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NUOVO TEATRO |
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Il nuovo teatro italiano 1975-1988
La ricerca dei gruppi: materiali e documenti
di Oliviero Ponte di Pino
La casa Usher, Firenze, 1988
© copyright Oliviero Ponte di Pino, 1999Parte 3
L’insostenibile leggerezza del teatro
LA GAIA SCIENZA
COMPAGNIA SOLARI-VANZI
COMPAGNIA GIORGIO BARBERIO CORSETTI
Una grande sensazione di leggerezza. La pratica di una possibile libertà, fatta di ironia e piacere della scoperta, di trasgressioni e di acrobazie. Un flusso di sensazioni e impressioni in cui si dissolvono gli attori-danzatori e lo spazio in cui si muovono, e che li muove. Un contagio che attraversa la materia: dai corpi degli attori a quelli degli spettatori, passando per gli oggetti e il luogo con cui entrano in contatto. Un dissolversi di sollecitazioni e di centri d’attenzione, nel rifiuto di ogni gerarchia della percezione. Una vitalistica voracità nel bruciare le tappe del proprio lavoro. Una morbida velocità nel percorrere esperienze e atteggiamenti.
Queste le emozioni che hanno trasmesso gli spettacoli della Gaia Scienza: belli senza neppure la necessità di essere dannati, Giorgio, Marco e Alessandra (senza dimenticare tutti gli altri collaboratori) hanno costruito e restituito l’immagine di una generazione ansiosa di scoprire se stessa entrando in rapporto con il mondo: da una parte il panorama del moderno, lo scenario della metropoli di cui appropriarsi; dall’altra la dialettica tra natura e artificio, tra interno e esterno come limite su cui misurarsi. La storia della Gaia Scienza è stata anche la storia di una scoperta di sé e del mondo, in cui dissipare un eccesso di energia apparentemente inesauribile.
Dietro a tutto questo c’era l’esplosione di una soggettività forse esasperata, ma certamente pronta a negarsi, per dissolversi nel gusto della spettacolarizzazione di sé e in un processo di creazione e comunicazione collettivo, comunitario; per disperdersi in una interiorizzazione dell’oggetto e dell’"altro" che approda, paradossalmente, a un processo di fusione panica con il mondo: un mondo con le sue leggi, le sue forme, le sue coazioni, che è tuttavia possibile negare, attraversare, ridefinire.
Punto d’arrivo di questo processo è stato Cuori strappati, dove queste esperienze - generalmente testimoniate in precedenza da brucianti spettacoli-performance - hanno toccato il livello più alto di formalizzazione. Non a caso proprio questo spettacolo segna la fine della Gaia Scienza, con la scissione in due tronconi del nucleo fondatore. Da allora, Giorgio Barberio Corsetti si è impegnato a definire una propria poetica d’autore, che si è concretizzata finora in una autoanalisi onirica e simbolica, venata di ironico intimismo: suoi terreni ideali di sperimentazione, da una parte le videoinstallazioni di Studio Azzurro, dall’altra l’esperienza letteraria. Marco Solari e Alessandra Vanzi si sono invece coraggiosamente avventurati nel recupero di un itinerario esistenziale e di un percorso personale in forme più scopertamente narrative. Nei due casi, un processo di crescita artistica che mette a frutto, senza rinnegarla, l’esperienza della Gaia Scienza, portando di volta in volta in primo piano questo o quell’aspetto dei mondi che il gruppo romano è stato capace di creare.
CONVERSAZIONE CON MARCO SOLARI E ALESSANDRA VANZI
Quando avete iniziato a fare teatro, è stato per disperazione o per eccesso di gioia di vivere?
