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  e d o a r d o n e s i

 

ride con gli angeli
e
urotrash

 

…o quella volta che, ero ancora al mio primo anno di Harvard, a primavera, durante lo spring break, vennero a trovarmi il babbo e la mamma con Rebecca, e con una macchina a noleggio si andò verso Cape Cod e ci si fermò lungo la strada, mi pare a Hyannisport, o a Plymouth dove sbarcò il Mayflower dei Padri Pellegrini, non ricordo bene, comunque ci si fermò a mangiare l'aragosta in un posto da pescatori, con le tovaglie a quadri bianchi e rossi e delle vasche unte e gorgoglianti piene di aragoste nere giganti con i gommini alle chele, la mamma voleva mangiare per forza anche la polpa che sta dentro le chele e si era messa in testa di spaccarle con una specie di martellino che le avevano dato apposta, e batti e ribatti la chela si spezzò, ma la polpa dentro era quasi liquida e schizzò in faccia a Rebecca, e tutti si rise come pazzi, anche quelli degli altri tavoli, e Rebecca ci guardò negli occhi mentre pezzetti d'aragosta e liquidi intimi di crostaceo le scivolavano lenti giù dalla faccia e nessuno in quel momento, sono convinto e debbo confessare, riuscì a non pensare qualcosa di porno mentre la più bella ragazza del mondo di tutti i tempi, mia sorellina Rebecca, a quel tempo radiosamente diciottenne, volgeva intorno lo sguardo con la espressione di Ollio quando guarda in macchina dopo che Stanlio gli ha tirato una torta in faccia, o un secchio di vernice, o comunque gli ha combinato un malestro dei suoi.

Su e giù si andò per il New England, alle cinquantacinque miglia all'ora di legge perché il babbo voleva vedere il paesaggio, e aveva ragione. Gli alberi che bordeggiavano la strada erano via via delle più indistinguibili sfumature di giallo, verde, rosso, rosa. Le cortecce rigate degli aceri e di tutti gli altri alberi che non sapevamo riconoscere splendevano in una giornata straordinaria di una primavera anticipata che, a Newport, dove ci fermammo perché mio padre voleva vedere qualcosa che avesse a che fare con la Coppa America, aveva convinto molti a mettersi a torso nudo per andare su e giù per la passeggiata del Porto a vedere i panfili. E a lui, al grande Alva, in quella gloria, prese il sogno melvilliano di andare a Nantucket e ancora più in là fino a Martha's Vineyard, dove una nave avvista-balene ci avrebbe anche portati se la mamma e Rebecca non avessero obiettato per via del freddo, e io perché temevo mi venisse il mal di mare e vomitassi. Il babbo ci rimase male per via del niente balene, ma si fece uno shopping divertente, tutti erano di buon umore e la giornata andò a meraviglia. Anche il ritorno a Boston fu divertente, perché si cantò tutti in coro delle bellissime canzoni italiane commoventi, tra cui Luna di Gianni Togni, Mi ritorni in mente, e Figli delle Stelle di Alan Sorrenti. In albergo si fece una bella doccia e si cenò tutti insieme al ristorante del Four Seasons: io, il babbo, la mamma e Rebecca, tutti e quattro bellissimi, vestiti da gran sera, e al tavolo accanto avevamo Peter Gabriel, che è molto basso e mangiava da solo, in silenzio. La mamma e Rebecca ordinarono un soufflè al cioccolato buonissimo, squisito, fantastico, meraviglioso e mille altri aggettivi; e la serata si concluse con la mamma che raccontò simpaticamente di quando Teodoro, il nostro bassethound che poi morì affogato nella cisterna dell'acqua di un vicino, le rubò un sandalo da sera e lo sotterrò in giardino. Lei aveva cercato ovunque quel sandalo mancante, poi se n'era dimenticata e solo qualche mese dopo aveva capito l'arcano, quando aveva visto in giardino Teodoro (che da standard American Kennel Club era un cane di pelo bianco-arancio, gamba corta e ossatura pesante, ma allo stesso tempo capace di movimenti sciolti e privi di goffaggine, di carattere mite ma non timido, molto affettuoso con il padrone e amico dei bambini, incapace di mordere, piuttosto testardo, alto più o meno cm. 35 e pesante intorno ai kg. 21, adatto alla caccia in tana e allo scoperto e spesso impiegato per la caccia di volpi, lepri, opossum, fagiani) scrollare furiosamente la testa ringhiando, nel tentativo di soffocare a morte il suo aggraziato, infangato, carissimo sandalo da sera appena disseppellito.

