inaridiva. Le reciproche voci, che erano una volta così belle, davano fastidio. Si preferiva il silenzio. Le voci ci distraevano sempre da qualche sogno, da qualche evasione o da qualche accusa. Mentre prima Antonio non riusciva neppure a pensare a Maria morta, poiché gli pareva davvero immortale come una dea, ora era come se vedesse la sua carne disfarsi. Una volta Maria gli disse sorridendo che lo aveva visto salutare con effusioni persone che sapeva da lui profondamente disistimate. C'era un'ombra d'ironia nel rilievo e Antonio si accorse che lei cominciava a giudicarlo diversamente. Anche lui giudicava lei. Lei era una cattolica e Antonio era ateo. Forse non se lo erano mai neanche detto, come di cosa non importante, su cui non era necessario riflettere. Improvvisamente diventò una cosa pesante sulla bilancia coniugale. Una notte parlarono di Dio, della chiesa, e invece di fare l'amore, dopo un diverbio, come al solito, si voltarono le spalle.

Un'altra volta lei gli disse che a parole stava con quelli che volevano mutare il mondo, ma nei fatti era diverso, cioè dipendente da tutti. E poi, cosa aveva costruito nella sua vita? Antonio reagì sfogandosi contro gli italiani. Ma per coinvolgere anche la moglie disse: "Voi siete cinici, non credete in nulla, per questo siete tanto legati alle forme. Chissà cosa pensi veramente tu durante la messa". E si esaltò, vendicativamente mettendosi una tovaglia ddosso come una stola, e si mise a girare per casa come se fosse in processione, tirandosi dietro i figli, litaniando, ridicolizzando la fede. Lei reagì gridando che pesnasse pure come voleva, ma i figli non doveva turbarli. Ricorderà sempre lo sguardo cattivo che lei gli lanciò. Si è cattivi, disse, nell'affermare delle cose buone.

Ricordava quando Maria, incinta di Giulia, con quanta dolcezza gli aveva fatto sentire l'arrotondarsi della pancia. Lui era pazzo di gioia, di orgoglio. Il fastidio, invece, che non avrebbe mai osato riconoscere, per la second agravidanza. Per una di quelle coincidenze di pensiero, frequenti tra marito e moglie, lei gli aveva chiesto candidamente che cosa avrebbe provato se fosse rimasta, come capita, col ventre tutto striato e il suo seno cadente. Lui rispose che era una sciocca a farsi venire in testa questi interrogativi.

La nascita del bambino fece sorgere brevi illusioni. Si trovavano qualche volta curvi insieme sopra la culla e pareva un'unione. Era il contrario, il bambino assumeva il ruolo di un pretesto per concentrare su se stesso l'affetto di cui Antonio e Maria disponevano sempre ma non più disposti a spenderlo per il coniuge.

Ci furono altre illusioni, ancora più fuggitive; anniversari, avvenimenti generali come i viaggi sulla luna col pericolo della guerra che li attirava in uguali commenti, facendoli sembrare per un attimo solidali. Diatribe sul governo, sui preti, sul Papa, sui rispettivi genitori.

La rete si smagliava sempre di più, non vi restava più nulla dentro del passato. Era come se cambiassero la carta d'identità. E avevano davanti migliaia e migliaia di gironi da trascorrere insieme, indissolubilmente.

Per un anno Antonio fece la corte a un'inquilina di fronte.

Non accadde nulla. Però erano armeggi, speranze, batticuori, e fare qualche cosa da libero contro Maria.

Lui sorprese Maria, giù in strada, che si salutava con un amico tenendosi troppo a lungo le mani in mano. Decise di assalire Maria, ma poi la gelosia durò lo spazio di un mattino. per l'uno e per l'altra era soltanto una manifestazione del più banale amor proprio.

Recitavano entrambi la solita commedia del marito e della moglie. Fino a quando?

I figli, coi loro occhi aguzzi e le loro antenne, percepivano questa doppia vita dei grandi, dei genitori, e la perplessità e la diffidenza cominciavano vagamente a sorgere nei loro animi. Si può dire che la menzogna trapela sui muri domestici come la muffa, il muschio, non c'è più spazio pulito. Ogni tanto i figli odono dei gemiti che sembrano d'amore: Antonio e Maria si accoppiano ingannandosi sempre di più.