A. V: Per eccesso di gioia di vivere. La disperazione arriva quando si è più maturi, per fortuna. Abbiamo iniziato in un modo particolare. Abbiamo conosciuto, su un treno che andava a Venezia, Giorgio Barberio Corsetti. Andavamo tutti e tre alla Biennale: Giorgio voleva vedere soprattutto il Living Theatre; noi, io e Marco, soprattutto Grotowski. Chiacchierando tutta la notte, siamo arrivati a Venezia. Degli amici di Giorgio ci hanno ospitato, e i giorni seguenti ci siamo sparsi per la città a vedere gli spettacoli; poi, per pura coincidenza, siamo stati scelti tutti e tre da Grotowski per un seminario. Dopo questa parentesi, quando siamo ritornati a Roma, ci siamo ritrovati; Giorgio non aveva casa e l’abbiamo ospitato. Abbiamo vissuto insieme per un anno, durante il quale abbiamo cominciato a pensare al primo spettacolo, facendo un lavoro di gruppo; era quello che poi divenne La rivolta degli oggetti. C’era il testo di Majakovskij, su cui eravamo assolutamente liberi di intervenire; non ci eravamo neppure distribuite le parti: era uno spettacolo che sera dopo sera era passibile di continue improvvisazioni. Ci siamo poi allargati e ristretti, abbiamo collaborato con altre persone, qualche volta con pittori amici nostri, a volte con musicisti, a volte con altri attori.
Questa esigenza di chiamare sulla scena dei "non attori", per esempio pittori e musicisti, da cosa dipendeva?
M.S.: Funziona in realtà anche oggi, perché la tradizione teatrale è comunque faticosa e spesso le persone più valide si trovano nei punti di confine.
In che senso?
M.S.: Per esempio, gli attori che escono dall’Accademia nazionale d’arte drammatica, tranne rare eccezioni, sono impostati in modo tale per cui è difficile stabilire un linguaggio comune: e questo proprio perché il nostro linguaggio ridefinisce ogni volta i confini del teatro, e quindi dello spettacolo. Così, ad esempio, nel lavoro che stiamo facendo ora, A sangue freddo, c’è un attore danese che è prima di tutto un pittore, ed anche musicista, mentre in Danimarca era un performer: quindi senza una formazione tradizionale d’attore. L’altro performer dello spettacolo è un percussionista...
Quindi ci sono due aspetti. Da una parte la difficoltà di entrare in rapporto creativo con persone formate per lavorare in teatro. Dall’altra la necessità di usare persone che possano sfondare il confine del teatro.
M.S.: Si tratta di trovare sempre persone duttili e aperte, che abbiano un’esperienza non relativa solo al palcoscenico tradizionalmente inteso. Si è formato una sorta di stile, o di scuola, dei gruppi. All’interno della dinamica di mercato, di queste logiche particolari, i gruppi si configurano come monadi, come unità: ma mi piacerebbe molto lavorare con attori di altri gruppi; mi attira la capacità di alcuni di spaziare da una cosa all’altra. Ad esempio, mi piace moltissimo Sandro Lombardi, perché è attore e nello stesso tempo cura le colonne sonore, ed è anche un performer; non è soltanto un interprete, anzi non lo è affatto, perché gioca nel suo modo specifico. Insomma, è un artista. Mi sembra che la nostra caratteristica, comune anche ad altri gruppi, sia quella di elaborare uno stile particolare con tutti gli attori e gli artisti.
E che ne pensate della divisione dei ruoli professionali?
M.S.: Tutto il male possibile. Considero un ottimo esempio Stefano Pirandello, che ha fatto le luci per A sangue freddo e, nello stesso tempo, ha fatto uno spettacolo firmandolo come regista, insieme a Guidarello Pontani.
A.V: Più c’è mobilità, meglio è.
Torniamo alla Gaia Scienza: cosa vi resta, oggi di quella lunga esperienza?
A.V: Ci restano tantissime cose su cui seguitiamo a lavorare: un’idea di spazio nel teatro, un’idea di movimento, un’idea pittorica, oppure, se si vuole, poetica, del teatro. Il lavoro che è stato cominciato in quel periodo non è mai cambiato, si è soltanto evoluto. In questi ultimi anni abbiamo introdotto la parola: ma questo non ha modificato la struttura degli spettacoli, il testo non è diventato centrale. Quando si comincia a provare, non si parte dal testo, assolutamente. Nell’ultimo spettacolo, quando ci siamo messi a lavorare, io scrivevo i testi e Marco lavorava sulla scena: però io ho scritto i testi già in funzione della scansione delle scene che lui mi sottoponeva. Questo metodo, lavorare contemporaneamente sui diversi elementi, ha una sua continuità, dagli esordi fino a ora.
