ateatro 60.3 15/11/2003 Il critico impuro* dallo "Straniero", ottobre 2003 di Fabio Acca, Carla Romana Antolini, Andrea Lissoni, Andrea Nanni, Barnaba Ponchielli, Rodolfo Sacchettini, Cristina Ventrucci
Questo testo è stato pubblicato su "Lo straniero", ottobre 2003.
Approcci impuri
Esiste ancora il mestiere del critico? La società sembra considerarlo superfluo e improduttivo, a volte fastidioso, ininfluente se non a livello di piccoli e miserabili potentati. D’altro canto, gran parte dei critici si limita a piangere sul poco spazio dedicato (dai giornali e dagli altri media) al teatro, accusando la latitanza del pubblico in una sterile e vittimistica difesa del proprio orticello, annaspando tra contributi informativi e censori, minati dal falso efficientismo della comunicazione, aggrappati a criteri di giudizio logori e sclerotizzati. Eppure, come gli artisti riescono a conquistare spazi e a costruire altri percorsi, così il compito del critico sembra quello di far valere la propria inutilità, rinnovandosi e nutrendosi di teatro ma anche di altre discipline (anche in questo caso gli artisti offrono spesso un valido esempio). La frequente difficoltà a trovare un buon articolo o un buon saggio piuttosto che uno spettacolo significativo è il segno evidente di una vitalità che si manifesta sulla scena e che pare irrigidirsi sul versante critico. Nel migliore dei casi la critica si mostra derivativa rispetto al lavoro degli artisti, non trovando le forze per ricostituirsi in autonomia e per restituire nuovo significato a un linguaggio spesso usurato e inefficace. Eppure oggi più che mai appare impossibile dividere "arte" e "parte": lo sguardo dichiaratamente partigiano e parziale si conferma il più onesto e pro-vocatorio, l’unico in grado di assumere una precisa posizione etica nei confronti del presente, posizione imprescindibile per leggere il reale attraverso il teatro e viceversa, per distinguere il valore testimoniale di un’opera nel dilagare dei flussi modaioli. Oggi più che mai appaiono necessarie mobilità di sguardo, coscienziosa pratica dell’azzardo e umiltà nel confrontarsi con le innovazioni avvenute sul piano del linguaggio. In un orizzonte teorico segnato da una fragilità costitutiva, il compito del critico sembra quello di muoversi in direzione di un'impurità di approccio che permetta di indagare la realtà attraverso sguardi molteplici. Un approccio impuro si nutrirà dunque di teorie diverse, anche contraddittorie, secondo un respiro che non cerchi ancoraggi e sia disponibile a coniugare in maniera inedita stimoli provenienti da diverse discipline. In bilico su una soglia in continuo spostamento, il critico impuro si muove senza bussola, navigando a vista, tracciando orbite irregolari e paradossali. In questo procedere per approssimazioni, libero dall'ansia sterile della definizione, o per meglio dire dell’etichetta, il critico appare l’opposto dello specialista, non settario e settoriale, ma disposto a farsi spostare e a rimettere a fuoco la propria percezione.