Loro sarebbero ripartiti la mattina dopo, e li avrei rivisti solo a luglio, al mare, in tutt'altre circostanze. Nella hall dell'albergo ci abbracciammo strettamente, e tornai a Cambridge in metropolitana, con la testa piena e il cuore gonfio.

Sto tornando da Harvard, in una macchina a noleggio, in mezzo a una tempesta notturna di pioggia e vento causata da un tornado che, formatosi sulle Bermude, invece di schiantarsi sulla Florida si era diretto a nord, sfogandosi infantilmente in mare aperto a sollevare trombe marine giganti, stimate dai meteo-satelliti in quasi un miglio di diametro.

Quelli che mi flagellavano erano solo gli ultimi colpi di coda di questo isterico ciclone chiamato Frenesi. In televisione si vedevano tentacoli bianchi e sfilacciati che si muovevano a scatti, tentando di uncinare il Massachusetts. Quelle immagini erano però bastate a spingere la polizia a chiudere diverse entrate della Highway 1, che stavo percorrendo piano piano e quasi in solitudine verso New York, la mia città scintillante.

 

E ora una notizia davvero strabiliante dal vostro Dwight Braxton. Statemi bene a sentire, voi sull'autostrada, lupi nella tormenta: per dare un taglio all'importazione di bambole dalla Cina Rossa, che minaccia i poveri eurobambolai, il Consiglio dei ministri dell'Unione Europea ha fissato a 81.7 milioni di ECU il valore del contingente di "pupazzi non-umani" ammesso all'importazione nella Comunità. Ebbene, oggi, a Londra, un eurodoganiere ha bloccato alla frontiera migliaia di bambole del dottor Spock, il personaggio di Star Trek, quello con le orecchie a punta, perché Spock non è umano ma, udite udite, ve-nu-sia-no. E quindi le bambole sono state rispedite tutte indietro, a Bejing, Pechino, la città del massacro di piazza Tien-an-Menh, ve li ricordate di sicuro, tutti quei ragazzi in camicia schiacciati dai carrarmati degli Asiotrash, e a questo proposito vorrei dire un' altra cosa, anzi la urlo: Deng Xiaoping sei un assassino, la tua mammaccia fa i pompini agli shar-pei, e assassini come te sono tutti quelli che ci fanno affari, con te. Comunque dicevo che qui a New York la notizia è stata accolta con grande irritazione dai soci dello USA Star Trek Fan Club, e, proprio per dar voce a questa giusta indignazione, abbiamo in linea da San Francisco Roger Mayweather, il presidente del club:

"Buonasera presidente, che può dirci di questa euronotizia?"

"Che è un' euroingiustizia, Dwight. Protesteremo a tutti i livelli. Non è stata minimamente tenuta in considerazione l'origine terrestre della madre di Spock. Il visto d'entrata dovevano concederglielo senz'altro. Questo è razzismo."

"Proprio così, Roger. Anzi, roger, Roger. Non dimentichiamoci che in tutta Europa negli stadi di calcio fanno il verso della scimmia, sai, quel grazioso ‘Uh uh’, quando tocca la palla un giocatore di colore, un nigger come me. Comunque grazie presidente, e a presto. E ora, dedicato alla Comunità Europea, un eurodisco degli anni Ottanta: signore e signori, quell'euroidiota di Phil Collins in, giuro che sto per vomitare, SUSSUDIO!"

