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A n d r e a s A n g e l i d a k i s
Stanze

intervista di Massimiliano Gioni

 

Young architect Andreas Angelidakis works on the relationships between architecture, informatics and corporate images, participating in various artists' projects. A former contributor to the french magazine Purple Prose, he is now working on the creation of Future Homes, a project that will be exhibited in Malmo in the year 2001. In this conversation he discusses the future of houses and buildings and his recent work in Active Worlds with painter and performer Miltos Manetas.

© Trax

Nato ad Atene e laureato in architettura a New York, Andreas Angelidakis è tra i più interessanti giovani architetti al lavoro oggi. I suoi scritti dedicati all’architettura nell’epoca dell’informatica e della corporate image sono stati pubblicati sulla rivista di tendenza Purple Prose, alla quale Angelidakis ha collaborato a lungo. I suoi progetti di recente si sono visti alla mostra The Edge of Awareness che ha raccolto artisti, architetti e critici per discutere e lavorare sul tema della malattia e della salute. D’altra parte Angelidakis è noto soprattutto per le sue collaborazioni con gli artisti, che gli hanno assicurato anche una certa notorietà in Italia, dove i suoi scritti sono stati pubblicati a introduzione di cataloghi e ripresi in diversi siti internet. La collaborazione tra arte e architettura continuerà almeno fino al 2001, anno in cui Angelidakis presenterà il suo lavoro sulla casa del futuro: Future Homes, uno spazio a Malmo per raccogliere le opere di artisti internazionali invitati da Jan Aman a immaginare gli alloggi del futuro.
Più di recente Angelidakis ha collaborato con Miltos Manetas alla creazione di un mondo in Active Worlds, il nuovo software per le chat telematiche, complicando ulteriormente la relazione tra vita reale e vita dietro lo schermo, secondo quello schema bipolare che regola tutta la sua riflessione architettonica.

La stanza in cui vivi ricorda quella di Meyer al Bauhaus: una camera grigia, un letto e qualche oggetto. Il futuro quindi tornerà a essere funzionale come un edificio Bauhaus?

Sarà funzionale, ma non in stile Bauhaus. Lo stile è qualcosa che cambia ogni giorno, che passa, come un tizio per strada. In realtà è difficile parlare del futuro, perché il futuro sarà sempre più simile all’oggi, al quotidiano. Il futuro sarà normale perché ormai è normale aspettarsi il progresso.

Eppure i tuoi progetti hanno tutti un’aria futurista. Con Manetas hai realizzato spazi virtuali e a Ginevra hai costruito un giardino sintetico. Anzi più che di futurismo, parlerei di un riferimento a 2001 Odissea nello spazio, a una specie di nostalgia del futuro.

Penso che 2001 sia una delle descrizioni più accurate del futuro, se è mai possibile descriverlo. D’altra parte per lo studio di Ginevra era stato proprio il mio cliente a chiedermi di fare qualcosa alla 2001. Naturalmente sarebbe stato troppo facile copiare lo stile del film, quindi ho cercato di catturare l’atmosfera. Il giardino da relax - quello che tu chiami "giardino sintetico" - è stato progettato con un programma di disegno in 3D: l’ho costruito nel modo in cui l’avrebbe costruito un computer. È un giardino che un computer potrebbe disegnare da solo: gli alberi sono sfere perfette. Gli alberi reali sono noiosi perché sono sfumati, indescrivibili.

Parli di un giardino che un computer potrebbe disegnare, ma qual è la relazione tra computer e architettura?

Un computer probabilmente potrebbe disegnare qualsiasi giardino. Quello che voglio dire è che il mio giardino era un giardino stupido. È come se avessi dato poche informazioni base a un computer, descrivendogli il concetto di giardino, le proporzioni, i colori e la disposizione. E il computer automaticamente darebbe la forma più semplice agli alberi. In sostanza i computer non influenzano tanto gli edifici in sé, quanto il nostro modo di pensare l’architettura. Io uso il computer come uno strumento teorico, un processo di pensiero. L’informatica modifica innanzitutto il contesto culturale in cui l’architettura è creata e solo in seguito ne modifica l’aspetto.

Poco fa mi hai detto che cerchi di costruire edifici che sembrino dei computer rendering. Che relazione c’è tra il progetto e l’edificio finale?

Io lavoro con un processo molto semplice, standard, ho solo invertito l’ordine dei fattori: penso al rendering come a una rappresentazione realistica dell’edificio e cerco materiali e luci che possano tradurre nell’edificio finale lo stesso effetto del rendering.

Cerchi di trasportare l’artificialità del disegno a computer nelle tre dimensioni della realtà. Vuoi migliorare la realtà o sfuggirne?