Antonio descrive implacabilmente davanti ai giudici quando lui e Maria, già perduti l'uno per l'altra, eccitati da qualche cosa, o per la forza d'inerzia del sangue, si desideravano. Già il disprezzo, la stanchezza, la ribellione li devastavano e tuttavia una mano si allungava e i sensi avevano il sopravvento. Eccoli in silenzio che vanno a letto, dopo essersi trovati una notte d'estate davanti al rubinetto dell'acqua (era da molto tempo che non facevano l'amore), e hanno già capito che quella volta faranno l'amore. Anche se col pensiero si erano uccisi tante volte, quegli omicidi che credevano di essere la via alla libertà invece ne sono la fine, dice Antonio.

Quando Antonio insiste su questa analisi, sul momento in cui due che si odiavano, si abbracciavano, si baciavano, mormoravano frasi appassionate, per poi ricadere nel buio, stanchi, sudati, disgustati, e più lontani l'uno dall'altra di prima. Ci fa udire i sospiri, le invocazioni amatorie sue e di Maria, e le interrompe per commentarle e raffrontarle a altre situazioni contraddittorie della nostra vita, per poi riprendere la cronaca, diciamo, dell'amplesso amoroso senza amore. Un gran disagio è sulla faccia dei giudici, dei carabinieri, del pubblico. Sono immobili, in apparenza impenetrabili, innocenti, membri di un mondo perfetto. Crediamo che essi vorrebbero chiudere gli occhi, tapparsi le orecchie, perché Antonio sempre di più riesce a rintracciare nella sua vicenda i punti che sono comuni a tutti, che fanno di noi dei complici di delitti come questo, degli assassini in pectore.

Quando il presidente interviene per richiamrlo ai fatti, e questa volta con tono fermo, Antonio si ribella. Non riesce più a dominarsi. Grida che hanno paura di ascoltarlo, ma lui parlerà quanto vuole, ha il diritto, non domanda altro, poi sparirà per sempre.

Non osano più interromperlo e lui continua. Chiede se sanno veramente cosa sia l'incubo di un giorno senza amore, la sua lunghezza, l'interminabilità di dover vivere accanto a chi non si ama. I muri diventano alti, la città è una prigione, il passaggio di un camion carico di poliziotti, la sirena di un'ambulanza che fa fermare il traffico, sembrano fatti provocati da noi. Anche nei sogni le bocche cercano spiragli per respirare. Si cerca una via d'uscita e c'è una panca stretta su cui dobbiamo stare noi e un'altra persona con la quale non c'è più nulla da dirsi. Quando si trova la forza di alzarsi, e ci si avvicina a una piccola porta che sembra la salvezza, appena l'hai aperta non riesci ad andare oltre. Là fuori che ti aspettano, come dei giustizieri, ci sono i parenti, i figli, gli amici, i capi, solenni e decorati, e anche il Papa sul trono, i vescovi, e le automobili blindate, l'esercito. Da una fessura si vede un altro versnte della vita: quelli che lottano. Contro chi lottano? Voliono spazio, aria, libertà. Volgiono allargare l'area stretta della città. L'aria viene a mancare, come in una blogia tutti corrono qua e là con le bocche aperte in cerca di aria, più aria. Giungono gli echi di altre lotte, da parti lontante del mondo. Cortei attraversano le strade, giovani con dei cartelli che fiammeggiano di no e contro. Io potevo essere come loro, dice Antonio, ma invece per un povero uomo che camminava rasente ai muri non c'era che la solitudine. Risuonano inni, canti, lui riesce a infilarsi nel corteo che passa. Ma in fondo alla strada c'è il numero dodici di via Gaspari, dove abita, l'ascendore che lo riporta nella gabbia, dove lui tiene chiusa un'altra creatura e il tempo passa a inventare torture. Rivede uno dei suoi tanti quotidiani ritorni con i bambini che gli vengono incontro. Ci sono anche che lo aspettano la madre, i genitori di lei, lei zie, gli zii, le nuore, i cognati. Ci sono risate, abbracci, corse nelle stanze inseguendo i bambini e facendosi inseguire da loro, chi si mette buffamente qualche cosa in testa per far ridere i bambini o fa le smorfie o fa il cane. Io facevo il cane, dice Antonio. E si mette giù a quattro zampe davanti ai giudici. Ormai non si controlla più, è trascinato dal vento della verità e abbaia perfino, come faceva nella sua casa per allietare i bambini e i parenti e illudersi che la suo situazione fosse meno drammatica di quanto non fosse, meno insopportabile. Il Papa in persona gli parla, cerca di convincerlo. Ma coi soliti argomenti. E Antonio urla contro le autorità, poi si riscuote dalle sue farneticazioni, riprende il racconto di quella sera. Lei gli disse, nel mezzo di una proposta di lui di fare una seprazione legale (ma lei era contro, non per amore ma solo per preconcetto), gli disse a un tratto: "Sei una merda". Lui le vide negli occhi come un lampo, quasi fosse illuminata e appagata da quel feroce giudizio. Capì che era inappellabile. "Sentii un fragore di crolli, la fine della mia vita." Ma non voleva accettare di essere una merda, voleva che lei gli chiedesse perdono. Quasi piangendo, lui l'avrebbe supplicata di inginocchiarsi davanti a lui, di cancellare queste parole precise, scandite, che erano l'esplosione di giorni, giorni e giorni taciturni. Perché lei taceva più di lui, si esprimeva nei suoi doveri domestici con la presunzione di essere una donna esemplare. "Domandami perdono", implorò lui. Lei non rispose, ostilmente. Allora lui aprì il cassetto, c'era la rivoltella, e sparò. Sembra che lo sparo sia adesso. Chiude gli occhi come per non vedere. Vede invece lucidamente. La palla che esce dalla canna. Ora può fermarla col pensiero. Può rallentare il tragitto. Ma il proiettile è inesorabile. Si avvicina, si avvicina sempre più al petto della moglie. Ancora una volta Antonio, disperato, lo arresta. Nell'arresto ne aprofitta per parlare, per spiegare, per analizzare. Potremmo dire che il percorso di quella pallottola potrebbe essere il percorso del film. No! grida Antonio. Proprio quando la pallottola colpisce.