Ogni volta che prendo una macchina a noleggio, cambio modello. Stavolta ho scelto una Buick Roadmaster Estate Wagon, la più grande station wagon in produzione in America, bianca con le fiancate di legno, una macchina da grande famiglia, spaziosissima. Se ci fosse qualcuno con me, seduto o sdraiato in bauliera, si dovrebbe urlare per parlarsi, da quanto è immensa.

Mi chiama Gianluca Campani, il mio unico amico a New York, e dice che stasera andiamo a cena fuori, ha prenotato al Jour et Nuit. Ho ancora il telefonino in mano, e sto per spengerlo, quando uno con un impermeabile giallo attraversa la strada - e si lancia contro la macchina! Lo urto con il paraurti, pieno, e lui vola in avanti. Andavo a cinquanta miglia, forse sessanta. Atterra rimbalzando dieci metri più in là, in posizione fetale ma sempre sulla traiettoria della macchina, mi attacco ai freni ma capisco che non ce la faccio a fermarmi allora accelero e provo a sterzare ma faccio una cazzata perché la macchina perde aderenza, sbanda, e stavolta gli passo proprio sopra con la ruota anteriore destra. Sento dei rumori che non ho mai sentito prima, mentre gli spacco le ossa con la mia Buick a noleggio che pesa più di duemila chili, e altri rumori diversi, un po' più molli, quando gli passo sopra anche con la ruota posteriore. Mi fermo pochi metri dopo, in mezzo alla Highway 1. Madonna serpente, l'ho proprio stroncato nel mezzo. Non lo vedo nello specchietto, non si vede nulla in questo diluvio maledetto, e devo scendere. Chiudo tutti i ganci del mio giubbotto da pompiere, alzo il colletto di velluto, infilo i guanti, inspiro forte e apro lo sportello.

Scendo e giro intorno alla macchina. Lui è rappallottolato poco dietro la Buick, accanto gli scorrono i binari che la macchina si è aperta strisciando a ruote bloccate tra i rami d'albero, chicchi di grandine e rotolacampo che coprono l'asfalto. Sembra il personaggio di un cartone animato, l'investito, con quelle righe scure che gli scorrono accanto. Sembra Wile E.Coyote.

Il vento, misericordiosamente, si calma per un attimo. Il suicida ha addosso una pesante cerata gialla da velista che devono avergli dato in qualche shelter, dei pantaloni di flanella grossa, a quadri - che sia un grunge? - e degli chantilly blu lucidi da bambino. Non ci sono pozze di sangue. Continua a stare in posizione fetale e non si muove. Fa l'innocente. Invece non è che sei tanto innocente, nàcchero. Sei stato te a buttarti sotto la macchina, sia chiaro, ora non cominciamo a cercare l'effetto tristezza.

Lo prendo per i piedi e lo sposto fino al bordo della strada. Lo adagio nel pratone che costeggia l'autostrada, tagliato corto come un campo da calcio, poi risalgo in macchina e faccio retromarcia fino a una decina di metri dal punto dell'impatto, cosicchè un automobilista che arrivasse ora non vedrebbe ne me ne lui, ma solo una bella Buick ferma con i fari accesi. Spengo il motore e torno da lui, mi ci accoscio accanto, sull'erba bagnata. È sdraiato e immobile. Non mi accorgo se respira, ma a me il respiro si condensa, e a lui no. Il pratone sembra estendersi all'infinito. Tra le nuvole in corsa, ogni tanto riesco a vedere Venere, poco sopra l'orizzonte. Inspiro, espiro. D'improvviso, fà una specie di fortissimo colpo di tosse gorgogliante. Dalla paura scivolo, cado all'indietro, sbatto leggermente la nuca sull'erba bagnata. Provo subito a rialzarmi, ma scivolo ancora sull'erba fradicia, e ricado su un fianco.

