e d o a r d o n e s i |
ride con gli angeli pittsburgh penguins Nell'ultimo messaggio, delle sette e trenta, GL mi informava di avere i biglietti per l'hockey. Mi avrebbe aspettato fino alle otto e mezzo al banchino del venditore di hot-dog davanti al Madison Square Garden. Via! Mi tuffo in un un taxi guidato da un filiforme capellone venezuelano di nome Bernardo Piñango. Benchè neghi, è certamente l'ex-campione mondiale dei superpiuma. Viaggia veloce, e alle otto e mezzo precise mi sono riunito a Gianluca, davanti al Madison. Entriamo da un'entrata riservata, e una hostess ci accompagna verso i nostri posti. Devono essere dei posti speciali, perché nei lunghi corridoi che attraversiamo si incontra solo gente in giacca e cravatta, che ci saluta e sorride. A un certo punto, da un'immensa vetrata, vediamo il campo illuminato a giorno. La partita è appena cominciata, e come sempre mi eccito a sentire il pubblico che urla. Allungo il passo, addirittura supero la hostess, gesticolo, alzo la voce. L'hockey su ghiaccio è il mio sport preferito: un bel gioco maschio, di contatto, senza piagnistei né gente che si rotola; un gioco in cui se si deve fare a cazzotti, si fà, e di solito è un leale, rispettoso tutti-contro-tutti, allenatori e massaggiatori compresi. Mi piace perché è un gioco velocissimo, si usano le mazze, e i giocatori hanno un equipaggiamento molto bello e cavalleresco. Le maschere protettive dei portieri di oggi sono decorate con falchi a ali aperte, strisce, stelle e mostri dentuti, ma la tradizionale maschera bianca traforata che usa Jason in Venerdì 13 rimane sempre la più terribile e di gran lunga la mia preferita. Un'altra cosa molto bella dell'hockey sono i giocatori, in genere ragazzoni patologicamente buoni, amanti degli animali, timidi e beneducati, ma estremamente tosti se presi nel modo sbagliato. Mi immagino siano tutti figli di sfortunati matrimoni misti - sempre però tra bianchi, sono rarissimi se non inesistenti i casi di giocatori neri - con madre e padre di lontane, poverissime origini nord-europee (scandinave, slave, più raramente sassoni, quasi mai latine), l' infanzia passata alla TV o in giro su biciclette scheletriche con amici più smilzi e cattivi di loro, a rompere gli ultimi vetri intatti di gigantesche fabbriche smantellate e trasferite in Indonesia, a sputare in faccia ai vecchi, a tuffarsi da ponticini di pietra in laghi gelidi e radioattivi pieni di trote mutanti, a scazzottarsi pitbullescamente con qualsiasi rivale venisse loro presentato davanti, a sentire sempre e solo i Led Zeppelin. Vedo i loro padri: alcolizzati, tatuati, in perpetua fuga su camper senza targa martoriati da adesivi militaristi. Vedo estati passate alle pompe di benzina, cene a microonde durante tutti gli anni dello sviluppo, madri cameriere di diners e invariabilmente consumate da qualche malattia, le stesse madri che poi rivediamo, nei grandi e rari film sull'hockey, a tifare furiosamente in tribuna, fumando dimentiche dei loro tumori tentacolati (i padri pentiti guardano invece dalla balaustra le gesta del loro volteggiante figlio abbandonato, e si commuovono perché sanno che mai potranno riabbracciarlo, se non nel momento del grande successo finale, che cancellerà ogni incomprensione in una gioia al calor bianco). E, meraviglia delle meraviglie, questi eroi poco più che ventenni, dagli zigomi alti, temprati in oceani di Bud, nella stragrande maggioranza non sono americani, ma canadesi del Quebec o dellOntario! E hanno nomi straordinari come Puppa, Lindros, Gretzky, Verbeek, Lemieux, Leetch, Tabarracci, Zalatsky, Messier, Odelein, Turgeon, Daze, Damphousse: nomi imbastarditi, appesantiti o scippati nella traduzione inglese di consonanti o vocali fondamentali per mantenere la loro fonetica originale (dei nonni di questi supereroi ci si immagina un arrivo in Canada più o meno come quello di Vito Andolini), e gettati dunque in un nuovissimo limbo semantico totalmente americano, lo stesso in cui si trovano i nomi arabeggianti dei giovani giocatori di basket neri che vengono dal ghetto (Jamaal, Assan, Tarek) accoppiati invece a cognomi anglosassoni e grammaticalmente ortodossi (Wilkes, Johnson o Smith), e i nomi compositi dei pugili musulmani neri che, al contrario, scelgono di mantenere un nome anglosassone e di arabizzare il cognome, come Matthew Saad Muhammad, Dwight