Credo che invece sia cambiato l’atteggiamento esistenziale, dagli spettacoli della Gaia scienza a oggi.
A.V: Ho avuto di recente, a questo proposito, una discussione con Nico Garrone, che mi diceva che A sangue freddo era bello ma privo di leggerezza. Secondo me non è vero. Anzi: non è sicuramente uno spettacolo leggero, d’accordo, è uno spettacolo molto violento; pure, è messo in scena con una certa leggerezza rispetto all’enorme violenza che potrebbe contenere in sé. Noi eravamo definiti la generazione del "Pane e le rose" o, alla Fitzgerald, la gioventù bruciata e dorata insieme...
Anche i vostri spettacoli trasmettono una sensazione di libertà; o per lo meno comunicano un grande desiderio di libertà.
A.V: Secondo me questo desiderio di libertà c’è ancora tutto: ma è come se avesse incrociato una realtà sempre meno libera, sempre più cupa e pesante. Quindi è assolutamente spontaneo che, nell’attraversamento di questa realtà, la nostra leggerezza si sia impregnata di qualcos’altro, di qualche deviazione. E un po’ come venire allo scoperto.
E farsi carico di quello che incontri.
A. V: Esatto. Scrivo, e a un certo punto mi rendo conto che quello che scrivo viene così perché non riesco a non scrivere quello che sento. E quello che sento è proprio la strada. Non viene fuori dai salotti, né da qualche teorizzazione: è proprio una sensazione sulla pelle di quello che c’è nella strada. Abbiamo fatto, in qualche modo, un teatro generazionale: facevamo teatro nel ’77, quando quasi tutti facevano gli scontri... Rispetto a Giorgio, secondo me, noi questo teatro generazionale seguitiamo a farlo, lui un po’ meno. Credo che la distanza che si è creata a un certo punto fra noi e Giorgio dipenda da questo diverso rapporto con la realtà.
Giorgio si è spostato in una dimensione più personale.
A.V: È andato verso una dimensione intima e va benissimo, lui descrive quella. Io non riesco più a descriverla, nel momento in cui la mia dimensione intima è talmente toccata dalla dimensione esterna...
Nei vostri spettacoli è sempre stata presente la dimensione dell’incontro con la città, che veniva anche da questa esperienza generazionale molto precisa.
A.V: Per me la città è la fonte assoluta di ispirazione. È come una dimensione dello sguardo. Penso di me stessa che facilmente potrei essere preda della città. Potrei addirittura non avere più una casa e vivere completamente per strada. È come muoversi su un filo. La città è bella. La città è brutta. La città è accogliente o meno... Comunque sia, quando si esce nella città si ha una sensazione di perdita da una parte e di entrare in una dimensione di insieme dall’altra: questo significa sentirsi parte di un tutto. Che sia bello o meno non importa, vuoi dire comunque prendere il passo: il passo del traffico, quello delle macchine, degli autobus, degli ubriachi, degli sguardi, di chicchessia...
M.S.: La città è strana nel momento in cui diventa come un interno. Cammini per strada, ti fermi a guardare delle persone esattamente come, dentro una casa, ti fermi su una poltrona piuttosto che su un’altra, o su un letto, e allora guardi delle cose, leggi, fai quello che vuoi. Dopo un po’ ti senti un turista: giri una città, l’attraversi, ti fermi nei punti più imprevisti, alle ore che vuoi, esattamente come a casa tua. Altre volte invece senti la città come qualcosa di assolutamente estraneo e nel momento in cui ti senti estraneo, ti senti ugualmente come un turista e ti comporti di conseguenza con la stessa libertà. Questa è la dimensione che sto vivendo in questo momento rispetto alla città.