- Che cazzo fai, imbecille! O testa di cazzo!- gli dico. Ora sono sdraiato accanto a lui, che non si muove, e ha il petto coperto di sangue. Deve aver fatto una boccata, un rigurgito. Fa schifo, è spacciato, schiattato. Ha tutti e due i polsi rotti, le mani torte a un angolo impossibile. Mi alzo lentamente, gli giro intorno. Pare morto, ma anche prima pareva morto e poi ha fatto quel verso orrendo. Forse in qualche modo respira. Ci vorrebbe uno specchio, e metterglielo vicino alla bocca. Ha il collo intriso di sangue. L'avrò tracheotomizzato con la Buick, con la precisione di un microtomo? Non è ancora arrivato nessuno. Con la pioggia che c'è, vedo appena la macchina. I fari. Se qualcuno vede i fari magari crede che ho bisogno d'aiuto e allora si ferma. Questi americani del cazzo vorrebbero sempre aiutare, è una cosa incredibile, fatevi i cazzi vostri, invece. Torno in macchina e li spengo. Sul sedile del passeggero e su quelli dietro sono accatastate le mie borse di pelle, il computer portatile: le mie cose, che mi appartengono e io appartengo a loro. La macchina è calda, ha i sedili di similpelle beige, c'è luce, il motore è acceso ma si sente appena, il fumo-vapore dello scappamento entra nell'abitacolo e mi avvolge in un prodigioso spirito di Natale.

Vorrei essere confortato. Vorrei essere a una festa. Vorrei camini di pietra, arrosti di selvaggina, whisky a piena gradazione, regali infiocchettati di rosso, maglioni di cashmere a trecce, Bono e Sinatra che cantano insieme, film commoventi, caldarroste, una fetta triangolare di torta di mele, caffè lungo.

Non arriverà nessuno, e io sto per scappare, per lasciar lì quell'imbecille sbucato fuori dalla pioggia apposta per rovinarmi la vita, per mandarmi in prigione, ma io la vita non me la faccio rovinare, né da lui né da un altro. Ci fosse verso, pur di nasconderlo lo seppellirei anche, ma non ho la pala. Esco ancora una volta nella tempesta magnetica per vedere come sta lo sciagurato, se magari è migliorato miracolosamente. Potrebbe avere un istantaneo potere di autoguarigione come Wolverine, il mutante canadese con gli artigli di adamantio; o essere un haitiano del voodoo, uno da bambola e spillone, invulnerabile e in contatto continuo con lo spirito di Papa Doc. Invece stà lì immobile, non geme, non mugola, non fa nulla. La pioggia gli ha schiacciato i capelli sulla testa, e vedo che è macchiato di sangue anche lì.

Mi viene in mente che se questa pioggia fosse neve, e lo ricoprisse, nessuno potrebbe mai collegare me con un cadavere che dopo qualche mese, coi primi caldi, spunta fuori accanto alla Highway 1, in un prataccio incolto adattissimo al calcio, a metà del tratto autostradale tra Boston e NYC. I serial killer, quelli organizzati, quelli bravi davvero, lo fanno spesso di ammazzare la gente quando nevica, così i corpi rimangono sepolti sotto la neve e non c'è più verso di risalire alla data dell'omicidio. Quelli più esperti e capaci, poi, mozzano alla vittima testa e mani e li vanno a seppellire in un altro posto, a volte anche in un altro stato, perché da un torso è molto difficile risalire a un nome, mentre i denti e le impronte digitali sono invece di grande aiuto agli investigatori.

Lo guardo bene in faccia. Deve essere una specie di messicano o filippino o portoricano, non è negro, quindi niente Haiti, niente voodoo. Ha i baffi fini, radi, sembra giovane, anche se metà della faccia è coperta di sangue e sbraciolata malamente.

E per questo quì, penso, per questo cubano o portoricano o messicano, di certo immigrato clandestinamente, per un balsero arrivato a Miami facendo lo slalom tra gli squali bianchi, per un homeless senza famiglia né nulla, per uno venuto a cercar fortuna nella terra delle opportunità con un ritardo di cinquant'anni, per uno stronzo di ottimista, io dovrei andare in galera? Perché in attesa del processo mi ci manderebbero di sicuro, c'è poco da fare. Scoprirebbero dai tabulati dell’AT&T che al momento dell'impatto avevo il telefonino in mano, ci sarebbe un processo pubblico con accuse di razzismo, titoli confusi sui tabloid tipo "Yuppie multimediale investe profugo cubano mentre prenota costoso ristorante a Soho", e via in cella con gli ergastolani negri in un carcere di massima sicurezza. Quelli mi inculerebbero già la prima sera, quattro mi tengono e uno mi pompa, mi attaccherebbero l'AIDS e diventerei un caso umano, un ospite televisivo con le macchie sulla faccia e un doloroso passato da raccontare, ma che strana parabola, ci dica, ci dica.

