ateatro 60.6 20/11/2003 Ri-connessioni Prosegue il dibattito sulla critica di Oliviero Ponte di Pino
Cari amici,
intanto grazie della cortese risposta. E su molte cose sono d’accordo con voi, anche se a volte non capisco bene quello che dite. Magari è una bella frase e suona bene, però non mi è chiaro a cosa vi riferite, per esempio, quando dite che bisogna offrire «visioni che riflettano posizioni, non solo [prendere] posizioni che riflettano visioni. A volte la durezza della presa di posizione nasconde e offusca la visione alle spalle; l’io, la soggettività, qui stanno». Parlate del rapporto tra il critico e l’opera? Di quello tra passato e presente? Bisogna allenare una soggettività più forte o più debole? O la debolezza della propria forte soggettività?
Ogni tanto mi fate dire cose che non ho detto. Non ho scritto né penso «che il sistema teatro sia intoccabile» (o che sia l’unico orizzonte di riferimento), tanto è vero che personalmente posso permettermi (per ora) il lusso di restarne fuori e combatto da sempre per cambiarlo. Ma poi capita, per esempio, che molti dei gruppi che piacciono a me (& a voi) dentro a questo sistema entrino alla prima occasione, dopo questue e compilazione di moduli, perché a loro questa pare l’unica possibilità di sopravvivenza e crescita, anche economica (magari per produrre spettacoli che costano diverse centinaia di milioni e perciò faticano a girare). Dunque mi sembra utile far in modo che questo ingresso nella rutilante burocrazia ministeriale avvenga nelle migliori condizioni, per loro: questo implica una conoscenza dei meccanismi e dei rapporti di potere che regolano il sistema, prese di posizione nei suoi confronti e una consapevolezza del valore culturale di un’opera in relazione a esso.
Inoltre non penso che confrontarsi con la storia implichi necessariamente tutte le brutte pratiche anatomo-patologiche che dite. Penso piuttosto che confrontarsi con la storia significhi innanzi tutto essere consapevoli che la realtà (e dunque anche la realtà in cui si muovono gli artisti, e anche quei pezzi di realtà che sono le opere d’arte, e soprattutto le opere di un’arte civile e sociale come il teatro) sia attraversata da differenze, fratture e conflitti: voi che scrivete sullo «Straniero» lo sapete meglio di me. E’ anche sulla base della storia – continuo a illudermi – che si può decidere a che cosa dire «sì» e «no», e che cosa riprendere dalla tradizione, e come.
Magari un pizzico di consapevolezza storica può aiutarci a interferire con l’evoluzione del sistema, e a capire (a illuderci di capire) quel che succede sul palcoscenico della storia, senza dire dei «sì» e dei «no» istintivi, intuitivi e acritici, ma lavorando (anche) sulle contraddizioni interne del sistema.
Aggiungo che queste fratture e differenze – questi paradossi – attraversano anche le nostre soggettività, e prime tra tutte le soggettività critiche. Dunque lo spirito critico cerco di esercitarlo anche (e prima di tutto) proprio nei confronti della mia soggettività, che come giudice primo e ultimo non mi pare del tutto affidabile. Anzi, è proprio l’attività critica – quello che vedo e che trascende il mio orizzonte – che spesso mi obbliga a mettere in discussione la mia soggettività e i suoi valori.
Un altro problema riguarda lo statuto attuale del teatro. Scrivete che «il teatro d’arte, da tempo uscito dal circuito del grande mercato delle idee ha – purtroppo – perso quella valenza che ne faceva fino a trent’anni fa un sistema da contrapporre al teatro ufficiale. Oggi la realtà ne fa un mercato di nicchia, una piccolissima bottega che sopravvive – anche e proprio in virtù di questa sua condizione di marginalità economica – come territorio di iniziazione all’arte». Che cosa vuol dire? Una volta sverginato dal teatro, il giovane artista dove deve andare? Dopo questa educazione teatrale, come può crescere? Facendosi promuovere dentro il teatro ufficiale (che tanto non lo vuole)? Dedicandosi al cinema o ai videogames, che costituiscono «sistemi più forti»? Ovviamente sono domande retoriche (e ironiche), perché tanto ogni artista farà quel che gli garba. Credo che il problema sia piuttosto capire dove e come questa marginalità culturale ed economica possa costituire un valore. Altrimenti meglio davvero occuparsi di arti «adulte» e artisti «maturi» (e magari campare meno precariamente).
Ma forse non è questo il vero nocciolo del problema. Se quello che volete dire è che lo sguardo critico non deve restare ristretto all’interno del piccolo orizzonte del teatro, sono perfettamente d’accordo: benissimo uno sguardo impuro, che sappia aprirsi alla realtà e alle altre arti, che mescoli e contamini. Però mi pare una richiesta ormai ampiamente condivisa e generica. Ecco, è un po’ questo che mi lascia perplesso: la genericità dei propositi impuri, la mancanza di obiettivi da raggiungere e di ostacoli da superare, la timidezza nel fare i nomi dei «nemici» – a meno che non vogliate bene a tutti. Più di tutto questo, mi sembra vi interessi la messa a punto di un vostro atteggiamento per renderlo pubblico, e va naturalmente benissimo. Ma a me questa rivendicazione di identità, di metodo e di programmatica marginalità non basta.
Così come è un po’ troppo generico anche il fortunato motto forsteriano «only connect». Il gioco delle connessioni è meravigliosamente bello e affascinante; il problema è che in questo gioco – credo – non tutto è permesso. «Only connect» non dovrebbe essere un biglietto gratuito per una deriva infinita: immagino che anche per voi ci siano connessioni permesse e connessioni impossibili (o vietate?). La catena dei significati e delle associazioni non è del tutto libera, altrimenti si rischiano la gratuità, la vaghezza o il delirio. Allora mi illudo che le due o tre cose che ho citato prima possano aiutarmi a capire i limiti entro cui si può e deve muovere la lettura critica di uno spettacolo teatrale (ma anche, più in generale, di qualunque testo e forse della realtà). Anche in questo sta la responsabilità del critico.
Con affetto
Oliviero
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