Credo che all’inizio ci sia stata una fase di scoperta e appropriazione della città nella dimensione delle performance. Mentre negli spettacoli successivi si trattava della reinvenzione fantastica della città. E ora, a che punto siete?
M.S.: La città non è più il soggetto dello spettacolo; nell’ultimo lavoro il soggetto sono dei soggetti, cioè delle persone, o dei nodi esistenziali, culturali, degli atteggiamenti o dei temi. Cuori strappati e Notturni diamanti erano dimensioni di città molto raccolte, compresse, autodeterminate, che poggiavano su se stesse. Ma già Notturni diamanti rimandava a qualcos’altro. Da quel momento in poi queste dimensioni diventano ancora più estese. L’anno scorso abbiamo fatto Racconti inquieti, prima a Santarcangelo e poi in una versione completamente diversa a Roma: lì c’era solo un frammento di città, non si dava la totalità della città, ma soltanto un punto di incontro...
A.V.: ...da dove si seguivano alcuni personaggi più o meno metropolitani, che vivono comunque la città.
M.S.: Mentre i personaggi di A sangue freddo, che noi individuiamo come metropolitani, erano originariamente degli sbandati provenienti dalla campagna. Ultimamente ci stiamo interessando alla cronaca, nel tentativo di creare non una mitologia, ma una sorta di esemplarità tragica. A sangue freddo non è altro che una tragedia moderna.
Prima avete parlato di teatro generazionale: in che rapporto vi sentite con la vostra generazione?
A. V: E un rapporto più difficile, adesso che siamo tra i trenta e i quaranta. È il periodo forse cruciale della vita, nel quale tutti devono lavorare e guadagnare, alcuni si sposano, qualcuno comincia a fare figli; è un periodo in cui ci si confronta con la concretezza brutale della realtà, dei rapporti di forza, di potere, di necessità. Devo dire che io mi trovo molto male, veramente molto male, anche con molti compagni di viaggio, perché siamo tutti messi alle strette da questa condizione scomoda di doversi pagare la vita, per cui non si bada più a nulla. Inoltre la nostra generazione è stata "spettacolarizzata", tant’è vero che molti di noi vivono facendo spettacolo di se stessi: chi lavora nelle radio, chi nel cinema, nelle televisioni, nel giornalismo o nella politica. Mi trovo male nel momento in cui faccio delle scelte dure, senza concedere nulla a questa ridondanza dell’immagine, dei salotti e delle conversazioni, che mi soffoca. Allora preferisco la città bruta, dove non conosco nessuno.
Ho paura che la mia generazione sia ormai immobilizzata, che non sappia più difendere le cose che pensava. Il sistema ha vinto: in questo momento accuso il colpo della terribile vittoria del sistema che abbiamo combattuto fino all’ultimo sangue. Certo, combattiamo ancora, bisogna farlo "a sangue freddo" e sempre più duramente. Ma siamo sempre in meno a farlo.
M.S.: La nostra generazione si era posta come antagonista rispetto al sistema di potere dominante tradizionale: ma mi sembra che adesso soffra della mancanza di strumenti ideologici e politici per affrontare la nuova situazione.
La Gaia Scienza è stato l’unico gruppo nato e sopravvissuto a Roma in quegli anni.
M.S.: Secondo me è casuale, non si può teorizzarlo. Certo, si possono anche fare teorizzazioni: per esempio, veniamo tutti da una certa borghesia più o meno in decadenza e questo potrebbe essere un motivo sociologico; ci siamo trovati in una situazione particolare come quella del Beat 72, con Simone Carella, che ha contribuito non poco alla nostra formazione; in più ci sono i caratteri, le sensibilità, che per dieci anni hanno funzionato. Con Giorgio, nonostante i contrasti estetici, politici, caratteriali, è comunque rimasta un’intesa: quando si andava in scena, queste cose scomparivano o comunque venivano risolte a livello artistico.
E cosa avete preso dalla generazione precedente, in particolare dal Beat 72?
