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C a r l o B e n v e n u t o
Le cose del mondo
intervista di Massimiliano Gioni

 

Tea cups, plastic chairs and kitchen tables, glasses and cloths: these are the subjects of Carlo Benvenuto's photography. The artist is composing a neverending portrait of his house and things - a landscape of loneliness and reclusion, between Robbe-Grillet and Miss Marple.

© Trax

Una tazzina in bilico su un tavolo, sedie di plastica e tavoli di formica, bicchieri e tappi di penne Bic, oggetti scarni e semplici, prelevati dal tinello buono di qualche zia di Stresa.  È questo il mondo che Carlo Benvenuto indaga con le sue fotografie fredde: ritratti di spazi sordi, perlustrati con ostinazione, riprodotti sempre in scala uno a uno, come se Gozzano avesse letto Robbe-Grillet.
Le opere di Benvenuto sono in mostra alla galleria Emilio Mazzoli di Modena, fino alla fine di marzo.

Il Novecento è per molti versi il secolo dell'oggetto: dal ready made di Duchamp all'oggetto di affezione dei surrealisti. E ancora: la protesi meccanica futurista, l'oggetto Pop e i gadget di Koons e Steinbach. Ti senti parte di questa tradizione?

(Per carattere mi è molto difficile scegliere. Tutto è così interessante che ascolto ogni ragione che mi viene sottoposta e sono sempre d'accordo).

Ritengo che il mio modo di operare non sia paragonabile agli aspetti del Novecento che hai citato. Pur apprezzando e conoscendo il loro lavoro non riesco a riallacciarmi a quella sensibilità. Penso, piuttosto, di guardare agli artisti che hanno lavorato e tuttora lavorano attorno al concetto di classico: studiare e praticare una misura, una forma, una composizione. L'eterno ritorno della classicità. L'arte ha memoria. L'arte riflette sull'arte, ma talvolta sembra limitarsi a reagire all'arte rispondendo con calembour, cortocircuiti, piccole e grandi provocazioni. Francamente ammetto di essere stanco di andare per mostre e di divertirmi, risolvere enigmi, sentirmi intelligente o stupido. Voglio vedere una mostra che sia innanzitutto bella: che mi meravigli. Voglio vedere opere che bastino a se stesse, la cui vita sia giustificata da se stesse, che siano degli oggetti belli, come bella sa essere la grande pittura. L'arte della meraviglia non è quella dello stupore, della performance azzardata, del doppio salto mortale, ma è l'arte dove la bellezza ci sorprende all'improvviso.

Quindi si tratta di ritrovare la bellezza nel quotidiano, di restituire la leggerezza e la meraviglia a quello che chiami "il piombo inamovibile delle cose del mondo"?

Quando parlo di "piombo inamovibile delle cose del mondo" non mi riferisco esclusivamente agli oggetti, ma alla realtà nel suo complesso, all’implacabile logica naturale delle cose che prevedibilmente e inesorabilmente condiziona e vincola il pensiero poetico: la realtà non è razionale, né bella, né nobile. La sua condizione generale è il caos, la mancanza di qualsiasi ordine, l'assenza di qualsiasi finalità. Quindi costruisco un’immagine con coordinate compositive che organizzino lo spazio e disciplinino la percezione, così da lasciare al pensiero di chi si avvicina all'opera, il più ampio raggio di manovra per rintracciare l'intenzione che ha generato quella immagine e ritrovare le sensazioni che l’hanno prodotta, aldilà della forma e dentro di sé.

L'ordine che stabilisco all'interno di ogni immagine non è solo formale, ma anche poetico: mi interessano i miei oggetti e i miei spazi perché mi confortano nel caos delle cose del mondo e questo caos si ripete necessariamente e perennemente, eternamente ritorna su se stesso assumendo, nel ritrovare cose già conosciute, anche una funzione consolatoria.

Ma allora i tuoi oggetti sono estranianti o consolatori? Sono magici o rassicuranti?

Lo straniamento si produce regolarmente quando si prende coscienza di qualche cosa, si produce ogni qualvolta si aggiunge un elemento alla propria consapevolezza del mondo, inevitabilmente bisogna aggiornare il proprio pensiero e fare i conti con il nuovo intruso. Degli oggetti che ritraggo non mi interessa il loro utilizzo, non penso a che cosa servano. Penso che esistono nella mia vita. Io fotografo dei soggetti che astraggo dalla loro consuetudine, cercando, in questo modo, di guardarli in modo diverso, nuovo. Talvolta gli oggetti che popolano il nostro quotidiano, o le nostre abitudini, gli automatismi che scandiscono un ritmo confortante nella nostra vita, se estrapolati, se selezionati ed estratti da questa palude salubre che è la vita quotidiana, comunicano in maniera diversa, lanciano dei segnali ai quali la naturale frequentazione ci ha reso sordi. Amo amplificare le potenzialità degli oggetti che cataloghiamo come inoffensivi e che invece sono bombe cariche di sentimenti pronte a esplodere.

