ateatro 128.7
24/09/2010 
Il silenzio del teatro italiano
Prima e dopo la dismissione
di Fioravante Cozzaglio
 

Anch’io, come molti di noi, pensavo che alla fine l’Eti ce l’avrebbe fatta, soprattutto perché in Italia le riforme avvengono per sovrapposizione di enti, persone, funzioni, quasi mai azzerando la situazione e ricostruendo sul pulito. Quindi sono tra quelli che avevano mal giudicato la situazione.
Provo ora a interpretare la conseguenza di questo stato di cose, sperando di aiutare la comprensione della nostra prossima realtà.
In un recente colloquio con Ninni Cutaia, in cui chiedevo informazioni su quanto stava accadendo, ho sentito il sincero dispiacere con cui l’ex direttore generale lamentava il silenzio con il quale il teatro italiano ha accolto la “dismissione” (per usare le parole di Ermanno Rea) dell’ente. Non mi era facile contraddirlo, perché in effetti, a parte le doverose parole di circostanza e un paio di manifestazioni abbastanza partecipate, non c’è stata una vera levata di scudi. Ma non c’è stata, a essere sinceri, neanche su tagli molto gravi che colpivano l’universalità dei nostri addetti e soprattutto non c’è stato un vero collegamento tra quanto accade nel teatro italiano e quanto sta accadendo nel resto della società. Quale occasione migliore per saldare la nostra protesta e le nostre necessità con quanto sta accadendo nella scuola, nei musei, nelle università, negli istituti di ricerca e via via allargando il discorso, nei servizi sociali e nell’impianto produttivo del paese?
Se questo tentativo non è stato fatto non è solo perché, come pensano molti, tutto sommato a una parte del teatro italiano stava bene questa “dismissione” o perché la reale e attuale vocazione dell’ente non si era definita con sufficiente chiarezza attraverso le vicende di una storia lunga ormai sessant’anni o perché il bilancio dell’ente non era difendibile; il tentativo non è stato fatto a mio giudizio perché la reazione della società italiana a quanto sta avvenendo è un misto di rassegnazione, di stanchezza, di attesa più o meno insofferente di una svolta che non si avvera mai.
Ma ragionando in questo modo non ci si è accorti che con la “dismissione” dell’Eti si è aperta una diga da cui può passare di tutto: se si è abolito non un ente di stato, ma l’unico ente di stato di cui si era dotato il teatro italiano, è chiaro che il giorno dopo si possono abolire tranquillamente istituzioni meno radicate e abbandonare al loro destino enti privati che hanno come unica difesa il loro lavoro. Infatti per il 2011 si prevede un dimezzamento del Fus e, cosa che a me pare altrettanto grave, un taglio pesantissimo ai bilanci degli enti locali; provate a parlare con i sindaci di tutta Italia per capire cosa sta avvenendo a livello delle amministrazioni locali.
Io non so se la chiusura dell’Eti era evitabile; so che hanno giocato contro questa atmosfera opaca, la lentezza, probabilmente necessaria, con cui l’ente si stava trasformando sotto una gestione più virtuosa delle precedenti, la stessa alienazione dei teatri che era il presupposto della trasformazione dell’ente ma non ha giovato alla sua conservazione, perfino alcune ripicche “politiche” che nel nostro paese non ci facciamo mai mancare. Per evitarla bisognava combattere con energia contro tutti questi fattori e avere un progetto chiaro sul futuro non solo dell’ente ma dell’intero sistema teatrale italiano. Mi sembra quindi che non fosse facile evitarla.
A cose fatte, vorrei dire a delitto consumato, non è che di questa energia e di questa chiarezza di idee non c’è più bisogno. Se il teatro italiano vuol conservare un minimo di autorità per quando verranno tempi migliori (perché verranno, non c’è dubbio), deve trovare il coraggio di fare sistema e di dire, prima a se stesso che agli altri, di cosa ha bisogno: a mio giudizio di una proiezione verso l’Europa che non può che essere guidata da un organismo centrale; di una legislazione certa che fissi regole chiare e uguali per tutti, addetti ai lavori delle vecchie e delle nuove generazioni, istituzioni centrali e sistema delle autonomie; di una riorganizzazione del sistema distributivo, che è vecchio non nei suoi elementi terminali ma nella sua concezione; di un lavoro di promozione a tutto campo sul nostro pubblico, perché non possiamo vantarci di avere da oltre trent’anni lo stesso numero di spettatori, in presenza di una società che si è “spettacolarizzata” in tutte le sue forme. C’è lavoro non solo per un nuovo ente, ma per la nuova generazione che si sta affacciando al teatro.


 
© copyright ateatro 2001, 2010

 
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