- E allora tu mi vuoi mandare in galera, eh?- gli dico. E come Rambo, John J., quando in Rambo prende per il bavero il cadavere del poliziotto ciccione con i baffi, anch'io porto il mio mezzo morto a pochi centimetri dalla faccia e lo guardo fisso, pieno di una furia giusta ma, devo dire, un po' sorprendente, visto che dopotutto gli sono passato sopra con la macchina. Lo scuoto senza dire nulla, mugolando, e digrigno i denti perché non capisco un cazzo e sono furioso e terrorizzato e sto per esplodere. Lui allora fa un lungo gemito da bestia morente, gli esce dell'altro sangue dall'angolo sinistro della bocca e vedo che nell'impatto gli si sono rotti tutti i denti. Era meglio, molto meglio per lui se stasera rimaneva a casa, o dove cazzo vive.

Mentre continuo a tenerlo per il bavero e a scuoterlo, gli dico:

- Come stai, imbecille! Dimmi come stai! Forza!

Dà un altro colpo di tosse e vomita, ancora, della roba scura che non si capisce bene se è sangue o roba che ha mangiato. Gli dò una spinta per non farmi vomitare addosso e lui va giù all'indietro, lentamente. Cadendo sbatte la testa sull'erba, fa un rumore attutito, gentile, e rimane lì.

- Che cazzo fai, imbecille! Ora basta, mi hai rotto il cazzo, stronzo!- gli dico alzandomi in piedi e puntandogli contro l'indice destro, furioso, grondante. Balbetto, mi mancano le parole.

- Io non c'-c'entro nulla con que-questa tua morte bischera, capito?- urlo, e vado deciso, a passi lunghi, verso la Buick.

Dopo pochi passi il suicida cubano è una macchia gialla nella pioggia, nel mar dei Caraibi che si rovescia sul New England e oscura tutto, e quando arrivo alla macchina non lo vedo già più giacere in questo pratone, stroncato dalla mia Buick e dalle sue non-quattroruotemotrici, dal suo non-ABS, dal suo non-antipattinamento. È bell'e scomparso, il cubano. Mi appoggio coi gomiti al tetto della macchina e, anche sforzandomi, anche strizzando gli occhi nella pioggia, davvero non lo vedo più. È scomparso? È diventato spirito ed è asceso al cielo? È in Paradiso, ora, con gli angeli i santi e voi fratelli? Nel vento che rinforza, gli urlo di ricordarsi bene com'è andata tutta la storia, e di non provarci neanche, ad apparirmi in sogno.

Entro in macchina, accendo il motore, metto il riscaldamento al massimo. Mi guardo il giubbotto, i pantaloni, le scarpe. Sono intrisi d'acqua ma, incredibilmente, non mi sono macchiato né di sangue né di vomito. Inspiro a fondo, espiro.

E allora decido di scendere, caricarmelo sulle spalle, infilarlo in bauliera, correre fino all'ospedale più vicino col clacson a distesa, le quattro frecce accese, il fazzoletto agitato fuori dal finestrino; una volta lì assento persino a dargli il mio prezioso sangue 0 negativo da donatore universale, voglio salvargli la vita, al cubano, aspettare il suo risveglio e farmi fotografare insieme a lui con la Polaroid di un infermiere, tutti e due con i camici bianchi, sorridenti, a pollice ritto.

Accendo la radio e c'è Billy Joel, Leave a tender moment alone. La canzone cresce, tocca il suo momento più commovente, poi finisce.

 

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