Mi interessa questa tua insistenza sul sentimento, perché c’è un’atmosfera nostalgica nel tuo lavoro. Si tratta di un rifiuto del linguaggio dell'avanguardia, di un richiudersi su se stesso per tornare a un tragico quotidiano?

Io uso la macchina fotografica nel mio spazio privato, in casa: è una piccola perversione, una piccola dose di esibizionismo che esercita una patetica violenza sulla mia casa, su me stesso; frutto dell’esigenza contraddittoria di chiudersi in casa e di farlo sapere a tutti. Restare fermo in casa è una scelta e, contemporaneamente, una non-scelta. È una scelta per ragioni poetiche e una non-scelta perché è il grado zero del soggetto, la soglia minima, il confine tra il fare e il non-fare. Ho azzerato il soggetto e riparto da me stesso. Il mondo è così complesso che non esco di casa. Tra troppe possibilità di scelta non scelgo niente. La tecnologia permette di realizzare cose perfette in ogni disciplina venga applicata: io rispondo esaltando la mia sensibilità e tralasciando tutto il resto.

Ho scattato una fotografia che ritrae le mie unghie tagliate raccolte nel cavo della mano: questa immagine formalmente differisce a tal punto dalle altre da dovere fingere che non esista per evitare di confondere chi si avvicina al mio lavoro. Invece l'accostare questa fotografia a quella della vecchia tazza da tè, ben rappresenta la mia idea di privato, di intimo, dei legami misteriosi e sentimentali tra noi e le cose, dei piccoli pudori quotidiani, della crudezza e della ciclicità del quotidiano. Questo si lega al fatto che non è tanto importante il soggetto raffigurato, ma quello che precede la scelta di questo soggetto: i lavori non si assomigliano, ma dicono insistentemente le stesse cose.

Imparo molto nella mia casa. Accostare gli oggetti gli uni agli altri, misurarne la distanza, valutarne il peso: possederli, ricordali, farli riposare. Spendere il proprio tempo.

L’associazione poetica di un oggetto con un altro oggetto o con uno spazio che lo ospita oppure, entrando nello specifico fotografico, con un colore o una sfocatura o una sovra o sottoesposizione provoca quel languore metafisico che soggiace sempre alle mie immagini. Ecco, dunque, che assumo a soggetto di una grande fotografia (la più grande che ho mai realizzato) un cappuccio di biro Bic, abbandonato sulla moquette tra le gambe di un tavolo. Questa opera presenta una grande severità e classicità formale, il tavolo è fotografato frontalmente e campeggia in scala 1 a 1, sistemato nel mezzo della composizione quadrata dell'immagine, in prospettiva centrale. Il cappuccio blu è invece alla destra e rompe la perfetta simmetria, creando un doppio disturbo: compositivo e linguistico; un ospite molesto, fuori tono in un ambiente dai colori caldi, che vanno dal bianco latte, al beige al marrone arancio; un testimone della ribellione delle cose all'ordine che cerchiamo di dare al caos del mondo come lo conosciamo. Un gesto maldestro è più di quanto vogliamo credere che sia.

Vorrei tornare al languore metafisico di cui parli, a una certa nostalgia, se vuoi. Nei tuoi lavori c’è qualcosa di crepuscolare, con tutte "le buone cose di pessimo gusto" di cui parlava Gozzano. C’è una critica o un’apologia del mondo piccolo borghese nel tuo lavoro?

Gozzano decreta la morte della poesia e quindi dell'arte mascherandola con paramenti e linguaggi borghesi, così da renderla accettabile al mondo. Io non penso di operare in questo modo anche se condivido il sentimento dolce e triste delle buone cose di pessimo gusto. La scoperta di questo sentimento di nostalgia e di conforto è, per Gozzano, una dichiarazione di resa nei confronti della borghesia: la lusinga della vita borghese e la tentazione di cedervi, quindi apprezzarne la tranquillità e il calore. Nel mio caso non c'è denuncia sociale, non c'è idea di morte dell'arte anche se, in effetti, c'è la tentazione di reagire all'arte borghese che pare essere al momento quella che inspiegabilmente rinuncia a pensare l'opera d'arte come esperienza del bello. Vedo concentrata una grande parte di artisti su altri argomenti: il paradosso, l'iconoclastia, la scarto linguistico.

