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NUOVO TEATRO |
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MILANO. Come nel nuovo romanzo di Douglas Coupland, anche nel Rappresentante di Joe O’ Connor (irlandese, classe 1963, nonché fratello della rock star Sinead, al suo attivo tra l’altro due libri tradotti da Einaudi, I veri credenti e Cowboy e indiani) c’è una ragazza in coma. Si chiama Maeve ed è rimasta vittima di una tentata rapina nella stazione di benzina dove lavorava, a Dublino. Nel corso del processo uno degli aggressori, Donald Quinn, riesce a scappare. Billy Sweeney, il padre della ragazza, quarantanovenne un po’ imbolsito che si guadagna da vivere vendendo antenne paraboliche, decide di farsi giustizia da solo: cercherà Quinn, lo troverà e l’ammazzerà.
Il rappresentante (pubblicato da Guanda nella traduzione di Eva Kampmann, 380 pagine, 28.000 lire) è il diario che Sweeney scrive mentre organizza la sua vendetta, pensando che forse un giorno – se mai si sveglierà – sua figlia Maeve potrà leggerlo. Insomma, anche se la forza del libro è l’attenta – e spesso coinvolgente – analisi psicologica del protagonista, la sua struggente autobiografia di uomo (e maschio) mediamente fallimentare, il punto di partenza e il tono sono quelli del più classico dei thriller, anche se la tradizione delle storie di vendetta è molto più antica…Mi piace molto il titolo italiano, perché il termine “rappresentante” coglie il cuore del libro. Ritengo che Billy rappresenti l’Irlanda, dove la vendetta è una specie di sport nazionale. Volevo scrivere un libro sui processi mentali e spirituali con cui pensiamo alla vendetta, e come ci cambia. Nelle storie di vendetta che incontriamo in televisione, al cinema o nei romanzi, c’è un aspetto che mi lascia sempre insoddisfatto. Perché posso capire benissimo le emozioni di chi vede una persona cara colpita e che desidera vendicarsi, desidera uccidere. Ma sono convinto che 99 persone su cento, se si ritrovassero con una pistola in mano e la possibilità di farsi giustizia, non lo farebbero. Non ne sarebbero capaci. Ecco, la domanda a cui ho voluto rispondere è proprio questa: che cosa succede, quando hai rinunciato alla vendetta? Come procede la storia? Non ho mai letto un libro che mi raccontasse questa parte della storia.
Quindi Il rappresentante non è un romanzo sulla vendetta. È anche un romanzo sul perdono?
Ho affrontato diverse domande sul perdono. In Irlanda veniamo quasi tutti educati nel cliché cattolico: “perdona i tuoi nemici”, “porgi l’altra guancia” eccetera. Ovviamente non lo fa nessuno. Allora mi sono chiesto: è possibile perdonare? Poi: è una buona idea perdonare i nemici? Come dice Billy, nessun animale perdona il proprio nemico. E ancora: il perdono, che effetto ha su di te?
Per certi aspetti le scelte di Billy sono dovute alla sua debolezza.
Ma la sua debolezza, alla fine, è la sua forza. Billy mente a se stesso, si convince che vuole vendicare Maeve, mentre vuole vendicarsi del fatto di essersi rovinato la vita con le proprie mani. A cominciare dal suo rapporto con Grace, la donna della sua vita. Lei lo rimprovera: ogni volta che deve comportarsi da uomo, non lo fa mai. Quando decide di ammazzare Quinn, Billy vuole semplicemente negare tutta la sua vita. Da sempre combatte le battaglie sbagliate – un altro atteggiamento tipicamente irlandese… Alla fine, forse, Billy deve perdonare davvero una sola persona: se stesso.