M.S.: Abbiamo preso molto da Simone, che al Beat 72 svolgeva il ruolo non soltanto di direttore artistico, ma dava consigli, era portatore di un’ideologia precisa. Non è stato soltanto un artista ma anche un teorico, e questo ha formato molti giovani, tra cui noi.
A. V: Per esempio, io non ho fatto un solo spettacolo che non sia stato visto da Simone Carella la sera prima del debutto. Veniva e diceva si o no.
E se diceva sì, cosa succedeva?
A.V: Andava bene... Quando diceva no, non era mai arido, ci ha aiutato moltissimo. Quando abbiamo fatto Cronache marziane, la sera prima del debutto eravamo nei guai per il montaggio dello spettacolo: avevamo tutti i pezzi ma non sapevamo come montarli. È arrivato Simone ed è stato con noi tutta la notte: ha messo le musiche, ha cambiato l’ordine dei pezzi e ha montato lo spettacolo. Era come avere un supervisore, una persona di cui ti puoi fidare al cento per cento, perché sai che comunque sia, al di là del rapporto personale, ama molto lo spettacolo in sé e ti dà una mano.
Dal punto di vista ideologico, cosa è passato e cosa è rimasto?
M.S.: Più che una ideologia, si tratta di un atteggiamento rispetto alle cose: non avere mai paura né del pieno né del vuoto. Un tempo la cosa da sconfiggere era la paura del vuoto. Il primo periodo, quello delle performance della Gaia scienza, era tutto sul vuoto: sconfiggere la paura del vuoto. Questa era appunto l’indicazione americana, di John Cage.
A.V.: Riuscire a lavorare per il piacere di lavorare: è una cosa fondamentale, è importantissimo divertirsi in scena, è come essere atleti, o pittori.
M.S.: E anche l’atteggiamento laico di fronte alle cose: un atteggiamento, rispetto allo spettacolo in sé e al teatro in generale, non sacrale, ma neppure ridanciano. Perciò, prendersi sul serio, ma nello stesso tempo ironizzare.
A.V.: Conoscere il valore di una cosa e contemporaneamente il suo esatto contrario. Questo non vuoi dire che non dai il cento per cento, anzi, vuoi dire che sei talmente nudo da renderti disponibile a essere un pieno e un vuoto: sei un atleta che in quel momento si misura con quello che sta facendo e con gli altri con cui lo sta facendo. Per questo è un problema lavorare con attori usciti dall’accademia o con attori tradizionali, formati in un certo modo, che pensano che il massimo sia interpretare un dato ruolo.
M.S.: Rispetto al passato, a parte l’incontro con Giorgio, come punti di riferimento abbiamo avuto da una parte Simone e dall’altra Grotowski: due persone assolutamente diverse.
Grotowski ha molto giocato sulla ritualità e sulla sacralità.
A.V: Ma proprio perché ci giocava era assolutamente lucido. È una persona che ha molta più ironia di quello che sembra all’inizio.
Anche voi avete, per vostra fortuna, una forte carica di ironia.
A.V: Senza ironia non si fa nulla, non si sopravvive.
M.S.: È una difesa.
A.V: E un’arma che va continuamente affilata, perché altrimenti è la fine dei liberi pensatori; d’altra parte, penso che il nostro mestiere sia proprio quello del libero pensatore. E se oggi ciò che sta succedendo nel teatro italiano è chiudere ogni spazio a qualsiasi libero pensatore, penso che potrà andarci male per un anno, due anni, che cambieranno le fasi politiche; ma, comunque sia, alla fine il libero pensatore ha un suo ruolo che deve rimanere tale.
Quindi si tratta di investire sul futuro.
M.S.: Sì, ancora una volta. È inevitabile.
A.V: Si tratta di esistere per quello che si è. Puoi fare spettacoli, possono non farteli fare, possono andare bene, possono andare male. Noi due ne avremo fatti, tra performance e spettacoli, almeno venti. C’è dentro tutto: va male, va bene, c’è pubblico o non ce n’è, sei nel posto più bello del mondo, sei in quello più brutto, non importa. Il punto è che non importa.
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