Antonio restò un attimo fermo come una pietra mentre la moglie cadeva senza un gemito, poi ebbe un moto di fuga, passò davanti ai bambini con gli occhi spalancati nell'altra stanza. A metà delle scale si fermò e tornò indietro. I bambini erano seduti sul letto e lui dice che vorrebbe dimenticare quegli che lo guardavano. Storditamente, si avvicinò a loro per togliere un po' di quello spavento e non ricorda bene cosa disse. Vorrebbe ricordarlo, prova, ma non ci riesce. Avrebbe dato la vita per farli sorridere. Sente dei passi, erano già i vicini, le guardie.

Ritorna sulla scena, la ripete minutamente, e la interrompe nell'istante in cui il suo dito sta per premere il grilletto. Sperando di trovare il modo che sia diversa, che quella parola crudele non esca dalle labbra della moglie.

La parola è uscita e ora lui se la porterà appresso per sempre come una croce.

Non poteva essere che così. Egli la meritava. Lui aveva detto a lei: "Un giorno o l'altro ti caccio di qui a calci in culo". Ma lei rideva con disprezzo, diceva che mai di lì si sarebbe mossa, la legge era con lei. Lui insisteva che era una povera donna indegna di lui, piena d'idee false, vile, e che puzzava perfino.

"Questo ho detto, signor presidente."

Resta un po' in silenzio e poi riprende, e come in trance dice che in tutte le case può risuonare all'improvviso un colpo di rivoltella, dice che viviamo sull'orlo di un precipizio, che abbiamo paura l'uno dell'altro. Dice con semplicità, con umiltà, che lui crede di cominciare a capire, che gli pare di avvicinarsi un po' alla verità e che questo può essere utile a tutti. Ha fatto del male e crede che ora stia facendo un po' di bene, ma non si può fare del bene senza essere sinceri fino in fondo.

Vorrebbe che Maria resuscitasse, fosse seduta vicino a lui e parlassero come avrebbero dovuto fare allora. Non della libertà di Antonio, ma della libertà di tutt'e due, anzi di tutti.

Resta con lo sguardo fisso nel vuoto vedendo l'incontro con Maria, il loro lungo, calmo dialogo, il dialogo che non è avvenuto e che avrebbe dovuto avvenire sulla vita, sul matrimonio, sui figli, sulla libertà di cui vorremmo trovare una definizione. Che dialogo sublime sarebbe stato nella sua semplicità, nella sua sincerità. Umano. Non si è mai troppo umani. Eccoli seduti di fronte che si dicono: "Io non ti amo più, Maria". "Io non ti amo più, Antonio." "Io amo un'altra." "Io amo un altro." Continuano a parlare con calma mentre la voce del presidente, questa volta severa, interrompe il suo fantasticare: "Terzi, venga all'essenziale".