L’esercizio della critica
Forse il compito è soprattutto quello di proporre visioni. Aprire possibili (umanamente imperfetti) percorsi di letture e di sguardi a partire dalla scena e verso il mondo. In questo l’esercizio della critica è avvicinabile a quello dei programmatori più intraprendenti e consapevoli. Cercare di segnare dei tracciati di senso che s’innescano da una singola opera o – più difficile ma ancora più affascinante – da una sequenza, rafforza, sostiene e problematizza il lavoro di autori e programmatori: genera, crea e dà forma a un ambiente. Naturalmente non si tratta di un esercizio di marketing da condurre secondo una logica ormai esaurita di ricerca di ricorrenze, contiguità e similitudini fra oggetti (opere) più o meno contemporanei. Il punto è proporre visioni forti, sì di eventuali corrispondenze o relazioni fra oggetti, ma fondate anche sulle discrasie, le distanze, le opposizioni, con sullo sfondo lo scenario sia della creazione (e del suo stato) sia del reale. L’obiettivo è quello dell’apertura su un mondo e sulle sue ragioni d’essere e, contemporaneamente, sulle potenziali ragioni d’essere rispetto al presente, al reale. Un tracciato basato sull’onestà intellettuale e la sincerità, capace di fornire al pubblico le motivazioni per seguire o prendere in considerazione uno spettacolo dal vivo. Non sempre, anche per l’evidente molteplicità di forme della creazione, l’empatia fra autore e pubblico è dato certo o scontato. Lo scarto, la distanza, la differenza, il vuoto e il disagio nell’ambito della sfera della ricezione, sono in ogni modo anche segnali di una continuità e di una relazione con una tradizione della ricerca. La scena è fatta di segni. Si tratta di elementi da inquadrare, evidenziare, tradurre, nel senso etimologico del termine, e interpretare. I segni, quei segni esistono. Accertata l’autenticità del processo che li genera – ed evidenziato che siamo, con grande probabilità, fuori da una dialettica della modernità scandita da innovazione e suo consolidamento in tradizione – resta da affrontare quei segni e ricombinarli, distanziandosi anche dalle fonti e dalle ombre della poetica degli autori. La loro ricomposizione in una traccia non necessariamente inedita ma percepibile come una visione, come frutto di uno sguardo, è la migliore premessa per una relazione con lo spettacolo e le arti della scena che sia autentica e soprattutto aperta. Come pubblico prenderemo forse le distanze, ma riconosceremo uno sguardo, un taglio dell’orizzonte possibile e, senz’altro, pur nel rispetto della differenza individuale, una corrispondenza con un "ambiente". Un ambiente che sarà multiplanare, fondato su asincronie, atopie, incongruità e corrispondenze. Di qui, per chi cerca un ambiente e per chi lavora a generarlo, la potenzialità e l’arricchimento del confronto extradisciplinare, per quanto disciplinato. Relativizzare, dichiarare il proprio cambiamento d’opinione o l’errore, la rivalutazione alla luce di…, è l’unica attitudine possibile per rigenerare il proprio sguardo e mettere costantemente in gioco la propria attendibilità. Del resto, lavorare tenendo conto della sensatezza del proporre visioni, ha il vantaggio di esporsi, mettendo in gioco la propria lettura della scena ma anche e soprattutto quella del contemporaneo. Di qui, un passaggio evidente. Il lavoro critico si dichiara direttamente politico.
La politica delle forme
Se l’artista può essere considerato la coscienza della sua epoca e del suo tempo, colui che prima di altri intuisce le trasformazioni, allora il valore politico dell’esercizio critico non può non confrontarsi con la responsabilità dell’essere testimone dei fermenti in atto, individuabili nelle forme del teatro. L’espressione artistica, intesa come creatrice di immaginario, libera da debiti con la cronaca o con il contingente, risulta una fertile chiave di lettura del mondo contemporaneo. Il carattere prismatico e polimorfo dell’organismo spettacolo ha un imprescindibile valore politico quando riesce a realizzare nel suo complesso la negazione di identità particolari, stabili e solide, identificandosi piuttosto nella loro mutevolezza. Nel mostrarsi, le forme contengono il rapporto di complicità tra diversi linguaggi, il percorso di chi le ha pensate e realizzate, il dialogo con ciò che è già avvenuto sulla scena fino a quel momento, ma anche le modalità produttive che le caratterizzano e lo spostamento che propongono nell’interrogarsi sull’esistenza individuale e collettiva. C’è un forte aspetto politico negli organismi che rimettono in discussione le regole del gioco e il rapporto con la platea, dove l’estetica non è un’entità separata rispetto ai conflitti e alle contraddizioni della realtà. La politica, liberata dal rischio di ridursi a comunicazione o informazione, diviene atto che si misura con contraddizioni e domande senza risposta, rendendo la scena termometro della trasformazione contemporanea. D’altro canto l’onestà intellettuale a cui il critico è chiamato richiede una presa di posizione politica in rapporto alla tradizione, intesa non come mera usanza ma come viva trasmissione di cultura. In quanto osservatore privilegiato, il critico teatrale ha il compito di rivolgersi ai suoi interlocutori non per consegnare loro un senso compiuto e consolatorio, ma per sollevare questioni e rilevare fratture.Il valore dell’esercizio critico appare allora strettamente legato alla sostanza di una scrittura capace di ospitare diverse tensioni, in bilico tra la necessità di forgiare nuovi strumenti e di rivitalizzare, quando è possibile, quelli usurati.
