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Sulla narrazione e sui narratori
di Oliviero Ponte di Pino
Questo testo è stato originariamente pubblicato il 14 aprile 1999 su "Diario della settimana" con il titolo L'altra storia va in scena.
 
 

Di questi tempi, sta diventando possibile ascoltare una diversa storia dell’Italia contemporanea. Diversa da quella che insegnano a scuola, da quella che leggiamo sui libri di scuola e su giornali più o meno assetati di rivelazioni, diversa da quella che i politici rimuovono o distorcono a seconda delle convenienze del momento.

Questa storia vissuta – e questa identità italiana – ce la raccontano in forma di monologo, per episodi e personaggi, alcuni attori che in diversi casi hanno raggiunto un pubblico molto più ampio di quello teatrale, grazie alla televisione ma anche in luoghi non specificamente teatrali: aule, fabbriche e manicomi, piazze e carceri, eccetera. Gli esempi più clamorosi sono il Vajont di Marco Paolini (con il suo exploit Auditel); Corpo di Stato, dove Marco Baliani rievoca i giorni del sequestro Moro come li ha vissuti lui, giovane militante di estrema sinistra, e come l’hanno cambiato; o ancora il work in progress di Laura Curino sugli Olivetti padre e figlio. In questi caso, per le trasmissioni tv su Raidue (che si è accorta del fenomeno) sono stati scelti non a caso luoghi emblematici come la sommità della diga, le rovine del foro romano, il tetto dello stabilimento di Ivrea...

Questi spettacoli – e altri analoghi – sono tante cose insieme: ricostruzione storica, spesso intrecciata alla memoria personale, teatro civile (cioè politico nel senso migliore del termine), eccellenti prove di interpreti giunti alla maturità artistica. Ma sono soprattutto racconti: la loro forza e novità sta anche nella riscoperta di una forma antica, quasi antropologicamente originaria, di comunicazione. Come scriveva Walter Benjamin (in Angelus Novus, nell’illuminante saggio su Leskov, uno dei testi di riferimento di questa riscoperta), il narratore "è qualcosa di già remoto, e che continua ad allontanarsi (...) È come se fossimo privati di una facoltà che sembrava inalienabile, la più certa e sicura di tutte: la capacità di scambiare esperienze".

È vero che quella del narratore è una funzione che appartiene da sempre all’attore, ma ormai è stata quasi del tutto oscurata dall’attore-personaggio, dall’attore-corpo, dall’attore-sciamano. Gli attori-autori-registi che l’hanno riscoperta (a cui va aggiunto Gabriele Vacis, che ha in diverse occasioni collaborato con Paolini e Curino, a lungo suoi attori con il Teatro Settimo) hanno alcuni evidenti punti di riferimento: il più pvvio è Dario Fo, un po’ quello della controinchiesta sul caso Pinelli Morte accidentale di un anarchico, un po’ quella dei monologhi di Mistero buffo. Ma riecheggiano anche certi libri di Corrado Stajano e di Nuto Revelli (al suo Il disperso di Marburg si è ispirato Silvio Castiglioni per Remengòn), o magari certi film-denuncia di Rosi. E ancora il modello di Pasolini, come osservatore della mutazione antropologica degli italiani e come accusatore del Palazzo ("Io so...").

Ma il cammino per reinventare questa oralità è stato ben più lungo dell’identificazione di alcuni riferimenti. Per costruire uno di questi spettacoli, al di là delle ricerche documentarie, sono necessari anni di lavoro sulla scena. Infatti crescono replica dopo replica, nel confronto e nel dialogo con il pubblico: per Vajont ci sono voluti quattro anni dai primi racconti nelle case di amici alla serata televisiva, e anche quella sera qualcosa è cambiato per inglobare nuove informazioni; anche la saga su Ivrea e gli Olivetti è in cantiere da almeno quattro anni, e non è ancora giunta a conclusione.

Ancor prima, era stato necessario un lungo lavoro per ritrovare la forza dell’oralità. In primo luogo c’è un problema di attenzione: non a caso molti di questi attori hanno una lunga esperienza con i bambini. Marco Baliani ha lavorato a Genova addirittura con un gruppo di ragazzini con gravi deficit d’attenzione: quando, dopo numerosi tentativi, è finalmente riuscito a portarli fino in fondo alla più classica delle fiabe, tra lo sbalordimento di psicologi e insegnanti, si è accorto di aver affinato le sue tecniche d’attore. Ha poi scelto di applicarle a uno spettacolo per adulti, raccontando il Michael Kolahas di Heinrich von Kleist (che non a caso parla di un’ingiustizia subita e di una giustizia impossibile). Ma, quasi a voler saggiare la dimensione più radicale del narrare, si è imposto limiti rigidissimi: seduto su una sedia dall’inizio alla fine, con una luce fissa.