L’architettura per definizione deve creare una nuova realtà. È una ricerca della perfezione, un modo per raggiungere un’immagine ideale. Ma non si tratta necessariamente di migliorare o sfuggire: è solo una realtà diversa e completa. Certo c’è una componente di sex appeal dell’inorganico nel mio lavoro, di fascino dell’artificio; ma è qualcosa che non posso evitare. Non riesco a evitare il sex appeal dei computer: è la realtà dello schermo.

Eppure tu ti ispiri anche all’architettura fisica, all’architettura degli altri: stazioni di servizio, vecchi padiglioni, costruzioni effimere. Edifici che sono "veri", nati dalla pratica quotidiana del vissuto.

Vorrei chiarire che non mi interessano gli edifici in rovina o quelli dimenticati; piuttosto mi occupo di edifici "qualsiasi", le costruzioni che si usano per riempire le città. Tutto questo per dire che non credo nelle città disegnate a tavolino. Le città accadono, diciamo così. Al massimo riesci a controllare un punto di vista, un angolo. Ho sempre pensato che si debba lavorare con ciò che hai ha portata di mano, cercando di creare lo straordinario lavorando sull’ordinario. Questi edifici spontanei non sono architettura in realtà. Sono edifici che per puro caso trasmettono delle idee.

Ma dove tracci il confine tra ciò che è architettura e ciò che non lo è?

L’architettura è intenzionale; gli edifici invece accadono. La bellezza è possibile in architettura, ma non può essere controllata fino in fondo. Il ruolo dell’architetto è limitato per definizione, perché gli edifici crescono sempre in ambienti incontrollati. Mi interessa il modo in cui le città si sviluppano, come crescono: è un problema di controllo e restrizioni. Un edificio deve la propria forma tanto all’architetto quanto alle leggi, ai margini di profitto, ai clienti e alle circostanze più diverse. L’interruzione è inevitabile: qualsiasi cosa tu faccia, non avrai mai l’edificio perfetto, né lo sfondo perfetto per la costruzione. Bisogna lavorare in questo flusso.

Ma tu hai dedicato degli scritti anche all’architettura aziendale, alla corporate image, agli spazi da ufficio. Questi non sono spazi molto controllati, al limite del panopticon?

Prima parlavo di un controllo estetico, non del controllo sugli spazi. Mi piace quando le circostanze casuali impongono un certo aspetto allo spazio. Non mi interessa lavorare sui dettagli, problematizzare questi aspetti. Non mi interessa creare un nuovo modo per far incontrare un soffitto e una parete: il vero problema è costruire una parete e un soffitto giusti. Si incontreranno nel modo più semplice. Gli spazi vuoti, da ufficio, mi piacciono perché rivelano i dettagli più insignificanti: una sedia diventa più interessante semplicemente perché non c’è altro da vedere. Non si tratta però di un approccio minimalista, è piuttosto un atteggiamento cerebrale. L’architettura aziendale è un buon esempio di un’architettura guidata da forze estranee: in filigrana si legge come è nata, quali decisioni l’hanno formata. Non si tratta quindi del controllo che l’architettura ha sul pubblico, quanto del controllo a cui l’architettura ha dovuto soccombere.

È per questo che lavori spesso con gli artisti? E penso alla tua collaborazione con Manetas per la mostra da Postmasters e per Active Worlds, ma anche al tuo progetto per Edge of Awareness e per la House of the Future a Malmo.

Le mie collaborazioni con gli artisti sono un modo per osservare il controllo con cui l’architettura deve compromettersi. Come nel caso dell’architettura aziendale, si tratta di analizzare le forze che danno forma all’architettura: forze estranee, che non possono essere controllate dall’architetto. A me non interessa mantenere il controllo sullo spazio una volta che viene utilizzato da altri. Il lavoro con gli artisti rende le mie architetture più reali, non più utopiche. Uno spazio vuoto è uno spazio ideale, ma quando viene occupato dall’arte diventa reale: è come quando gli inquilini entrano in una casa e cominciano a usarla. Vedi, a me non interessa essere un architetto per gli artisti. L’artisticità non mi interessa, né tantomeno l’utopia.

Parliamo un po’ del tuo lavoro con Manetas. Quando l’hai incontrato per la prima volta?

Nell’estate del 1994, grazie a Emily Tsingou. Entrambi eravamo interessati ai computer, così, insieme a Vanessa Beecroft, abbiamo pubblicato un’intervista su Purple Prose, in cui discutevamo anche di computer e architettura.

E la vostra collaborazione è iniziata allora?

No, più tardi, nel 1996. Mi era stato chiesto di ristrutturare uno spazio espositivo ad Atene e ho inserito alcuni dipinti di Manetas nel progetto, più che altro per dare un’idea dello spazio. Era una specie di retrospettiva virtuale del lavoro di Manetas e a me serviva per liberarmi delle figure umane. Non mi piace dare un’idea della scala utilizzando figure umane: io sono interessato a uno spazio morto, vuoto. Utilizzare i dipinti di Manetas era una scelta naturale, visto che lui pensa alla pittura come "la cosa perfetta, morta stecchita". Inoltre eravamo entrambi interessati alla vita dietro lo schermo dei computer, alla realtà dello schermo.