Sul linguaggio
Intendendo il critico come figura dello sguardo e dello scavo anziché del giudizio, figura parziale e partecipe anziché distante e illusoriamente obiettiva; considerando il lavoro di osservazione e scrittura una possibilità a sua volta creatrice di mondi, di ambienti e cortocircuiti, l’importanza di una particolare attenzione al linguaggio risulta consequenziale. Scelto il teatro d’arte come unico ambito scenico che si voglia nominare teatro – scelta che restringe assai l’area di riferimento e che pensa più a una comunità di addetti e appassionati, o comunque a un’area riflessiva e impegnata, piuttosto che a un lettore indistinto o di mercato (non essendo oggi il teatro luogo dell’attenzione collettiva) – ci si allontana dall’idea di una funzione didattica e demagogica della critica, per concentrarsi sulla potenzialità maggiore di un linguaggio personale, strettamente legato sul piano lessicale agli argomenti e alla natura di ciò che va a illustrare, e produttore a sua volta di immagini e immaginari. Il riferimento a una comunità teatrale ristretta non giustifica in alcun modo, secondo questa visione della critica, atteggiamenti di difesa, spirali allusive, costruzioni di potere; considerando fondamentale lo sviluppo di un dibattito, si auspicano assunzioni di responsabilità, affermazioni leggibili e ampiamente argomentate, disponibilità all’ascolto. Così come i criteri di sguardo, anche i criteri di scrittura, di indagine, di esposizione, esprimono il valore politico dell’esercizio critico, valore assolutamente intrinseco alle modalità di espressione. Non interessa l’esibizione colta fine a se stessa, né la forzata produzione di neologismi. Lungi dalla smania del nuovo, il critico che si pone ogni volta di fronte a un vuoto, ogni volta si interroga sulla propria parola, mescolando intelletto e sensi, etimologia e sonorità, desiderio di trasparenza e adesione al materiale artistico di cui sta trattando. Si proporrà così come massimamente onesto ed espressivo il linguaggio che maggiormente esprima una personalità, che esplori paesaggi individuali e che rifacendosi insieme all’esperienza personale, all’oggi e all’oggetto del parlare, da particolare si faccia universale. È un linguaggio che contempla, che fa della scena il proprio orizzonte, che respira all’unisono con le domande poste dal teatro. Il critico impuro, non ristretto alla recensione (troppo spesso spacciata per ultimo e unico baluardo da opporre alla deriva), confuso tra arte e mondo reale, disinteressato al mercato ma difensore di uno spazio della ricerca e dell’intraprendenza, impegnato nel fare, contrario alla ghettizzazione ma consapevole di una solitudine dell’arte e dello sguardo, interessato al farsi arte di certe vite, procede a un inseguimento del teatro piuttosto che all’atto violento e sterile di portare il teatro al proprio punto fermo; invece che interpretare, si lascia destabilizzare; invece che compilare pagelle, crea il proprio racconto; spostato sposta.
Un esempio: il rapporto tra sguardo critico ed esperienza teatrale
Se la critica cerca di cogliere i segnali della società teatrale vivente per poi ridistribuirli (anche) come valore personale, autonomo e indipendente, allora il teatro è un’amicizia complessa, che parla se viene interrogata in modo non convenzionale e sa sorprenderti se gli poni le giuste domande. Si potrebbe dire che il teatro è un alveare che custodisce il tesoro della propria capacità autorigenerativa in un labirinto di possibilità di discorso. Tutto sta nella disponibilità del critico a perdersi. Prendiamo la questione della dialettica tra "spettacolo" e "percorso verso lo spettacolo", o in altre parole tra "prodotto" e "processo". Nell’articolazione del rapporto tra sguardo critico ed esperienza teatrale, la dialettica tra "processo" e "prodotto" ha cominciato ad attraversare una crisi probabilmente destinata a tradursi in una prassi irreversibile, manomessa dalle istanze creative e produttive di alcune realtà teatrali. Il processo di emancipazione del nuovo teatro, e conseguentemente della nuova critica, ha indicato prima nello spettacolo come "scrittura scenica" e poi nel "processo creativo" i termini per una dialettica dello sguardo che tenesse conto di una concezione non gastronomica del lavoro teatrale, che indagasse l’esperienza nel teatro come un meccanismo mobile e complesso. Se rinominiamo in maniera un po’ barthesiana