Padroneggiare la grammatica dell’attenzione non è sufficiente per diventare un narratore. Si tratta anche di associare il punto di vista di chi parla a una sorta di onestà, di integrità. È necessaria una auto-legittimazione, che gli dia autorevolezza agli occhi del pubblico, e che può essere radicata solo nel vissuto, nell’esperienza personale. La storia che ci racconta lo riguarda almeno quanto riguarda noi. Marco Paolini, per esempio, ha iniziato a raccontare nelle scuole una decina d’anni fa, con Adriatico, le avventure di Nicola, un bambino che parte per il suo primo soggiorno in colonia. Pian piano il pubblico è diventato adulto, ma soprattutto Nicola è diventato una specie di alter ego di Paolini, seguito nel corso di quattro successivi "Album", cresciuto fino all’età di vent’anni, in una vera e propria Heimat in forma di monologo. Anche Laura Curino, prima di affrontare la storia di Ivrea e degli Olivetti, ha iniziato a raccontare in Passioni la propria vocazione teatrale. È un apprendistato determinante, perché anche quando non parla di se stesso, il narratore si mette sempre in gioco. O meglio, mette in rapporto la propria esperienza con un mito o un racconto che possono avere risonanze collettive: all’inizio del Vajont, Paolini ricorda il suo viaggio in treno verso le vacanze; prima di affrontare il "mito di Ivrea", Laura Curino mette a confronto la "bambina Fiat" che era con gli invidiati "bambini Olivetti". Ma di sicuro a legittimare questi spettacoli c’è qualcosa di più della memoria individuale e romanzesca: una terra (il Piemonte che unisce Ivrea e Torino per Curino; il Veneto per Paolini, che con i recenti Bestiario veneto e L’Orto è diventato un’autentica coscienza politica e poetica del Nord-est), o un vissuto collettivo (la militanza della sinistra cui si appellano Baliani, o sua moglie Maria Maglietta quando si cala nei panni della bolognese Gina Negrini e rivive gli anni della Resistenza e dell’immediato dopoguerra in Sole nero). Solo questo retroterra collettivo può sostenere un’ambizione epica, e insieme un teatro civile. Senza dimenticare che i racconti, per la loro stessa natura, continuano a vivere e propagarsi in altri racconti: quelli che gli spettatori faranno della loro esperienza e delle loro emozioni. È così che questi monologhi, senza scenografia e senza personaggi, incarnazione di un teatro che si vuole povero, appaiono più efficaci di spettacoli assai più ricchi e ambiziosi.

Perché questi assoli sono anche teatro politico nel senso più alto del termine. Oltre la memoria, presuppongono un’idea di storia: una storia che è fatta prima di tutto di generazioni, che hanno il dovere di trasmettere la propria esperienza. Da un lato si tratta di recuperare l’esperienza dei padri – o meglio, l’esperienza che i padri non hanno saputo trasmetterci (e già la necessità di recuperare il loro punto di vista li condanna). Baliani e Maglietta hanno lavorato a lungo sui diari e sulle testimonianze letterarie delle due guerre e della resistenza (per raccontare quegli anni nelle Langhe nel monologo Dei liquori fatti in casa, Beppe Rosso è tornato sui Pavese, Fenoglio e Lagorio); Olivetti è l’emblema di un capitalismo italiano che è rimasto mitico, ma di cui oggi è pressoché impossibile ritrovare le tracce; la tragedia del Vajont incarna sogni e debolezze dell’Italia del boom.

Dall’altro si tratta ovviamente di trasmettere alla generazione successiva la propria esperienza, il proprio rapporto con la Storia (che è anche uno straordinario repertorio di storie: è anche questo che cercano i numerosi gruppi giovani che ripropongono episodi legati alla resistenza e all’olocausto). Ma quale storia d’Italia, quale storia della Prima Repubblica, possono raccontare oggi, ai loro figli più giovani, questi attori che si sono posti consapevolmente il problema della memoria? Tanto per cominciare, quella che esplorano agganciandosi ad alcune parole-mito che tutti conosciamo ("Vajont", "Moro", "Olivetti", "Resistenza", e lo sarebbero anche "Ustica" o "Piazza Fontana", o quel "2 agosto" che proprio Baliani a celebrato qualche anno fa a Bologna con un oratorio laico), non è solo storia: sono ferite ancora aperte, conti che non è stato possibile chiudere – e forse non lo sarà mai. Da questi spettacoli emerge soprattutto un grumo di grandi speranze e occasioni perdute: tanto nelle ricostruzioni della resistenza e dell’immediato dopoguerra, quanto nella vicenda degli Olivetti. È anche una storia piena di buchi neri, che fatica a trovare una verità: si tratti di giustizia impossibile o di misteri. Quella che raccontano, allora, è sempre la ricerca di una consapevolezza. Dove non bastano le "informazioni", ma è ancora più importante il loro segno emotivo. È incamminandosi lungo questo sentiero che molti racconti italiani sfociano nella tragedia – nel senso più nobile e antico: nella storia dell’Italia contemporanea s’intravvede lo scontro tra i colpi del destino e una consapevolezza che non basta a pacificarci.

copyright Oliviero Ponte di Pino 1999, 2000

 
 
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