(1969)

 

I sogni migliori

Spesso chiudo gli occhi per un minuto durante la rappresentazione e cerco d'indovinare quanto succederà sia rispetto alla tecnica sia rispetto ai fatti, un primo piano o un campo lungo, una donna seduta o un paesaggio: poiché la sceneggiatura ha infinite strade per giungere al suo scopo, come la misericordia divina, quindi ogni sorpresa è possibile anche nelle sequenze elementari. Un film comune triviale e logico, seguito con questi abbassamenti di palpebre, giustifica sempre la nostra presenza e rivela la delicata capacità di ogni metro di pellicola, spiega che l'uso del fotogramma non deve essere dissimile da quello della parola. Resta inoltre il dubbio angelico che in quei momenti di cecità si siano svolte azioni brillanti, si concede insomma del credito, come capita con gli uomini dai lunghi silenzi, essendovi sempre poesia nella parsimonia.
Non vorrei che i produttori, impadronitisi del mio pensiero, firmassero una supplica per ottenere la costrizione del pubblico ad assistere bendato alle "prime". Intendo soltanto dire con il mio esperimento che la fantasia fermenta nei difetti: se l'ultimo cinema dal trenta al quaranta, è di rado sorprendente, dipende dalla sua crescente perfezione commerciale. Ahimé, arriveremo anche noi alla organizzazione americana.

Siamo ancora in tempo a guardarcene? Temo di no. Tutto il mondo considera il cinema industrialmente, con tanta naturalezza e convinzione che noi artisti entriamo nel gioco e viviamo di compromessi e ascoltiamo i discorsi del finanziere consentendo con lui in qualche punto: soprattutto nel punto che egli è veramente l'arbitro della situazione. "In fondo - si ammette - ha diritto di difendere il suo bilancio."

Non cambieremo noi con due pagine, la potenza millenaria dei volgari interessi che collaborano a distinguere il cinema dal libro creando due estetiche e due morali. Ci basta l'illusione che un giorno si dirà:
"Sin dall'inizio una ventina di individui avevano capito che la strada non era quella di Hollywood, che lo spettacolo cominciato sui Boulevard dai fratelli Lumière fu il principio del male." Si chiamavano Nichelodeon i primi locali, la moneta di nichel, il prezzo, erano l'insegna del meraviglioso avvenimento.
Urgeva invece impadronirsi del mezzo con un costo così esiguo da metterlo alla portata di molti, degli individui, come la carta, l'inchiostro, la plastilina, i colori: introdurre nelle case pellicole e obiettivi come le macchine da cucire.

Non sarebbero nati i produttori, vertice di un sistema borghese, cinema applicato, al pari di certa editoria, ormai difesi da una linea di ferro; i luoghi comuni del lavoro distribuito a migliaia di cittadini, la creazione di una grossa e nobile ragione. Ma a loro, poi, di tutto questo, che ha la sua parte di virtù, non importa un fico secco.

Dove ero rimasto? Con il preambolo volevo arrivare alla considerazione che i ciechi, al cinematografo, non sono un caso pietoso: dicevo che la fantasia viene fuori dalla povertà, tanto che il titolo del lavoro, l'accompagnamento musicale, il respiro degli spettatori, alcune frasi, sono sufficienti per determinare una trama originale, di volta in volta diversa, la loro trama.

Per il "giallo" ad esempio, l'angoscia nascerà più che dal rumore scoppiato in mezzo ad una pausa, da un grido, nascerà dal passaggio del tempo, senza sfondi, uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove... gremiti di cattiveria.

È ovvio che il cieco ha bisogno come noi di un limite, principio e fine, per essere nello spettacolo e non nella elucubrazione solitaria. Diventano spettacolo le cose ferme in una attenzione predisposta. Infatti, mio zio, che era saggissimo, non diceva mai: "Guardate il tramonto". Ci schierava davanti alla finestra - spesso invitava anche gli amici - suonava un campanello, poi, tirate le tendine della finestra, escalamava: "Ecco il tramonto". Quale splendida visione!

Seduti accanto a noi, a contatto dei nostri sussulti, del calore umano, diventano i veri, i soli critici: essi sanno ciò che potrebbe accadere. Riacquistata la vista per miracolo, si troverebbero davanti scene molto al di sotto delle loro immaginazione. Io penso che noi cineasti perpetriamo continuamente un tradimento verso di loro: i registi pensino ai ciechi il riassunto di un'opera, avvertirebbero subito il metodo, il mestiere, anche nei casi felici.