Il rappresentante è anche un romanzo sull’Irlanda… Ci sono i panorami, i quartieri e i sobborghi di Dublino, Billy e Quinn sono due irlandesi doc…
L’Irlanda è cambiata più in questi ultimi dieci anni che nei cinquant’anni precedenti. È la società dell’Europa occidentale che si sta trasformando più in fretta. Ma nei nostri processi mentali noi irlandesi continuiamo a pensare ai “nemici”. Il mio romanzo è una sorta di metafora della situazione attuale. All’inizio, nelle parole di Billy, Quinn è diabolico, lo vive come il suo esatto opposto. Poi, pian piano e con molto disagio, scopre di avere molto in comune con lui. Quinn è stato tossico, Billy un alcolizzato, ma se fosse nato vent’anni dopo si sarebbe fatto anche lui di eroina. È una debolezza che li accomuna. Hanno un senso dell’umorismo piuttosto simile, sono ottimi parlatori, e in diversi momenti emerge la loro abilità di venditori. Quinn è un ottimo venditore, anche di se stesso (per esempio quando racconta la sua versione della rapina). Per certi aspetti è un venditore più bravo di Billy. Capiscono di non essere del tutto differenti. Devono affrontare lo stesso problema dell’Irlanda. Al di là dei negoziati politici, al di là del cessate il fuoco – che non è la pace ma l’assenza di violenza – l’unica via d’uscita consiste in 100.000 atti di perdono individuale, quel tipo di gesto che Billy all’inizio della sua storia non può compiere. Il mio è un romanzo, ma nasce in un contesto dove ci sono molte vicende di questo genere, con lo stesso paesaggio emotivo. Molte persone dovranno accettare il fatto che l’uomo che ha ucciso il loro figlio verrà liberato dalla prigione, e potranno incontrarlo quotidianamente. Oggi quella di Billy sembra una storia strana, ma tra dieci anni faranno dei documentari che racconteranno vicende analoghe.
Come scrittore, hai scelto dei temi forti come il significato morale del perdono e l’impegno civile nei confronti del tuo paese, accollandoti una grande responsabilità. È per questo che hai scelto di fare lo scrittore?
Mi interessa discutere del romanzo su questi piani, ma voglio anche che lo leggano quelli che comprano un libro in un aeroporto per leggersi una bella storia, e poi lo buttano via. Non mi sento superiore a nessun lettore. La mia sfida è stata scrivere un romanzo con obiettivi seri, ma che racconta una storia che ti inchioda fino all’ultima pagina. Come molti altri giovani scrittori irlandesi, sto cercando di rompere le barriere tra la letteratura alta e la letteratura d’intrattenimento, di genere. Sarà poi il lettore a scegliere il proprio livello di lettura. Insomma, voglio raccontare delle belle storie ma penso anche al mio lavoro in termini politici. I romanzi, secondo me, servono a cambiare il mondo. Sono convinto il mondo si cambi radicalmente a partire dalle piccole cose: la percezione che la gente ha dei rapporti interpersonali, o le convinzioni ideologiche, o l’idea della religione… Naturalmente ho le mie idee politiche, so benissimo da che parte sto, ma sono convinto che l’arte operi trasformazioni molto più profonde, che sia più efficace degli slogan politici.
Dunque speri che, come la vicenda che racconti cambia i suoi protagonisti, così la sua lettura possa cambiare i lettori.
È impossibile penetrare nel cuore delle persone. L’unica cosa che posso dire è che a me è capitato. Alcuni dei cambiamenti più profondi della mia vita sono il frutto della lettura di un romanzo.
Quali libri ti hanno cambiato?
Il giovane Holden di Salinger, lo rileggo una volta l’anno, e tutte le volte mi cambia. Naturalmente Joyce e Wilde... Anche Richard Ford e Raymond Carver sono grandi scrittori. Leggendoli entri in una sorta di comunità mondiale. Credo l’abbia detto C.S. Lewis: l’unica ragione per cui leggiamo, è per sapere che non siamo soli. È già moltissimo: crea un senso di solidarietà, perché qualcuno ha pensato a un’esperienza che riflette i miei stessi problemi. È un gesto politico. È il contrario della posizione thatcheriana in base alla quale la società non esiste. La fiction può esistere solo perché esiste una comunità mondiale di persone che hanno fatto le stesse esperienze.
Bill Sweeney scrive il suo diario per un lettore piuttosto difficile: una ragazza in coma.
Sì, per una persona che non l’ascolta… Forse è la paura inconscia di tutti i romanzieri. Nel Rappresentante dovevo evitare è il classico lieto fine hollywoodiano, con la ragazza che alla fine si sveglia: “Papà, ti amo”. Billy dice chiaramente che scrive per Maeve, se un giorno si sveglierà. In realtà scrive per capire le cose davvero importanti della sua vita. Spesso chiedono agli scrittori se scrivere sia una terapia, e ovviamente non lo è: è un’esperienza frustrante, ti fa ammattire. Ma per Billy scrivere è una specie di terapia. Alla fine, è lui stesso il suo pubblico.
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