Muhammad Qawi, Terrence Alli. Se io fossi diventato un giocatore di hockey, ho deciso, il mio cognome sarebbe mutato in KARPINY o KHARPHINY. Venimmo accompagnati, io e GL, in uno dei superpalchi con bar, TV e hostess di servizio. Giocavano una partita durissima i New York Rangers contro i Pittsburgh Penguins. A un certo punto, nel mezzo di un'azione, sullo zero a zero, uno degli arbitri ha fermato il gioco e ha indicato gli enormi schermi televisivi appesi al soffitto del Madison. Ci hanno fatto rivedere al rallentatore, da sei angolazioni diverse, un'azione di qualche minuto prima, ripresa da una telecamera apparentemente posta dentro una delle porte, o subito dietro, in cui si vedeva che il tiro di un attaccante dei Rangers in effetti era entrato in porta, ma poi il disco ne era uscito spezzando una maglia della rete, o passandoci in mezzo, e nessuno se ne era accorto. La voce dell'arbitro, allora, amplificata enormemente in tutto lo stadio, aveva convalidato il gol scatenando un vocìo assordante. I gialloneri Penguins, col loro gigantesco capitano Mario Lemieux in testa, si infuriarono. Sbattevano i bastoni sul ghiaccio e sulle balaustre svolazzando su e giù per il campo come uccellacci gonfi, bestemmiando e insultando a morte gli imbacuccati spettatori delle prime file, che a loro volta picchiavano coi pugni inguantati sulle protezioni in plexiglass. Ci fu uninterruzione di una decina di minuti. Gianluca (eravamo soli in quel palco da dieci persone affittato per ragioni d'immagine da non so quale trading sciita, e lasciato sempre vuoto) si mise a vedere MTV, c'era uno special su Alicia Silverstone. A un certo punto lei faceva un palloncino con la gomma, e sul palloncino, miracolosamente, appariva la scritta TEENAGE QUEEN. Io mi feci portare un hot-dog e pensai di telefonare in Italia, ma era troppo tardi, e rinunciai. Gianluca mi raccontò di aver conosciuto, la sera prima, al Four Seasons, Robert Duvall: "Romano, è uno dei più grossi personaggi che abbia mai incontrato! È un grande appassionato di musica latino americana, e ballerino di tango. Era appena tornato dall'Argentina dove sta lavorando a un nuovo movie ed era con il suo grande amico Nestor, italo-argentino e maestro ballerino. Incredibile o no? Ha veramente una gran classe." I Penguins non volevano riprendere il gioco. Minacciarono a gran gesti di andarsene, buttarono per terra uno degli arbitri, mostrarono il medio a tutto il Madison, ma alla fine gli toccò accettare la decisione, e la partita ricominciò da uno a zero per i Rangers. Il resto dell'incontro fu continuamente interrotto da insoliti, durissimi testa a testa da faida familiare mediterranea. Finì due a uno per i Penguins, con un gol in contropiede di Marione Lemieux e uno in mischia, all'ultimo minuto, del capellone boemo Jaromir Jagr. Mentre usciamo dal Madison, stavolta mischiati al popolo dei tifosi con le facce dipinte, le maglie dei Rangers e le mazze, Gianluca si ferma e lì, nel casino della gente che esce, in mezzo a un enorme corridoio, dice, urlando per farsi sentire: - Romano, volevo dirti che domani parto per Berlino. Ho preso un appuntamento per via dei sottomarini con una persona che, a quanto mi è stato riferito, ha avuto rapporti molto stretti con i servizi segreti della Germania Est, in passato. - Uno della Stasi. - Eh? Scusa Romano, non ho capito. - Della Stasi, la polizia segreta della DDR. - In effetti mi hanno riferito proprio un nome come codesto, e da quello che ho capito, questo signore doveva avere una posizione importante anche nellesercito, ai tempi del comunismo, forse era un colonnello, non lo so. Ecco, insomma, questo signore dice di avere notizie molto precise su uno stock di sottomarini diesel di produzione russa che erano della marina della Germania Est. Pare addirittura che uno sia nucleare! Romano, non so se mi spiego, nucleare! Con la confusione del cambio di regime, lui e altri suoi amici hanno fatto figurare che i sottomarini fossero stati affondati perché erano vecchi, ma in realtà, invece, li hanno nascosti, capito? - Sì? E dove li hanno nascosti, sottoterra? - No, Romano. Sembra che questi tre sottomarini siano stati portati in Finlandia e ormeggiati in un fiordo in attesa di qualcuno che li comprasse. La fonte di queste notizie è estremamente attendibile. Passano cantando dei giganteschi tifosi dei Penguins. Ci