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C e s a r e V i v a l d i
Crack 1960

 

Cesare Vivaldi, Introduzione a Crack. Documenti d'arte moderna. Pietro Cascella, Piero Dorazio, Gino Marotta, Fabio Mauri, Gastone Novelli, Achille Perilli, Mimmo Rotella, Giulio Turcato, Cesare Vivaldi, Milano, Edizioni Krachmalnicoff, 1960.

Dalla sua prima apparizione nel 1960 questo manifesto non è stato più ripubblicato in alcun repertorio di storia dell'arte italiana. Grazie alla collaborazione di Cesare Vivaldi - tra i più attenti ed entusiasti critici di quella stagione cruciale - lo proponiamo ai lettori di Trax: spentosi "l'urlo e il furore" dell'informale, i giovani artisti romani inaugurano una personalissima versione del neodadaismo, destinato presto a essere assorbito nell'esperienza Pop. Nella Roma del boom economico, dell'esplosione industriale, Rotella, Mauri e gli altri artisti raccolti in quel raro volume riscoprono la tradizione futurista, il gusto per il pastiche oggettuale e linguistico. Ma al cieco ottimismo di inizio secolo subentra uno sguardo disincantato, ironico, a tratti cinico o persino comico, che coglie le ambiguità di una cultura ancora scissa tra l'entusiasmo per le "magnifiche sorti e progressive" e le ferite, le lacerazioni del dopoguerra.

© Cesare Vivaldi

Amiamo il mondo. La tavola pitagorica che è il mondo. Le sensazioni dissociate attraverso cui si esprime, come numeri in tante caselle irriconciliabili. Le disarmonie che lo rendono armonico. Il paesaggio melenso del Vesuvio, e il ringhio furbo e millantatore delle "seicento" che cambiano marcia per affrontare la salita. Il neon sentimentale, i tisici riflettori del Colosseo e le dolci, arroganti lamiere lacerate e insanguinate dopo lo scontro. Amiamo Dracula e la sua vittima, il morto e il vivo, il demonio e il cherubino. I miracoli della TV o del Cinemascope, oltre ogni idiozia, ci affascinano; e così lo spettacolo di un pubblico abbrutito dai "mass media". Eppoi amiamo anche l'abbrutimento di per se stesso: il "bruto" e l'immancabile angelo che da lui si risveglia.
Sui tramonti di Roma vorremmo fissare col "vinavil" le immagini, i frammenti che ci piacciono. Sovrapporre alla porta del Popolo sempre ingombra di grasse automobili le gambe di Marilina, uno stecco, un pappagallo impagliato, una bustina di caffè Hag. Non c'è nulla di surrealista in questo; anzi odiamo le banalità surrealiste, la falsa metafisica, il "mistero" e le allucinazioni calligrafate a mente fredda da tanti odierni epigoni del vero surrealismo. Checché se ne possa pensare non c'è neanche nulla di dadaista. Non crediamo alle "magnifiche sorti e progressive" della società, ma egualmente amiamo il mondo e gli uomini, siamo disposti a far loro credito, persino a sperare (scetticamente) nella possibilità di una più equa ripartizione della ricchezza. Non siamo dadà, non siamo barbari e neppure "primitivi di una nuova sensibilità". Siamo troppo scettici per credere nelle proteste anarchiche. Troppo disincantati per credere negli inquadramenti collettivistici.
Semplicemente amiamo il mondo e tutto quanto esso contiene. Vorremmo fare, del mondo così com'è, un monumento. Non chiedeteci di scegliere e differenziare: tanto qualsiasi cosa noi si tocchi può diventare oro. E l'artista potremmo anche raffigurarcelo come uno che corra dietro a galline bianche per timbrare loro sul didietro le parole "The End" o "The Beginning", indifferentemente; poiché ci sarebbe solo da decidere (e comunque perché dovremmo essere noi a farlo?) se cuocere l'uovo o lasciare che nasca il pulcino.
Non ci si chieda di scegliere perché rifiutiamo i mezzi della scelta. Rifiutiamo il linguaggio. Anzi abbiamo smesso di credere nel linguaggio, senza nemmeno bisogno di rifiutarlo. Non crediamo nell'ordine convenzionale del linguaggio (sintassi, sequenze, toni, segni) e nemmeno nel suo "negativo", nell'informe. Ci limitiamo al minimo, all'elemento irriducibile, alla parola singola o al blocco di parole, alla linea, al punto, a una trama di luce, all'oggetto. Vorremmo elevare il mondo "in toto" a monumento, ma ci accontentiamo di metterne insieme dei pezzi staccati, dei frammenti; senza mistero, senza iniziazioni, alla luce del sole. L'oceano informe s'è ritirato, il caos coagulato, in un modo, in un ordine qualsiasi ma pure saldo. Scampati a innumerevoli naufragi ecco che pazientemente, senza fretta e senza preoccupazioni, facciamo i conti , inventariamo e inventiamo.
Ci siamo rifugiati su una riva che non conosciamo bene ma che già amiamo. Robinson Crusoe di due guerre mondiali inalberiamo ombrelloni come vessilli. Le tempeste cosmiche rullano intorno a noi, con elettriche albe e notti illividite dal chiaro di luna e dal lampo intermittente dei satelliti artificiali. È tutto inconoscibile ma tutto chiaro; se s'ode a destra uno squillo di tromba si sa già che da sinistra risponde uno squillo. I miti non esistono e i giornali a fumetti sono anche divertenti. Tutto è reversibile: basta non meravigliarsi di nulla. Tutto è oppure può essere.
Dalla nostra arte abbiamo abolito ogni sbavatura sentimentale. Le immagini e le cose sono fredde o calde di per se stesse; le amiamo come sono, vorremmo baciarle e succhiarle, ma con debita impassibilità le registriamo e le cataloghiamo, attenti solo a che non si secchino, a che non perdano vita.
Immiti, impazienti pescatori gettiamo la lenza nell'oceano e tiriamo a riva quel che ci occorre: latta ruggine, sargassi, una balena docile come un pallone, uno zoccolo, una zoccola, uno sputnik, uno sputasentenze noioso come un mandolino, un casco da rugby americano, un'"affiche", una lima, una spada, un pesce-sega, un gonococco, una corda d'impiccato, un uno+uno=due, una calcolatrice elettronica. Tutto, insomma, quanto può appagare la nostra fame di cacciatori d'immagini, di saccheggiatori della vigna meravigliosa del mondo. E tutto in mano nostra diventa oro, s'inquadra, assume ordine. Alla vecchia automobile senza ruote sottoporremo quattro capitelli corinzi ripescati dal magma: e la macchina andrà avanti, a sbalzi, ma sempre avanti. Che importa se il cammino sarà più difficile? Se vorremo potremo anche cavalcare veloci la notte. Imporremo lo strip-tease alla madre dei Gracchi. Tutto può essere, quindi tutto è.