questi due termini rispetto alla dinamica percettiva che essi mettono in atto ("l’aperto" al posto dello spettacolo, come condizione di confronto con l’esterno; "il chiuso" al posto del processo creativo, come condizione di lavoro autoriflettente e analitica), ci accorgiamo che entrambi nascondono un obiettivo comune, quello di aderire – salvo casi rarissimi – a una produttività ultima e determinante che ha ancora nello spettacolo la sua condizione ideale, dove per spettacolo si intende la formalizzazione di un evento teatrale come stazione mirata di un processo creativo, l’atto conclusivo di un percorso. Questo fare così determinato subisce da diversi anni delle vere e proprie aggressioni, motivate da una parte da un valore puramente espressivo di fuoriuscita dal codice, dall’altra da una necessità produttiva che riorganizza il teatro in forme di esperienza sempre più ibride, che ne aprono il senso e i segni. Riconvertendo a proprio vantaggio la tradizione del nuovo, la società del teatro produce soluzioni performative e categorie del linguaggio che decentrano il discorso dai modelli dominanti dello "spettacolo" e del "processo". Piuttosto tendono a rinserrare simultaneamente questi termini, passando dallo spettacolo al "formato" e dal processo al "conduttore teatrale". Il formato implica sempre una relazione con uno spettatore in un dato spazio e in un dato tempo, mantenendo dunque l’elemento relazionale come fatto costitutivo dell’esperienza teatrale. Ciò che non lo rende sovrapponibile allo spettacolo è la morfologia dell’evento, sia perché si nutre di codici e immaginari sempre più spesso non direttamente legati al teatro, sia perché crea un tipo di relazione non sempre pienamente riconducibile al teatro, spesso usando come interfaccia dispositivi appartenenti ad altre tradizioni artistiche. Inoltre, se lo spettacolo nel codice produttivo del teatro è la stazione di sintesi di un processo creativo, spesso ultimo e definitivo, la produzione teatrale oggi sviluppa sempre più spesso forme produttive che sono l’emanazione di una corrente teatrale continua, un "sempre aperto" che rende visibili le diverse fasi di un processo creativo. E il formato, pur proposto come opera chiusa, conserva un valore intermedio di "studio", che l’artista valuta, analizza e col quale confronta risposte di pubblico e variazioni pertinenti rispetto a uno spettacolo conclusivo.
Una critica impura dovrà dunque adottare uno sguardo prismatico, non solo nell’accezione, ormai acquisita, di una diffusa transdisciplinarietà, quanto di una forma critica lamellare, intuitiva e analitica allo stesso tempo, in grado di individuare il valore teatrale anche se non coincide con un’identità dichiarata di genere e si riconosce piuttosto nell’estrema mobilità dell’esperienza teatrale. Con una parola già diventata teorema, si potrebbe definire il carattere di questa impurità nella capacità di rendere il proprio sguardo tanto nomade quanto lo richiede l’oggetto teatrale, fino a disperderlo senza nessun complesso di colpa nella frantumazione delle esperienze particolari degli artisti. Questo non significa affatto abdicare al teatro, piuttosto dichiararne la vivacità e individuarne la vitalità, la capacità di dialogare senza compromessi con altre forme artistiche senza perdere la propria incandescenza e identità.
Certe parole fuori moda (postilla)
Il ricorrere in questo scritto di alcune parole – umiltà, onestà intellettuale, sincerità, autenticità, responsabilità…, parole che facilmente potrebbero essere tacciate di vaghezza e di ambiguità, stigmatizzate come indicatori di una fragilità speculativa inabile a definire dettagli tutt’altro che trascurabili – è in realtà un atto di ottimismo, dato che nel sottrarsi all’enfasi compilatoria del legislatore, auspica la possibilità di un’intesa basata su un tutt’altro che generico gentlemen’s agreement, fondamento di comportamenti da declinare di volta in volta rispetto alla specificità e alla concretezza delle situazioni, in modo da garantire in ogni caso la maggior chiarezza e la maggior efficacia possibili.
*Questo scritto raccoglie le riflessioni emerse nel corso di un gruppo di lavoro sulla critica tenuto a Prato dal 10 al 12 giugno 2003 nell’ambito del festival Contemporanea03-Lo spettacolo e le arti delle nuove generazioni, realizzato dal Teatro Metastasio Stabile della Toscana.
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