Accanto a questo filone da "realismo magico" che leggo nel tuo lavoro, mi interessa molto il modo in cui descrivi lo scatto fotografico che sembra sempre arrivare a conclusione di un processo di ricognizione sull'oggetto. Il tuo è quindi anche un lavoro sulla conoscenza, su come si affronta il mare dell'oggettività?

Sì.

Ma qual è la specificità del mezzo fotografico? Insomma perché non un altro mezzo, la pittura o la performance?

La fotografia è efficace. Si dimostra efficace nel far precipitare nel mondo delle cose la mia intenzione artistica. Non sono interessato alla storia della fotografia. Non sono interessato ai problemi tecnici che inevitabilmente fotografare comporta. (L'errore ci parla dell'artista). Fotografare è intendere qualche cosa. Intendere è indicare con il pensiero. Indicare qualche cosa (con autorevolezza). Fotografare è comprendere un oggetto. La fotografia esercita un impatto violento con la realtà, sono sufficienti alcune frazioni di secondo per fermare un’immagine, ed è qui che ha sede il vero lavoro, il resto è storia di laboratorio. Questa velocità non permette aggiustamenti durante l'operare artistico, lascia intatto il duello tra l'intenzione (artistica) e la realtà delle cose. Non c'è tempo per i dubbi, le revisioni, i trucchi, i piccoli compromessi. Permette di documentare un pensiero, una situazione, un piccolo cambiamento, nel momento in cui si forma, con una velocità oggettiva e con oggettività, forse presunta, ma convenzionalmente accettata.

Talvolta sento l'esigenza di dimenticare che fotografare è fare delle fotografie e allora penso alla pittura. Penso a Vermeer, Liotard, Derain, De Chirico e al disegno che regge l'arte rinascimentale. Penso alla luce come problema del colorare e alla divisione degli spazi come problema del disegnare. Penso al colore come materia e al disegno come pensiero. La fotografia allora diventa un mezzo per riflettere sull'arte e riproporre gli stessi quesiti risolvendoli in frazioni di secondo. È soprattutto nelle mie nature morte, negli oggetti che accosto gli uni agli altri, che il riferimento alla pittura è più evidente. In quel caso l'intenzione è quella di restituire con la fotografia un’immagine pittorica, antica, l'idea del descrivere le cose e del raccontare un sentimento.

I tuoi oggetti sono sempre ritratti in scala 1 a 1: è una violazione del linguaggio fotografico? Stai già tendendo verso l’installazione o aspiri alle dimensioni della pittura?

La scala 1 a 1 mi è utile perché mi permette di pensare di restituire al mondo l'immagine che mi interessa operando al minimo sul soggetto che mi ha sedotto. Mi crea l'illusione di lasciarlo intatto e di non forzarlo in una dimensione che potrebbe essere espressione significante. Anche per le sculture in vetro di Murano ho pensato che l'1 a 1 fosse la giusta dimensione. In questo caso si crea un trompe-l'oeil che nelle fotografie non è così evidente. Il trompe-l'oeil mi interessa perché costringe lo sguardo a una ginnastica inedita e lascia spazio all'idea di meraviglia che soggiace a tutte le mie opere: guardare le cose di tutti i giorni e trovarvi qualche cosa di cui sorprendersi. Obbliga lo spettatore a un secondo sguardo, il primo non è sufficiente per potere catturare l'oggetto. Bisogna guardare anche con il pensiero perché la vista è ingannata. Ed è il pensiero stesso che la tradisce, quindi va ripensato lo sguardo e mi piace credere che le mie opere siano in grado di farlo. Nelle mie fotografie lo sguardo è ingannato in modo meno evidente, però subisce un doppio attacco: il primo viene dalla innocuità dell'oggetto ritratto, innocuità che si rivela essere invece apparente, nascondendo un senso di sospesa minaccia o più semplicemente di attesa che qualche cosa accada; il secondo dall'aspetto fortemente pittorico delle mie fotografie che spesso si fanno più dipinti che foto. Inoltre, la scala 1 a 1 contribuisce, anche concettualmente, all'idea di presentare non una riproduzione della realtà, ma un frammento di realtà.

Cézanne, Morandi o De Chirico?

De Chirico.

Cosa succede agli oggetti quando non li guardi?

Purtroppo mi deludono e non accade niente.

 

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