Se vogliamo tentare lo sbarco in altri mondi. I mezzi più elementari di comunicazione, il cerchio, il quadrato, la geometria di Euclide, sono in nostro possesso. Potremo comunicare con gli abitanti dei globi che attorniano Vega con semplici segnalazioni luminose. Le nostre vecchie latte, i nostri frammenti di vetro sono tesori validi in qualsiasi approdo dell'universo.
Ma prima bisogna contarci, passarci in rassegna. Siamo in nove, ma forse altri amici ci raggiungeranno. Siamo uniti perché oggi non possiamo esserlo e perché in passato abbiamo saputo anche odiarci. Siamo eguali e diversi.

Chi scrive queste righe è un uomo che guadagna il suo tempo ordinando, disordinando, riordinando un bric a brac di oggetti in una stanza abbandonata.

Pietro Cascella erige instancabilmente muri. Contro quale minaccia? Contro quali pericoli? Simboli, oggetti familiari, utensili egli getta nella costruzione; dal fragile innalza una barricata solidissima. Il mattone e la pietra, lo spino e il martello, il sacco e la polvere sono i suoi arnesi. Tutto è buono per fermare "al di là", oltre il muro, oltre la siepe, il nemico sconosciuto. Cascella ha l'"horror vacui"; tappa ogni buco con la pazienza e l'accanimento del castoro, con la tenacia e la potenza dell'elefante. I suoi quadri sono le sue lapidi, i bollettini della sua continua battaglia contro l'ignoto, contro l'incomprensibile. La sua non è pittura ma edilizia, su cui la vita ha lasciato ferme tracce e palpiti.