Sia tu sia Manetas lavorate per introdurre nella vita reale luci, ambienti e colori che esistono solo nella cornice dei video dei computer.

In realtà credo che noi due stiamo lavorando sul processo inverso: non si tratta di introdurre la vita dello schermo nella vita reale, ma di trasformare la realtà in uno schermo. Se confronti la vita reale con quella informatica, quest’ultima è destinata a uscire sconfitta, perché ha una definizione troppo bassa. Io voglio invece diffondere una vita a bassa definizione, lavorare con pochi pixel.

Molti dei tuoi progetti con Manetas sembrano sale da attesa, uffici, senza alcuno spazio per la contemplazione.

Sì, come ho già detto, mi interessa l’architettura aziendale: mi attrae la componente iconoclasta di certi uffici americani. Sono costruiti per avere un impatto immediato: tra qualche anno non ci sarà bisogno di spiegare perché esistono. Allo stesso modo il dipinto di un cavo è semplicemente ovvio, non c’è nulla da aggiungere. Credo che la mia sia una specie di reazione contro il concetto di casa, contro le atmosfere domestiche, le camere da letto più mostruose. Gli spazi degli uffici sono molto più diretti, adatti alla contemporaneità. Proprio oggi ho visto una pubblicità di uno stereo molto sofisticato, altissimo design, sembrava una scultura: era come se i creatori si vergognassero di aver prodotto un’altra applicazione tecnologica. Ecco, io sono contrario a questo atteggiamento. La tecnologia deve essere accettata così come è. A noi artisti e architetti spetta il compito di cambiare lo spazio per accogliere la tecnologia.

Ma insieme a Manetas stai lavorando per creare anche spazi nuovi, puramente tecnologici, come nel tuo progetto in Active Worlds. Potresti descrivere questo lavoro? Come si collega alla personale di Manetas da Postmasters a New York?

Da quando ho iniziato a progettare spazi mi sono sforzato di avvicinare la realtà fisica degli edifici al modo in cui appaiono sullo schermo del computer. Per la mostra a Postmasters Manetas mi ha chiesto di disegnare lo spazio per l’installazione, uno spazio da ufficio appunto, in cui i suoi dipinti avrebbero fatto da sfondo ad alcuni mobili disegnati da me. A Miltos non spiace invertire i ruoli, utilizzare i dipinti come decorazioni, resuscitare il ruolo del committente. Il risultato è stato un ambiente distillato, molto simile alle immagini informatiche: c’era una scrivania che si spostava verso il muro e si piegava fino a diventare una scatola; un registro rosa; una pianta da ufficio e i dipinti di Miltos.
Allo stesso tempo abbiamo deciso di sviluppare uno spazio virtuale, puramente tecnologico in Active Worlds: Active Worlds è un software per le chat telematiche. Ci si collega e si può discutere in tempo reale; la novità è che le discussioni si svolgono in uno spazio: quando prendi parte alla chat in realtà incarni un personaggio, che si aggira tra questi spazi e mondi come un turista. Quando accedi a una chat in Active Worlds puoi scegliere il tuo aspetto e il modo in cui muoverti. L’idea originale è che i cittadini vivono in vere e proprie città che si espandono e crescono in relazione ai bisogni degli abitanti.
Per il nostro progetto Ginger Freeman ha creato un nuovo mondo, Chelsea, di cui ho disegnato gli spazi e gli edifici, preparando uno spazio virtuale in cui esporre i lavori di Manetas. Ma il mondo è destinato a crescere come una vera e propria città. Affitteremo spazi alle gallerie e ai curatori, così che possano organizzare mostre: si potrà letteralmente passeggiare in questi spazi, discutere con altri visitatori. Non si tratta più di un sito Internet, non ci sono cataloghi e foto: le opere sono poste nello spazio e il visitatore è costretto a sperimentare questo nuovo spazio, camminando e discutendo. Il vantaggio rispetto alla vita reale è che negli spazi telematici crollano le distinzioni sociali.

Che differenza c’è tra creare per la realtà e per un mondo informatico?

Per lavorare in Active Worlds sei costretto a scegliere tra materiali, forme e spazi già esistenti: non c’è un grande margine di libertà. Ma questa situazione rispecchia le mie idee sull’architettura: gli edifici dovrebbero essere semplici, non esotici. Si deve poter costruire con ciò che si ha: se non trovi un materiale, non puoi costruirlo o ordinarlo. Devi sceglierne un altro. Lavorare in Active Worlds è come costruire con dei prefabbricati, ordinando i materiali dai cataloghi.
Ma, dopo tutto, non c’è nessuna differenza: la spazio virtuale è reale.

 

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