Vuol dire che essi non amano le cose semplici, dato che il pubblico spesso piange o ride? Anzi, solo le cose semplici, poiché le vere scoperte hanno radice nella grammatica. Il cinema mondiale poggia per nove decimi sul romanzesco, sull'eccezionale: ma intorno alla natura di questo romanzesco noi ci comprendiamo. I ciechi sono in grado di attendere avventure ben più profonde di quelle care ai soggettisti internazionali: essi soli permetterebbero e aiuterebbero la rivoluzione vera e propria: il film dell'uomo che dorme, il film dell'uomo che litiga, senza montaggio e oserei aggiungere senza soggetto. Un episodio senza centro e casuale. Poter tornare all'uomo come all'essere, "tutto spettacolo". Cetri metraggi ottenuti piazzando la macchina in una strada, in una camera, vedere con pazienza insaziabile, educarci, che grande conquista, alla contemplazione del nostro simile, nelle sue azioni elementari. Vicino a noi c'è il cieco, lo aiutiamo di quando in quando con le didascalie: Ora l'uomo si passa una mano sull faccia, il dito medio si è fermato sull'occhio, muove la bocca a sinistra... Il cinema dovrà scoprire le cose originarie e abbandonare il balordo concetto di inverosimile e di eccezionale che la letteratura sta buttando finalmente alle ortiche.

Con un cieco non arrossisci a proporre il seguente soggetto: "Dalle ore diciassette, ordine divino, siamo tutti immortali". È inutile discutere, i dubbi ecc. ecc. dopo le prime ore di sbigottimento, poi di gioia folle, orge, danze, pianti, constatazione della verità: immortali.

Un signore si è buttato dal muraglione del Pincio, ha fatto tre o quattro rimbalzi come una palla di gomma sul lastrico, e infine si è alzato arzillo e con la giacca solo un pochino impolverata. La vita continua, però, almeno in principio seguitando a svolgere le trame imbastite prima delle ore diciassette. A poco a poco sorgono nuove coscienze: avremo avuto cura d'impiantare una storia con sei o sette personaggi e la risolveremo nel clima "dopo le diciassette". Un'amica vi telefona: "Ti aspetto questa sera". Che cosa risponderete, immortali miei? Non saprei neanch'io. Certo che sarebbe bello entrare in una casa dove stanno litigando e avvertirli con la voce di un usciere: "Dalle ore tot siete tutti immortali". Molto interessante sarebbe il periodo del trapasso dal regime mortale a quello immortale: invece è facile prvedere per dopo la statuaria configurazione dell'umanità, l'edera crescerà sui nostri corpi e i piedi metteranno radici nella terra.

I sogni sono dei ciechi e dei veggenti. Un film tutto sui sogni costituirebbe un documentario importante anche per i posteri: o difficilmente sapranno che cosa sognavano i cittadini di questo periodo bellicoso.

La supervisione - non intendo fare dei giochi di parole cretini - l'affiderei a un cieco.

Ma niente flou, rallentamenti, niente surrealismo, come direbbero i produttori, i nostri sogno sono nitidi e feroci, possiamo discuterli stando su un'amaca dopo colazione. I nostri sogni sono la tavola pitagorica, moltiplichiamo Antonio per Achille, addizioniamo il bicchiere con la calamita, o la nipotina di Carlo, e otteniamo risultati chiari e impacifici.

Restiamo rigorosamente nell'ordine delle cose conosciute: un albero è un albero e non può esistere se non come albero. Ma nei sogni l'albero parla, e dal nostro ventre escono chilometri di intestino con molta naturalezza.

Siamo in grado addirittura di creare una città che sia dalle fondamenta frutto di un sogno. Chiudete gli occhi, amici miei, ecco la città con le piazze i campanili gli abitanti. In una vertina sono esposti alcuni uomini, un passante malinconico entra, prende in affitto per un'ora un giovanotto biondo, se lo porta ai giardini pubblici, gli racconta le sue faccende private, lo riporta in ditta allo scadere dell'ora.

Non vi dico le altre inaspettate apparizioni, tuttavia vi avverto che il loro senso sarà nella terrana verità del loro svolgersi.

Niente di magico. Per detronizzare Frankestein e tentare il "nuovo" abbiamo solo urgenza di riproporre alla nostra attenzione i motivi pietrificati dai secoli.

Rinunceremo alla truca, al transparencier, agli infiniti sotterfugi cari a Méliès. La meraviglia deve essere in noi ad esprimersi senza meraviglia: i sogni migliori sono quelli fuori nebbia, si vedono come le nervature delle foglie.

("Cinema", n. 92, 25 aprile 1940)

 

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