Piero Dorazio newtoniano e freddo come un ricercatore scientifico, indossa il camice bianco del chirurgo e del macellaio. Scompone la luce nel prisma e la ricompone in una maglia inestricabile, sottratta a ogni riferimento naturalistico. La luce della Grecia non era diversa: non è diversa la luce di Cassiopea. Mondrian naufraga nel grigio oceano di Pollock e brucia nel fuoco di Burri. Chiamate i pompieri! Gettatevi dalla finestra e sarete salvi, a picco in un soffice tendone di tweed. Quel che conta è la trama, la maglia fredda e impassibile di una luce da cui non saprete mai più come districarvi. Luce dipinta filo a filo, raggio a raggio con la pazienza d'un monaco, o graffiata con rabbia nel bronzo.

Gino Marotta è un furetto che va e viene e scorrazza attraverso tutte le meraviglie. È il topo bianco dell'astuzia che ha addentato l'ardente peperoncino del dinamismo. Si rotola nei negozi di giocattoli, mordendosi allegro la coda per lo stupore dei bambini ubriachi. Con mani duttili costruisce scatole magiche e razionalissime che magari domani getterà allegramente dalla finestra. Analogico e "contaminatore" mescola insieme il remoto e il vicinissimo. La luna è distante e l'aria fredda; l'acqua il ricordo d'un altro pianeta. Sul marmo del canterano la corona di spine ha germinato strani frutti metallici, spade, ventilatori, angioletti barocchi. Dall'orologio la morte suona scacciapensieri. Ma tutto è previsto, calcolato, kepleriano.

Fabio Mauri ha un "fumetto" negli occhi e un cuore bianco e dolce come di zucchero. Di tanti film visti e girati non gli sono rimaste che le parole "The End", gigantesche sullo schermo candido accecante. Le immagini si cancellano per lasciar posto al bianco e all'eterno; poiché sulla neve l'ombra ha il rilievo dello spettro, la coppia son sempre tre, la coda dell'ermellino è l'unico punto fermo al discorso veloce dell'esistere. Fabio Mauri è della stessa sostanza dei sogni artificiali. Dandisticamente può amare Lil Abner o la TV. Se vi offre una torta state però attenti al revolver che può esservi nascosto. Stufo di spettacoli si è abbandonato su un abbagliante lenzuolo per scatenare i suoi sogni sonnambolici e sofisticati.

Gastone Novelli ha rubato ai pascià le loro belle recluse per incollarle sulla tela, capelli sciolti, velo sul volto, grandi brache ondeggianti fermate alla caviglia. Pirata di tutti i continenti, Novelli saccheggia tesori che poi sparpaglia a piene mani. È il più ricco e il più povero di tutti, il più nobile e il più plebeo. Una forma di ironia superiore (superirritante per i mediocri) lo spinge a porre continuamente tutto in discussione, e poi a sbaragliare anche le proprie obiezioni con un sogghigno. Suo è il condor impagliato, enorme sul comodino, sotto una campana di vetro che tintinna ad ogni respiro di brezza. Suo è il ventilatore con le frange carnicine. La risacca burlona di tutte le spiagge è sua proprietà privata.

Achille Perilli è l'allibratore che misura il tempo con l'orologio d'oro delle fiabe e delle vignette umoristiche. Ad ogni clessidra svuotata traccia un solco sulla pastosa lavagna del passato e dell'avvenire. Il presente è la linea della battaglia, i minuti detriti che si depositano in attesa dell'ondata più forte. L'angelo che sopravviene ad ali spiegate sarà scacciato da un diavoletto di Cartesio. Su e giù nella bottiglia la figuretta nera rappresenta una parvenza di moto e di vita anche attraverso la durezza del vetro e l'inerzia subacquea. Ad ogni salita e discesa i solchi s'infittiscono, s'approfondiscono, s'intrecciano, s'incrociano, divagano. La curva immortale degli astri rimane al di fuori, lontana, stupefatta.