urtano. Avrei voglia di fare una bella cazzottata, con questi tori di Pittsburgh. Di offendere quelle maiale delle loro mamme, darne e prenderne tante, spaccarsi le nocche, sanguinare dal naso, rompere e rompersi le costole, urlare, offendersi, e poi fare la pace e bere birra gelata tutti insieme, incerottati e allegri, davanti alla televisione, in un bar col legno scuro alle pareti. - E chi è? - Romano, non te lo posso dire. Ho giurato su Dio e non te lo posso proprio dire. È una trading di Ginevra, comunque, anche se il socio principale è un italoamericano. Tra l'altro è il proprietario del palco da cui abbiamo visto il partitone, i biglietti me li ha dati lui. - Chi è? - Va bene, te lo dico, tanto magari lo conosci già. Si chiama Albert Colzone. - Mai sentito. - È uno che tratta con il Medio Oriente, uno grosso, molto grosso. Comunque stà sicuro che di cazzate non ne dice, anche perché se l'affare si fa, prenderà qualcosa anche lui. Non è che ti spiace, eh, Romano? Ho dovuto promettergli un 2% perché mi sembrava che fossimo un po' fermi con questo progetto, sentivo un po' di gelo da parte tua, almeno mi sembrava. Comunque non ti immagini neanche come ho fatto a contattare questo Colzone. Non so se te l'ho mai detto, ma è lo stesso che mi aveva offerto il red mercury, qualche tempo fa - Il mercurio rosso? Quello che usano per le testate nucleari dei missili? Quello radioattivo? Ma tu sei veramente pazzo! - Macchè radioattivo! Calmati Romano, non mi pare che tu sia ben informato. Il red mercury - mi sembra veramente impossibile che tu non lo sappia - è un particolare tipo di mercurio che serve per i normali interruttori di circuito elettrico, e non è assolutamente radioattivo. Questo per tranquillizzarti. Insomma, ti stavo dicendo che Colzone mi ha fatto il nome di questo suo amico tedesco, lo abbiamo chiamato e abbiamo organizzato subito un incontro. Naturalmente il tedesco mi ha detto subito che era già in trattativa con altri, che i sottomarini non sono tutti e tre liberi, ma io non la bevo. Secondo me gli è rimasto in mano il gobbo nero. - Capisco- rispondo. Perché non dovrebbe farlo, Gianluca, d'inseguire questa cosa dei sottomarini? Se può, perché non dovrebbe? E io, perché dovrei sconsigliarlo? - Io vado a vedere. Che ne dici? Faccio bene? Non credo di correre rischi. Ripeto, sono ben presentato. Mi sembra un'ottima cosa,- dico. Certo, potrebbe morire. Potrebbe essere l'ultima volta che lo vedo. Lo sapevo che saresti stato d'accordo. Ho pensato anche di portare la videocamera. Riprendo tutto e poi lo rivediamo, va bene? Così sarà come se ci fossi venuto anche te. - Vuoi fare delle riprese? - Sì, perché non dovrebbero farmele fare? Oh, a questo punto io per loro sono un cliente! No, non gli succederà nulla. - Capisco. - OK, - sbuffa - allora a questo punto ci si rivede al matrimonio del tuo fratellone, io non sto a tornare a New York. - Ah, sì. Il matrimonio di Fede, sabato. Sì, giusto. Va bene. - Romano, che hai? Non ti senti bene? Mi sembri strano. Comunque prima di andare ti volevo dire che oggi per me è stato un giorno importantissimo. Ho capito quale sarà il mio lavoro nel futuro. - Capisco. - Non me la sento più di passare la mia vita a vendere tessuti, Romano. Non so se mi puoi capire. Annuisco. Ci salutiamo abbracciandoci forte in quel corridoio pieno di bestie. Fuori dal Madison il cielo è limpido. Passa un camion dei pompieri, ululando, e quasi travolge una barbona ubriaca che urla e gesticola, in mezzo a Broadway. Due poliziotti corrono verso di lei, la prendono sotto le ascelle, la sollevano e la riportano sul marciapiede. È spiritata, vestita di stracci, ha i capelli grigi irti come chiodi. Mi avvicino. Sento che, improvvisamente calma, dice a uno dei poliziotti, con lamentosa vocina da bambina: - Toto, I have a feeling we are not in Kansas anymore. Mi giro verso Gianluca: - Bisogna che subito vada a dormire. Oggi è stata una giornata pesante, da Vietnam,- dico, e alzo la mano per chiamare un taxi. Gianluca accende una sigaretta, aspira. Gli esce fumo dalla bocca, dal naso, dalle orecchie, da tutte le parti. A casa, dopo una finale tiratissima, batto in cinque set Borg al Foro Italico. Panatta, Barazzutti, Bertolucci e Zugarelli mi portano in trionfo. Ocleppo e Cancellotti applaudono e cantano il mio nome. La Domenica Sportiva apre con un servizio su di me. |