Mimmo Rotella s'è fatto "un vestito favoloso di vecchie affiche". L'amata, la vera, è la donna che si dondola sull'amaca, la donna ingrandita al pantografo del cartellone pubblicitario. Dodo d'Amburgo è più bella nei manifesti che nella realtà. Stralunato, arguto e byroniano Mimmo gira il mondo sfogliando una margherita: m'ama non m'ama. I petali sono di tutti i colori e si sfioccano dai muri come una nevicata di carta. Avvolgiamone la terra! Incartiamo il sesso, la luna, i pianeti! Sul grigio dello zinco il rosso squilla più d'un papavero in una pianura di grano, la ruggine è più bruna di tutti i campi lavorati. Nei quadri di Rotella le tinte industriali sono vergini e schiette più dei fiori di bosco e di prato.

Giulio Turcato ha il profilo giovane, vecchio e lucente delle monete. Per venti lire vi regalerà l'oro che ha trovato in fondo alla sua scodella di zuppa. Ma invano vi romperete le unghie per staccare dalle tele i fogli da mille appiccicati: è moneta fuori corso per chi non sa cavalcare i destrieri dei sogni, per chi non crede nei miracoli. Il demone della contraddizione, il genio dell'improvvisazione, la maschera da pulcinella della pazienza hanno voluto sovrintendere alla nascita delle sue opere. Da sempre e per sempre Turcato è lo sposo dell'aurora; ha avuto, non richiesti, i doni più ambiti. E li ha trasmessi immancabilmente al primo che passava; troppo dovizioso del suo e troppo astuto per trattenersi alcunché.

Il primo razzo in partenza per la luna ci attende dietro le case, sul prato che confina con il Tevere e che ingombrano parzialmente montagne di rifiuti.
Lo sterrato brulica della solita, intensa, simpatica vita notturna: insetti, prostitute, froci, topi di chiavica, splendida luce di stelle, insonni usignoli, Riccardo Bacchelli, Roberto Longhi. C'è pericolo che si avvicinino? Che rompano il razzo? Cacciateli! Basterà una fucilata in aria, uno spruzzo di DDT, un fuoco di bengala acceso e spento in un tripudio di lampi.
Tra poco scoccherà l'ora. Ci avvieremo in fila indiana, tra le ombre. Saremo silenziosi ed ilari. Saremo fieri e modesti, garruli e segreti.
C'è ancora tempo. Tempo di salire e di prendere posto, sempre l'uno dietro l'altro. Lo spazio è stretto e a stento potremo sistemare le nostre valigie ricolme di tutte le ricchezze dell'universo. Una sveglia tintinnerà a perdifiato nelle prime luci dell'alba: la butteremo via, attraverso lo sportello, prima di rinchiuderlo con un tonfo che ci strapperà il cuore e le viscere.
Mancheranno pochi minuti, poi pochi attimi.
Nell'alba piena arriveranno i cinesi, dilagheranno per tutto l'Occidente. Abbevereranno nel Tevere i loro cavalli dagli occhi maligni.
Ma sarà troppo tardi. Non ci avranno. Saremo partiti allora allora.

Via! Attraverso un cielo nero chiomato di stelle. Vediamo Saturno come un bambino che gioca col cerchio; Marte colpito da una rossa febbre maligna; Plutone freddo e scostante; la scarlatta orchite del Sole che fiammeggia impazzita.
La terra luccica lontanissima con lo splendore pacato d'una moneta d'argento.
Nell'astronave la forza di gravità s'annulla. Diventiamo leggeri come favole. Turcato, il più disincantato di noi, rotea felice a mezz'aria come un occhio nella sua orbita.
Andiamo a ricostruire altrove una civiltà. Le nostre valigie sono piene di tutto ciò che è veramente importante: poemi in prosa e dentifricio, dischi rotti e collane di vetro per i marziani, lembi di nuvole e sale d'oceano. Le onde herziane che ribollono dietro di noi non ci portano che infiniti messaggi:

 

Il mondo, quanto è bello.
La Grecia non è esistita mai.
Essi non passeranno.

Sparita la luce bianca della terra facciamo rotta, nel nero più nero, verso un nero più nero di tutte le notti. Lo spettacolo è terminato. Un nuovo spettacolo va ad incominciare attraverso la parola: Fine

 

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